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DELLA VITA DEL PITOCCO LIBRO SECONDO. CAPITOLO X. Di quel che mi successe in Sivigliafino a che m’imbarcai per le Indie. | «» |
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CAPITOLO X. Di quel che mi successe in Sivigliafino a che m’imbarcai per le Indie.
Feci il viaggio da Toledo a Siviglia con buona fortuna, perché, sapendo io già le regole del barare e portando meco dadi ripieni, dal piú al meno, di certa nuova pasta e nascondendo un dado nella destra che pregna di quattro ne pigliava tre, e siccome avevo con me una provvista di carboni perfettissimi per dare strette di moro e balestriglia79 cosí non mi sfuggiva un soldo. Tralascio di riferire molte altre trappole, perché a dirle tutte mi si prenderebbe piú per diavolo che per uomo e anche perché sarebbe meglio citar esempi virtuosi da imitare che vizi da cui la gente deve rifuggire. Ma forse con lo spiegare io alcune gherminelle e modi di dire, staranno piú guardinghi quelli che non li sanno; e d’altra parte, se i miei lettori saranno ingannati, colpa loro.
O tu, non ti fidare di dar tu il mazzo delle carte perché te lo cambieranno in un lampo; guarda che le carte siano intatte da raschiature e da levigature, mezzi con cui si conoscono i punti cattivi da evitare; che se poi tu fossi sguattero, o lettore, pensa che per le cucine e per le stalle forano con uno spillo, o ripiegano le carte cattive per conoscerle dallo spacco; e se tu abbia a che fare con gente ammodo, guardati dalle carte che fin dall’origine hanno una magagna, in quanto, cioè, la stampa, trasparendo attraverso il cartone, dice che seme e figura viene. Non ti fidare d’un mazzo di carte netto, poiché per chi dia un’occhiata e tenga a mente, ha delle macchie anche il piú terso.
A tòppa, bada che colui che fa le carte non incurvi ad arco piú le figure, meno i re, che le altre, perché con siffatto incurvamento è finita per il tuo denaro; a primiera, bada che non diano di sopra le carte che scarta colui che è di mano, e cerca che non si chiedano carte o con le dita nel mezzo o con le prime lettere delle parole. Non voglio illuminarti intorno ad altro: questo basterà per sapere che devi vivere guardingo, giacché è certo che sono infinite le gherminelle che ti taccio. Si chiama dar morte il portar via il denaro, e l’espressione è propria; garbuglio chiamano il tiro contro l’amico, che per essere davvero cosa ingarbugliata, non è capita; doppi sono coloro che attirano i sempliciotti, perché questi rastrellatori di borse li sveltiscano; bianco chiamano chi è privo di malizia e buono come il pane; nero colui che, avendo fatto del suo meglio, resta deluso.
Io, quindi, con la conoscenza di questo linguaggio e di queste giunterie, arrivai a Siviglia. Col denaro vinto ai camerati ci guadagnai il fitto delle mule, il mangiare e il pagamento ai padroni delle osterie. Me n’andai subito all’albergo del Moro, dove m’inciampò un mio compagno di studi ad Alcalà che si chiamava Mata, ma che, sembrandogli suonasse poco, si faceva chiamare Matorral. Trafficava in vite umane, aveva messo su bottega di ferite, né gli andava male. Ne portava l’insegna in faccia, e da quelle che avevano dato a lui pattuiva la grandezza e la profondità di quelle che aveva a dare. Diceva: – «Non c’è chi ne possa sapere piú di quello che sia pieno di sberleffi».
E aveva ragione, perché la sua faccia era una casacca di pelle e lui un otre. Mi disse di dover cenare con lui e con altri compagni e che poi essi mi ricondurrebbero all’albergo.
