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DELLA VITA DEL PITOCCO LIBRO SECONDO. CAPITOLO II. Nel quale si seguita a dire della materia incominciata e di altri straordinari accidenti. |
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CAPITOLO II. Nel quale si seguita a dire della materia incominciata e di altri straordinari accidenti.
Come Dio volle, fece giorno e noi ci mettemmo in ordine tutti. Io avevo ormai tanta confidenza con loro come se si fosse tutti fratelli: arrendevolezza ed apparente simpatia che si trovano sempre nel male. Bisognava vedere l’uno mettersi la camicia in dodici riprese, divisa, come era, in dodici pezzi, e dire per ciascuno un’orazione come fa il prete quando si para: chi smarriva una gamba nei meandri delle brache e se la vedeva sbucar fuori dove meno conveniva, un altro chiedeva di una guida per mettersi il giubbone, e non ci si poteva rinvenire in mezz’ora.
Alla fine, e non fu cosa di poca durata, impugnarono tutti ago e filo per fare una ricucitura a questa e a quella tana. Chi, per rinfrinzellarsi sotto il braccio, col distenderlo, prendeva figura di un L; chi, piegato sui ginocchi, rammendava un cinque in cifra araba e veniva in aiuto alle calze lunghe e attillate; un altro, ripiegando l’inforcatura delle coscie e mettendo fra di esse la testa, prendeva la figura d’un gomitolo. Non dipinse mai tanti atteggiamenti Bosco52 quanti ne vidi io, poiché costoro cucivano, con l’occorrente che la vecchia porgeva loro, brindelli e sbrendoli di differenti colori che avevano raccolto il sabato. Terminata l’ora del racconciamento, com’essi la dicevano, presero a osservare scambievolmente quello che c’era ancora di male aggiustato. Risoltisi a uscire, io dissi che desideravo mi si indicasse un vestito per me, giacché volevo spendere i miei cento reali nell’acquistarne uno e levarmi di dosso la sottana. – «Questo no, dissero loro: il denaro sia depositato; vestiamolo subito dal nostro guardaroba e indichiamogli il suo territorio nella città, dove egli solo possa andare in busca e farsi il nido. La cosa m’andò: depositai il danaro e, all’istante, della sottana me ne fecero una casacca da lutto, di pannolano, e il mantello, scorciato che fu, mi tornò bene. Quel che avanzò lo barattarono con un vecchio cappello ritinto, ci misero per fiocco certi stoppacci di calamaio, accomodati con molto gusto. Mi levarono il collare a lattughe e i pantaloni alla vallona, in luogo dei quali mi misero certi calzoni allacciati al farsetto, con certi squarci non però sul davanti, ma ai fianchi e alle parti di dietro che erano in pelle. Anche le mezze calze di seta non eran mezze, non arrivando, al piú al piú, che a quattro dita di sotto il ginocchio, le quali quattro dita ricopriva lo stivale di giusta misura sulla calza rossa che avevo al piede: il collare era tutto aperto, traforato naturalmente. Me lo misero dicendomi: – «Il collare è un po’ strappazzato di dietro e sulle spalle: se mai la guarda una sola persona, vossignoria si rigiri dalla sua parte, come un girasole; se poi son due e la guardano di fianco ciascuno, batta il tacco; per chi poi le sia alle spalle, vossignoria porti sempre il cappello ripiegato sulla nuca, in modo che la tesa cuopra il collare e lasci scoperta la fronte: che se qualcuno domandasse perché cammina cosí, gli risponda che perché può ben per tutto il mondo andare a faccia scoperta». Mi fu data una scatola con dentro filo nero e bianco, seta, spago, ago, ditale, del panno, della tela, del raso e altri piccoli ritagli e un coltello; nella cintola mi misero un biglietto, e in una borsa di cuoio l’esca e l’acciarino, dicendo: – «Con questo scatolo vossignoria può girare tutto il mondo senz’aver bisogno di amici né di parenti; vi è racchiuso ogni nostro soccorso: la prenda e la conservi». Mi fu indicato, per guadagnarmi la vita, il quartiere di S. Luigi, e cosí cominciai la mia giornata, uscendo di casa con gli altri; tuttavia, essendo novizio, mi dettero, per iniziarmi alla vita di scrocco, per padrino, quasi a sacerdote novello, quello stesso che mi aveva condotto là e aveva operato la mia conversione.
