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IV.
Lady Mary Boston era una delle più ricche e festose inglesi che dimorassero in Napoli in quel tempo. Figlia e sposa di Pari d'Inghilterra, giovane e bella, questa donna sapeva godersi la vita. Ella avea comprato una casa in sulla Riviera di Chiaia in cui veniva a passare la stagione dei balli e delle feste. Nell'està ritornava a Londra, dov'era aspettata con premura da quell'aristocrazia che ritrovava nei salotti della vaga Lady le più efficaci e dilettose distrazioni alle cure della politica a dei pubblici negozii.
Incominciando dal mese di novembre, ogni sabato Lady Boston riuniva nelle sue splendide mura quanti uomini e donne illustri erano in Napoli, di ogni favella e di ogni classe, purchè la celebrità fosse il titolo d'introduzione appo lei. Gli scienziati, gli uomini di lettere, gli artisti più ragguardevoli trovavano generoso e nobile accoglimento in quella casa, ch'era benanche il ritrovo di tutta la nobiltà europea.
Walter Scott, Chateaubriand, Bulwer e altri mille colossi della letteratura inglese, francese e italiana erano venuti a visitare le sale della celebre Lady Boston, e vi si erano intrattenuti in qualche sabato a sera.
È superfluo il dire che il fiore de' cantanti erano invitati, come tutti gli altri, a queste periodiche riunioni colla solita e semplice formola di:
Lady Mary Boston à l'honneur de prèvenir Mr. N. N. qu'lle est chez elle tous les samedis a 8 heures du soir — Riviera di Chiaia — Palais P…
La magnificenza degli addobbi e dell'illuminazione, il lusso delle credenze, l'ordine e la disposizione del divertimento, la scelta degl'invitati e la estrema eleganza degli abbigliamenti avean fatto la rinomanza europea delle serate di Lady Boston; tantochè a Londra, a Parigi, a Milano se ne discorreva; e i nobili di queste capitali traevano espressamente in Napoli per godere di queste serate. Lady Boston, non aveva che una sola rivale per isplendidezza di trattamento, ed era Madame A.... ma, secondo il giudizio degl'intenditori, costei perdeva nella lotta e non arrivò mai a levarsi a quel grido cui pervenne la britanna.
L'inverno dell'anno 1826-27, comechè turbato da frequenti uragani e da pioggie continue, fu al certo uno dei più brillanti e animati che rallegrassero la nostra Napoli. L'affluenza dei forestieri era grandissima. Il teatro S. Carlo nell'apogeo della sua gloria, diretto dal Nestore degl'impresari, dal Barbaja, formava la delizia del mondo musicale e il più gran vanto delle belle arti napoletane. Ogni sera era un trionfo di compositori e di artisti; ogni sera una fronda si aggiungeva alla corona di allori che cingeva le chiome di quegli artisti che sono fino ad oggi rimasti impareggiabili.
E la serata del sabato, al quale abbiamo accennato nei precedenti capitoli, fu la più brillante di tutto l'inverno.
Due grandi artisti cantavano per l'ultima volta ne' salotti di Lady Boston prima di partire per Vienna, dov'erano scritturati, la Lalande e Lablache. Erano anche invitati a cantare la Pasta e Rubini.
Non è a dire la folla che ingombrava i salotti della nobile inglese, folla deliziosa, spirante la gioia, il piacere, sussurrante parole dolcissime.
Non ci arrischieremo a dipingere questa festa; ogni parola sarebbe dammeno del vero, ogni epiteto non sarebbe corrispondente, e ogni descrizione riescirebbe languida e monca a petto della realtà; lasciamola però interamente immaginare a' nostri lettori, contentandoci di dire che in quelle sale cosparse di luce, di profumi, di diamanti, di fiori e di armonie contenevansi meglio che mille persone, di cui ciascuna era una celebrità, un'illustrazione, una gloria, o al più poco un tesoro animato. Contrasto singolare facea colla splendidezza di quell'ostello un cielo tempestoso che batteva con onde di pioggia i cristalli di quei terrazzini.
Le più lussuose ed eleganti acconciature sottoposti al più severo codice della moda di Parigi facevano vaga mostra di sè. L'età delle donne spariva sotto le mani degli abili pettinatori e delle sarte parigine: la bellezza, le grazie, la salute, l'amore erano dipinti in su tutti i volti, scolpiti su tutte le fronti. Un mormorio che si perdeva come un'onda di fila in fila, di crocchio in crocchio, di sala in sala, accoglieva l'entrare di ogni nuova arrivata; il suo nome, i suoi titoli, le sue relazioni ed i suoi amori erano buccinati in un baleno e promulgati dappertutto.