Ci andai. Giunti alla sua locanda, mi disse: – «Su, si tolga la cappa vossignoria e si mostri uomo, che questa notte vedrà tutti i buoni figlioli di Siviglia. E perché non la prendano per un bellimbusto, giú cotesto collare, curve le spalle e la cappa calata (giacché noialtri si va sempre con la cappa calata); cotesto muso, su dritto come a vite, smorfie di qua e di là, e faccia vossignoria h del c e v del q. Dica con me: – «la harne, la hasa, la hamera, ventivattro, vesto vi80. Lo tenga a mente». Mi prestò una daga che alla larghezza era una scimitarra, alla lunghezza non si sarebbe potuta ben dire spada. – «Si beva, mi disse, questo litro di vino schietto, ché senza i fumi del vino non potrà avere aria d’ardito». Mentre c’intrattenevamo cosí, e io ero stordito dal bere, entrarono quattro dei loro che avevano le faccie tutte spaccate come scarpe di gottosi. Camminavano barellando, con i mantelli non sulle spalle ma succinti alla vita, coi cappelli sollevati sulla fronte e dritte le tese davanti da parere diademi, con le daghe e le spade guarnite da due interi arsenali di ferrami, coi puntali del fodero a rabeschi, con i calcagni allineati, gli occhi a terra, l’aspetto vigoroso, i mustacchi arricciati in punta e barbe alla turca, da gente altezzosa. Mi fecero una mossaccia con la bocca e subito, con voce stizzosa e mangiandosi le parole, dissero al mio amico: – «Serostro»81. – «Sor compare» rispose la mia guida. Si sedettero, e per sapere chi io fossi non proferirono parola, ma l’uno guardò Matorrales e aprendo la bocca, col labbro inferiore proteso verso di me, m’indicò: al che il mio maestro di noviziato soddisfece prendendosi la barba con le mani e guardando in giú. A questo, tutti si alzarono pieni di contentezza, mi abbracciarono facendomi gran festa e io abbracciai loro del pari, che fu come se avessi assaggiato quattro vini diversi. Venuta l’ora di cenare, vennero a servire a tavola certi bricconi grandi e grossi che i bravi chiamano «caccioni». Ci sedemmo tutti insieme a tavola e comparve il piatto di grossi capperi e quindi cominciarono, per darmi il benvenuto, a bere in mio onore che io, finché non vidi che vi brindavano, non avevo mai saputo di averne tanto. Fu poi portato del pesce e della carne e tutto cucinato in modo da eccitare la sete. C’era a terra un mastello colmo di vino, e lí si metteva disteso bocconi chi voleva ricambiare il brindisi: io mi contentai della panatella. Dopo due volte non ci fu uno che riconoscesse l’altro. Cominciarono discorsi bellicosi; spesseggiavano i giuramenti, sí che di brindisi in brindisi ne caddero giú venti o trenta, morti senza prete. Furono prescritte mille pugnalate al governatore, si parlò di Domenico Tiznado e di Gayón di felice memoria, si libò in quantità all’anima di de Escamilla. Quelli che erano afflitti piansero teneramente l’infelice Alonso Alvárez82. Al mio compagno ormai, con queste cose, s’era guastato il congegno del cervello, tanto che, con voce un po’ roca, prendendo un pane con le due mani e guardando alla luce disse: — «Per questo pane, che è la faccia di Dio, e per quella luce che è uscita dalla bocca dell’angelo, se lor signori vogliono, questa notte dobbiamo dare allo sbirro che è corso dietro al povero Storto». Si levò fra di essi un urlo straordinariamente grande, e tratte fuori le daghe, lo giurarono, mettendo ciascuno la mano sull’orlo del mastello; e stendendovisi sopra col muso, dissero: – «Cosí come beviamo questo vino, dobbiamo bere il sangue di ogni spia». – «Chi è questo Alonso Alvarez, domandai io, di cui ha tanto addolorato la morte?». – «Un giovanotto, disse l’uno, rissoso, pieno di fegato, giovine destro, e buon compagno. Andiamo, che i diavoli mi tentano di nuovo». Con ciò uscimmo di casa a caccia di sbirri.
Preso dal vino e rimesso in suo potere ogni mio sentimento, io camminavo senza capire a che rischio mi mettevo. Giungemmo alla via del Mare dove ci si parò dinanzi la ronda. Non era stata ancora ben ravvisata che, sguainate le spade, l’aggredimmo. Io feci come gli altri, sí che due corpi di sbirri ripulimmo dalle loro malvage anime al primo assalto. Il capo di essi mise in opera l’autorità della giustizia e chiamò per la via di su gridando, ma noi non lo potemmo rincorrere per aver bevuto troppo. Alla fine ci rifugiammo nella cattedrale dove ci mettemmo al riparo dal rigore della giustizia e dormimmo quant’era necessario perché si dissipassero i fumi del vino che ci ribolliva nella testa. E una volta ritornati in noi, mi maravigliai a veder come la giustizia avesse perduto due sbirri e fosse fuggito il loro capo per causa di un po’ d’uva, quali eravamo noi allora. Nella chiesa ce la passammo piuttosto bene, perché trassero all’odore dei rifugiati certe silfidi che per travestir noi si spogliarono loro. Mi si affezionò la Grajales che mi vestí a nuovo dei suoi colori, cosí che io proposi di navigare nelle galere con lei fino alla morte. Mi detti a studiare la vita dell’onorata società e in pochi giorni ero divenuto maestro degli altri bravacci. La giustizia non si dimenticava di cercarci e ci ronzava alla porta; ma, nondimeno, a mezzanotte, noi gironzavamo giú per la via travestiti.
Vedendo che questa faccenda andava in lungo e piú durava a perseguitarmi la fortuna (non per avere imparato a mie spese, poiché non sono cosí assennato, ma perché pur peccatore caparbio) decisi, consigliandomi prima con la Grajales, di passare alle Indie con lei, per vedere se, mutando mondo e paese, avessi avuto una sorte migliore. Ma fu peggio, giacché non migliora mai la propria condizione chi muta soltanto di paese e non di vita o di costumi.
FINE.
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