Uscimmo, io e lui, di casa a passi lenti e con i rosari in mano. Prendemmo la via verso il quartiere che mi era stato indicato, pieni di cortesie con tutti; agli uomini levandoci il cappello (e cosí avremmo volentieri levato loro le cappe) e facendo riverenza alle donne che se ne compiacciono; tanto piú poi riverivamo i frati. Diceva il mio aio a taluno: – «Mi portano domani dei quattrini»; e ad un altro: – «Vossignoria voglia attendere un giorno, perché la banca mi dà parole». Chi gli chiedeva la cappa, chi insisteva per la cinta; dal che capii ch’egli era tanto intimo dei suoi amici da non avere nulla di suo. Andavamo strisciando come bisce da un marciapiede all’altro per scansare dove abitassero creditori. Uno ecco che gli chiedeva il fitto della casa, un altro quello della spada, un altro ancora quello dei lenzuoli e delle camicie; di modo che m’accorsi ch’egli era, non diversamente che una mula, cavaliere da nolo. Accadde pertanto che scòrse da lontano un tale il quale, come diceva, per certo debito, gli avrebbe levato gli occhi, poiché denaro sarebbe stato impossibile. Perciò, affinché non lo riconoscesse, si sciolse la capigliatura che portava raccolta dietro le orecchie, e parve un ecce homo, qualcosa di mezzo tra il volto santo della Veronica e un cavaliere dalle lanose gote; si appiccicò un cerotto ad un occhio e si mise con me a parlare italiano. Fu a tempo a far ciò mentre l’altro veniva avanti; il quale, occupato com’era a chiacchierare con una vecchia, non l’aveva ancor visto. Vero è tuttavia che vidi costui rigirarsegli attorno come cane voglioso di avventarsi, e che si faceva piú segni di croce di uno che incanti i mali con gli scongiuri, finché se n’andò con dire: – «Gesú! credevo che fosse lui: chi ha perduto il bove, sogna sempre il campano». Io morivo dal ridere a guardare il mio amico. Entrò sotto un portico a raccogliere la chioma, a staccarsi il cerotto, poi disse: – «Sono questi i trucchi per non riconoscere debiti. Imparate, fratello; di queste cose ne vedrete tante e tante fra la gente.»
Proseguimmo la via e ad una cantonata, per esser di mattina, prendemmo due fette di marmellata e dell’acquavite da una ciana che questo ci dette gratuitamente dopo aver salutato il mio maestro, che mi disse: – «Cosí rifocillato, uno se ne vada pure senza la preoccupazione del mangiare per oggi: per lo meno questo non può mancare». Ci rimasi male, perché pensavo che fors’anche era in dubbio il desinare e gli risposi addolorato in nome del mio stomaco. Al che egli: – «Uomo di poca fede nella santa istituzione e nella regola dei vagabondi! Il signore non vien meno ai corvi e alle cornacchie; neppure agli uscieri; or dovrebbe venir meno ai miserini allampanati? Avete uno stomaco delicato». – «È vero, dissi, ma temo di metterci poco o nulla». Eravamo in questi discorsi quando suonò mezzogiorno a un orologio. Nuovo come ero a quella vita, alla mia budella non era andata molto a versi la composta e avevo fame come se non ne avessi mangiato. Al rinnovato ricordo quindi del pasto, mi rivolsi all’amico e gli dissi: – «Fratello, questa faccenda della fame è noviziato molto noioso. Ero abituato a mangiare piú d’un lupo e mi si è messo a digiunare! Se non