Il sorriso accoglieva tutti e la gioia gli aspettava.
Ma un grido di ammirazione piuttosto che un mormorio passò di labbro in labbro, ed un lampo di gelosia sfolgorò negli sguardi di tutte le donne.
Emma di Gonzalvo appariva nel gran salone.
Ella entrava appoggiata al braccio del Duca suo padre: aveva al suo fianco il visconte di Boisrouge. La seguiva la Duchessa di Gonzalvo al braccio di un plenipotenziario straniero.
Emma era stata in un attimo giudicata la più bella tra tutte quelle bellissime donne: ella era dunque la sovrana della danza.
La sua acconciatura era tutto ciò che si può immaginare di più vago insieme e di più semplice per una tal festa da ballo. I suoi capelli, ordinati in quel modo ingenuo e gentile addimandato in allora alla Vergine, erano coronati da un festone di rose in diamanti.... Contro la sconcia moda di quel tempo, Emma portava una veste di velo inglese la cui vita era bassa; onde le forme leggiadrissime di lei si disegnavano con tanta grazia e avvenenza, che questa novella ardita foggia di vestire incominciò da allora a bandire la moda delle vite alte e dei grandi scolli. Emma avea dunque dato il colpo mortale alla moda di Parigi.
Era impossibile avvicinarla: un cerchio spessissimo di giovani avevano attorniata questa dea, contendendosi una parola di lei, un sorriso, uno sguardo. Emma era andata a sedersi vicino alla madre: alla sua sinistra era seduto il Grande Ammiraglio Conte di L… amicissimo del Duca di Gonzalvo.
Non ancora si era dato principio al canto.... La tablettes di ballo di Emma erano già ripiene d'inviti per le contradanze francesi e inglesi, e pel valser francese e tedesco.
La conversazione era universale e animata nei diversi gruppi: gli uomini discorreano di politica, di arti, di cavalli e di cani; le donne di mode e di amori. Le sale erano gremite di tanta gente che più non si distinguevano le persone.
Di repente fu fatto silenzio in mezzo a' gruppi, e tutta la folla sparpagliata nelle numerose e vaste sale si agglomerò compatta, appo gli usci indorati del salotto da canto. Madama Lalande apriva la serata colla cavatina della Olimpia del maestro napolitano Carlo Conti.
La Lalande vien ricordata con amore tra le cultrici dell'arte melodrammatica: la sua voce argentina, robusta ed agile, il suo bel metodo di canto lasciarono sulle scene d'Italia e dell'estero non periture ricordanze. L'Accademia filarmonica di Bologna l'annoverava tra i suoi membri, siccome avea fatto della Colbran e della Giorgi, lodata da Pietro Giordani.
Dopo madama Lalande, la celebre Pasta cantava coll'egregio tenore signor Winter il duetto tanto applaudito della Medea del Maestro Mayer. Gli applausi che interruppero a quando a quando questo pezzo, e che scoppiarono con violenza alla fine di esso, furono la più sincera espressione di quella soddisfazione che i due valenti artisti lasciavano negli animi de' loro uditori.
La Pasta era di bella persona, di volto espressivo; i suoi occhi grandi e loquaci comandavano l'entusiasmo. In quella parte di Medea, non meno che nell'altra di Desdemona nell'Otello di Rossini, questa donna avea fatto gustare per la prima volta in sulle scene d'Italia il genere declamato, che oggi è venuto in tanta reputazione e successo, benchè a discapito del buon canto italiano.
Luigi Lablache, il colosso dei bassi, l'artista modello, l'uomo dai polmoni di ferro, dal petto-cannone, dalla voce portentosa che facea tremar la volta di S. Carlo come il cuore dei suoi uditori, il cantante-atleta, numero unico nei secoli, il contemporaneo di de Marini e il suo più illustre rivale melodrammatico; Luigi Lablache, gloria tutta nostra, il cantore delle opere di Rossini, in procinto di abbandonar Napoli pel Teatro italiano di Vienna, si faceva udire in quel sabato a sera nella sala di Lady Boston coll'aria di Figaro nel Barbiere di Siviglia.
Emma entrava appoggiata al braccio di suo padre; aveva al suo fianco il visconte
Quando ebbe terminato di cantare, un solo uomo non aveva applaudito a furore. Rincantucciato in un angolo della sala, egli piangea.
Quest'uomo era Domenico Barbaja.