n’avete voi fame, mal di poco, perché, abituato ad essa fin da ragazzo – come quel tale re al veleno53 – ben vi sostentate di essa. Non vedo che vi diate troppo da fare per la pappatoria; perciò io son deciso a far del mio meglio». – «Che Dio v’assista, rispose: ma se è sonato ora mezzogiorno; tanta furia? Che appetito puntuale e che ordini perentori! Eppure bisogna tollerare pazientemente qualche pagamento in ritardo. Non far che mangiare tutto il giorno! Che fanno di piú gli animali? In nessun libro si legge che mai cavaliere della nostra regola abbia avuta la sciolta; anzi, mal provvisti affatto come siamo, non... ci provvediamo neppure. Ve l’ho già detto che Dio non vien meno a nessuno. Se poi avete tanta furia, io me ne vado ber la zuppa al convento di S. Girolamo, dove ci sono quei frati butirrosi come capponi, e lí mi farò la pancia piena. Se voi volete seguirmi, venite; se no, ognuno per i fatti suoi». – «Addio, io gli dissi; non è cosí poco quel che mi bisogna da poterci rimediare con gli avanzi degli altri: vada ognuno per la sua strada». Il mio amico se n’andava tutto interito e rimirandosi ai piedi: tirò fuori certe briciole che portava per l’occorrenza, sempre, in una scatolina e se le sparse per la barba e sull’abito, in modo che pareva avesse desinato. Io andavo tossendo e stuzzicandomi i denti per dissimulare la mia debolezza, arricciandomi i baffi, col cappello sul viso e la cappa sulla spalla sinistra, trastullandomi con le poste del rosario, che ne aveva dieci soltanto. Quanti mi vedevano, mi prendevano per uno che avesse mangiato: se mai, un par di zeri! e non avrebbero sbagliato.
Camminavo tutto fiducioso nelle mie monetine d’oro, per quanto mi rimordesse la coscienza il fatto che era contro la regola mangiare a proprie spese chi nel mondo vive a budella vuote; e ormai me n’andavo, deciso a spezzare il digiuno. Giunsi frattanto all’angolo della via S. Luigi dove stava un pasticciere. C’era in mostra un pasticcio di due lire, ben rosolato: l’afrore del forno mi venne a dare nel naso, sí che di botto mi arrestai dal passo di che andavo, come cane da pernice; e messivi gli occhi su, lo guardai cosí intensamente che il pasticcio si risecchí come per fascino. Immaginarsi i disegni che facevo per rubarlo! a tratti però mi sentivo anche disposto a pagarlo. In questo mentre suonò il tocco, e ne fui cosí angustiato che mi decisi a infilarmi in una taverna. Io che ero in cerca di appostare qualcuno, come Dio volle, m’imbatto in un certo dottore Saettino mio amico, che, trottarellando, scendeva la strada, con in faccia piú verruche che non ne abbia un uomo sanguigno, e cosí impillaccherato che pareva un carrettone da spazzatura. Al vedermi (e, nello stato in cui ero, fu già molto il riconoscermi) mi si precipitò incontro. Lo abbracciai, mi domandò come stavo; ed io subito: – «Signor dottore, quante cose ho da raccontarvi! Mi dispiace soltanto che me ne devo andare stasera». – «Mi dispiace a me questo; e se ora non avessi fatto tardi per desinare e non andassi di fretta, mi fermerei; ma mi aspetta una sorella maritata e suo marito». – «Ma che è qui la cara signora Anna? Anche a costo di lasciar tutto, andiamo, ché voglio fare il mio dovere».
Al sentire che non aveva pranzato spalancai gli occhi: me n’andai con lui e cominciai a raccontare che una certa donnina, di cui egli era stato innamorato in Alcalá, sapevo ben io dove abitava e che avrei potuto introdurlo in casa sua. Subito gli si infiammò il cuore all’invito; e fu accortezza entrargli in argomento piacevole. Discorrendo di ciò giungemmo a casa sua. Entrati, io mi esibii tutto a suo cognato e alla sorella, i quali, non d’altro convinti se non che, per venire a quell’ora, io venivo con certa intenzione, cominciarono a dire che se l’avessero saputo di dovere avere a tavola un cosí caro ospite, avrebbero preparato qualche cosa. Io, colsi l’occasione per invitarmi da me, dicendo che ero di casa e vecchio amico e che mi si farebbe offesa a trattarmi con le cerimonie. Si sedettero a tavola e io pure. Perché poi l’amico sopportasse meglio la cosa (non avendomi invitato né essendogli pur passato per la testa) di tratto in tratto gli ribattevo sulla giovincella, dicendo che mi aveva domandato di lui, che l’aveva nel cuore, e altre bugie consimili; ragione per cui sopportava con piú pazienza il vedermi ingollare, giacché la strage ch’io feci dall’antipasto non l’avrebbe fatta una palla in un antiporto. Venne il lesso e me lo trangugiai in due bocconi quasi tutto io, non per mal animo, però con una prestezza tanto accanita che, per quanto l’avessi fra i denti, pareva non ne fossi sicuro bene. Per il Dio che mi ha creato, non consuma cosí presto un corpo la terra del cimitero nella chiesa de l’Antigua di Valladolid54, la quale lo disfa in ventiquattr’ore, che io non facessi sparire la spesa della giornata, poiché fu con maggior rapidità d’un corriere speciale. Ben dovevano essi notare le mie brave sorsate di brodo e il modo di ripulire la scodella, l’accanimento verso le ossa e la strage che feci della carne: eppoi, se si deve dir la verità, tra uno scherzo e l’altro, m’imbottii la tasca di rimasugli. Come fu sparecchiato, ci appartammo io e il dottore a discorrere circa la visita alla sopraddetta donnina, che io gli feci molto facile. E mentre stavo con lui a parlare presso una finestra, fingendo che mi chiamassero dalla strada, dissi: – «Volete me, signore? Ora scendo». Chiesi licenza all’amico, dicendo che tornavo subito. Egli rimase lí che m’aspetta ancora, poiché sparii per via del pranzo scroccatogli e per essersi la compagnia disciolta. Piú altre volte mi ha poi incontrato, e io a scusarmi con lui, contandogli mille menzogne che non è del caso riferire.
Andatomene per le vie del Signore, giunsi alla Porta di Guadalajara55 e mi sedetti sopra una panca di quelle che i mercanti tengono vicino alle loro porte. Dio volle che venissero alla bottega due di quelle che chiedono a prestito sui loro visini, con la faccia velata a metà, accompagnate dalla loro vecchia governante e da un paggetto. Domandarono se c’era del terzo - pelo56 di finissimo lavoro, ed io subito, per attaccar discorso, cominciai un gioco di parole fra terzo e pelato e pelo e tra peli, che non la finivo piú sull’argomento. Capii che la mia scioltezza aveva dato loro qualche affidamento ch’io contassi per qualcosa nel negozio; e come colui che arrischiava senza avere a perder nulla, offrii loro quello che volessero. Stintignarono, dicendo che non prendevano da chi non conoscevano. Approfittando dell’occasione, dissi ch’era stata una audacia offrir loro cosa alcuna, che tuttavia mi facessero grazia di accettare certe pezze di tela che avevo ricevuto da Milano e che sull’annottare avrebbe loro portato un valletto: e uno che mi stava di rimpetto ad aspettare, col cappello in mano, il suo padrone entrato in un’altra bottega, dissi che era mio. Perché poi mi prendessero per persona di qualità e di molte conoscenze, non facevo se non levarmi il cappello a tutti i magistrati e i signori che passavano, a cui, senza conoscerne uno, facevo riverenza, come se avessi con loro familiarità. Da queste apparenze e da uno scudo d’oro che tirai fuori di quelli che portavo addosso, fingendo di fare elemosina a un povero che me la chiese, esse giudicarono che io ero un gran signore. Essendo ormai tardi e parendo loro di doversene andare, si congedarono da me, avvertendomi in tutta segretezza di mandare il valletto. Io chiesi loro in segno di favore e come in grazia, un rosario rilegato in oro che aveva in mano quella piú bella, in pegno che le avrei