La Pasta e Rubini cantarono poscia il duetto finale di Otello. Non mai questi due grandi artisti avean posto tanto fuoco e tanta verità nelle rispettive loro parti. Rubici era grande, inarrivabile, facea fremere e raccapricciare; la possente sua voce scuotea le fibre più recondite del cuore. Che dirassi della Pasta, che si trovava nel suo vero genere in quel canto di declamazione, in cui tanto ella si distingueva e che le avea fatto acquistare una riputazione superiore ad ogni elogio?
Dopo questo duetto, il programma della serata annunziava un intervallo, che fu speso nei più lauti e delicati rinfreschi.
Emma aprì la seconda parte della serata. Non è dicibile con quale ansia si udiva a cantare questa giovinetta, una delle poche dilettanti, che si ascoltavano da Lady Boston. Presso al piano-forte ov'ella cantava eran raccolti gli artisti da noi summenzionati e un grandissimo stuolo di ammiratori della bella andalusa.
L'aria spagnuola fu cantata da lei con quelle grazie, con quell'accento, di cui abbiamo parlato altrove. Il suo canto fu coverto da rumorose esplosioni di applausi: si richiese la replica della ballata.
Madama Lalande e la Pasta abbracciarono la giovanetta e la baciarono con tenerezza, e con trasporto.
Per dieci minuti poi che il canto era cessato si udiva ancora il mormorio di sorpresa e di ammirazione che si prolungava in tutte le sale.
Lablache e Rubini cantarono il duetto del Barbiere di Siviglia. Passeranno secoli prima che un'altra coppia di artisti pari a quella faccia udire un duetto simigliante a questo del Barbiere.
Il giovine maestro Daniele de' Rimini dovea por termine alla parte cantabile della serata colla sua romanza, e con un pot-pourri sulla Niobe del Paolini, la quale richiamava ogni sera gran folla di spettatori a S. Carlo.
Daniele era pallidissimo ed agitato: ciò nulla di manco cantò la sua romanza con anima, con passione: mai la sua voce non era stata così forte e commovente: molti paragonarono le sue corde e le sue agilità a quelle di Tamburrini.
Era la prima volta ch'egli veniva udito a cantare da Lady Boston: destò maraviglia, simpatia, riportò un vero trionfo.
E quando le agilissime e portentose sue mani oprarono prodigi sul piano-forte, quando le più grandi malagevolezze furono da lui superate con quell'ardimento, di cui si spaventa la mezzanità, Daniele diventò l'eroe della serata. Tutti bramarono di conoscerlo, di avvicinarlo; si dimandò del suo nome, delle sue relazioni, dei suoi parenti: i nobili più schifiltosi non isdegnarono di stringergli la mano, di profferirglisi.
Le donne erano soggiogate, e guatavano il giovinotto maestro con un sentimento d'ammirazione e di simpatia, dappoichè quella sua voce in cui trapelava una commozione profonda avea toccato tutt'i cuori. Il bel sesso cercava indovinare chi potesse essere l'oggetto del colpevole amore dell'esimio pianista, e già ivasi bisbigliando7 nella sala il nome di Emma; perocchè in un baleno si era saputo che la casa del Duca di Gonzalvo era quella che maggiormente era frequentata dal giovine maestro. Tutti gli occhi si portarono sulla figliuola del Duca, la quale si studiava di nascondere il suo turbamento con un'affettazione d'indifferenza e d'ilarità.
Fu questo un bel momento per Daniele. La sua vanità era soddisfatta! Negli occhi suoi, fissi sopra Emma, lampeggiava il contento di essere a quel modo l'oggetto della universale attenzione… Egli cercava intanto discoprire in sul sembiante della fanciulla un sintomo qualunque di propensione per lui. A mala pena rispondeva alle congratulazioni che se gli volgeano; a stento non si mostrava scortese e zotico.
Stando a tal guisa con tutta l'anima sua alla vedetta di un'ombra di amore negli occhi di Emma, non si era accorto di un personaggio che gli si era appressato. Questi il chiamò per nome, e gli disse:
— Permettete che aggiunga le mie alle congratulazioni che vi hanno fatto gli altri, signor Daniele.
Udendo la voce di questo personaggio, Daniele fece un balzo sopra se stesso e imbiancò in volto come per morte veggendosi allato l'incognito straniero che recavagli in ogni fin di mese la polizza di ducati cinquanta.
— Voi qui, signore! sclamò attento Daniele.
— Non temete di nulla; io non parlerò, ve ne fo solenne promessa.
Lo straniero strinse la mano di Daniele che trovò febbricitante, e si allontanò dalla sala, per recarsi vicino al Duca di Gonzalvo, seduto ad una partita di whist.
Il ballo cominciava.