rivedute un altro giorno senza fallo. Poiché stintignavano a darmelo, io offrii in pegno i cento scudi: però, dicendomi qual’era il loro indirizzo e avendo intenzione di truffarmene di piú, si fidarono di me. Mi domandarono poi la mia abitazione dicendomi che nella loro non poteva un valletto entrare a tutte l’ore per essere persone di riguardo. Condottele per il Corso, all’imboccatura di Via delle carrette scelsi la casa che mi parve piú grande e piú bella, dinanzi alla porta della quale era un cocchio senza cavalli e dissi loro che quella era la casa mia e che casa e cocchio e padrone erano ai loro comandi. Dissi che mi chiamavo Don Alvaro de Córdova e me ne entrai per la porta sotto gli occhi loro. Mi ricordo anzi che al venircene via dalla bottega, con un cenno della mano chiamai con gran sostenutezza uno dei valletti, facendo le viste di dirgli che tutti rimanessero ad aspettarmi lí; e il vero è che gli domandai se era servo di mio zio il commendatore. Rispose di no, ma pure intanto la cosa mi riuscí bene con servi di altri come fossi cavaliere ammodo. Venne la sera tardi e tutti ci si radunò a casa. Entrato, trovai il soldato sbrindellato con una torcia che gli era stata data per l’accompagnamento d’un morto; egli se n’era venuto via e se l’era tenuta. Si chiamava Magazo costui, nativo di Olias. Era stato capitano, ma in una commedia; aveva combattuto coi mori, ma in un ballo. Quando parlava con gente delle Fiandre diceva che era stato in Cina e quando con gente della Cina, ch’era stato nelle Fiandre. Ragionava di costruire un campo militare, ma in un campo non seppe mai far altro che spidocchiarsi; menzionava castelli e li aveva visti a mala pena sulle monete da due reali; esaltava quanto mai la memoria del signor Don Giovanni d’Austria e io stesso gli ho sentito dir tante volte di Luigi Quijada che gli era stato fior d’amico; parlava di turchi, di galeoni, di capitani, di quante cose aveva letto su certe poesie popolari che correvano intorno a ciò, e poiché lui non sapeva nulla del mare (di navale non aveva nulla, tranne che mangiar navoni) disse, raccontando la battaglia combattuta dal signor Don Giovanni a Lepanto, che quel Lepanto era stato un moro di gran bravura. Siccome il poveretto non sapeva che era il nome del mare, passavamo con lui di bei momenti. Entrò quindi la mia guida col naso rotto e la testa tutta fasciata, insanguinato e tutto sporco. Gliene domandammo la causa ed egli disse che era andato per la minestra a S. Girolamo dove aveva chiesto doppia porzione, dicendo che era per certe persone di riguardo e povere. Per darne a lui ne fu sottratta agli altri mendici, i quali, stizziti, avendogli tenuto dietro, videro che in un cantuccio dietro la porta egli stava bravamente sorseggiando. – Circa il fatto se stava bene trarre in inganno a fine d’ingozzare, togliendo agli altri per proprio vantaggio, disse che si erano levate alte grida e dopo le grida i bastoni, e dopo i bastoni, bernoccoli e ammaccature sulla sua povera testa. Era stato assalito a colpi di brocche e la rottura del naso gliel’aveva fatta un tale con una scodella di legno datagli a annusare con piú premura di quel che occorresse. Gli avevano portato via la spada, e ai gridi era venuto fuori il portinaio che neanche riusciva a rabbonirli. Finalmente si vide in cosí gran pericolo il povero nostro fratello che diceva: «ma io restituirò quel che ho mangiato!»; però neppure bastava, perché ormai non consideravano se non il fatto d’aver chiesto per altri e che non se ne tenesse d’esser pitocco. – «Ma guardate lí quel mucchio di cenci che pare un fantoccio da ragazzi, piú desolato d’una pasticceria in quaresima, con piú buchi d’un flauto, piú pezzato di una chinea, piú variegato d’un diaspro, piú punteggiato di un libro di musica!» – diceva uno sgobbone di studente, di quei che vanno attorno con la sporta per gli avanzi, scroccone; «a mangiar la minestra del santo benedetto ci son venuto io che potrei esser vescovo o qualche altro dignitario, mentre si vergogna di mangiarlo uno scagnozzo. Io sono stato fatto baccelliere in filosofia a Sigüenza»57. Il portinaio ci si mise di mezzo vedendo che un vecchietto, che pur era lí, diceva che, quantunque ricorresse anche lui alla broscia del convento, era un discendente del Gran Capitano e aveva gran parentado.
Ei lo lasciò, poiché il mio compagno s’era già messo in salvo sgranchendosi le gambe.