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Un milione.
Il dì vegnente Daniele si alzò di buon mattino: non aveva chiuso gli occhi per un sol momento durante l'intera notte; un'idea fissa, un proponimento decisivo avealo tenuto desto; egli volea finirla una volta per sempre collo stato di martirio nel quale si trovava.
— Tra poche ore la mia sorte sarà decisa, diceva tra sè medesimo, sdraiato sopra un seggiolone accosto al suo letto, e avvolto in ampia veste da camera; tra poche ore io saprò se mi conviene nutrire qualche speranza di possedere Emma o se mi sarà d'uopo abbandonare questo paese e forse anche la vita.... Sento che non ho la forza di vivere senza di Emma…. Quel mio trionfo d'ieri sera non sembrò che avesse fatto la minima impressione su lei; mi rivolse soltanto alcune frasi gelate e comuni strappate dalla convenienza; parvemi anche più fredda verso di me; sembrava che mi evitasse, che poco mi avesse conosciuto..... Feci benissimo a non ballar mai con lei; se ella è superba e sdegnosa, io non lo sono meno di lei: se io sono povero e oscuro, non soffro di essere dispregiato da nessuno. Lasciai a tutti quegli effeminati giovanotti l'onore di contendersi un valser o una contradanza con lei: io non sono fatto per immischiarmi nelle folle, non mi accosto alla razza, degl'imbelli che pullulano in tutte le sale; non mi soddisfa la mezza luce; a me bisogna o lo splendor del sole o le tenebre fitte.… Emma è per me il sole, la vita, la felicità…. O Emma o la morte.... Sì, questa mattina tutto dovrà decidersi; ogni ulteriore indugio potrebbe nuocermi.
Verso le undici del mattino dello stesso giorno, Daniele saliva le scale del palazzo S... e si faceva annunziare al Duca di Gonzalvo.
I domestici del Duca furono sorpresi di veder Daniele presentarsi di domenica e chieder del Duca, cui pochissime volte avea veduto.
— Ho qualche cosa di segreto a comunicargli, disse Daniele al cameriere.
— Tutta la famiglia è ancora in letto, rispose il cameriere — Se il signor maestro vuole aspettare, Sua Eccellenza non potrà indugiare a levarsi.
— Aspetterò, soggiunse Daniele.
E si sedè in uno stanzino recondito del quartiere dove pel consueto il Duca ascoltava le persone che gli erano dirette per raccomandazioni, o che venivano a parlargli di negozii e di faccende particolari.
In questo stanzino era un ritratto intero del Duca; quel ritratto era stato fatto ventitre anni fa, e quando il Duca non aveva che un 27 anni.
Abbiam detto che pochissime volte Daniele avea veduto il Duca, vale a dire il giorno in cui venne presentato a costui qual maestro di Emma, e qualche altra volta nelle serate di Lady Boston dove il vedeva alla sfuggita; perocchè il Duca raramente compariva nel gran salone da ballo o nel salotto da canto. Però Daniele non aveva giammai avuto l'agio di affisare con attenzione le sembianze di questo personaggio.
Quel ritratto colpì incontanente il giovin pianista: quello sguardo, quelle fattezze del volto, quei basettoni che a guisa di doppio fuso prostendevansi sul labbro superiore, e quel pizzo lungo e dritto che gli sendeva insino alla gala della camicia; quella faccia insomma non era nuova per Daniele: essa disegnavasi nella sua memoria come un riverbero di lontanissimo passato; ma dove, quando, ma come Daniele avea veduto quel personaggio? Non era possibile deciferare il tempo e il luogo. Un mondo di congetture formava il giovine; cercava di coordinare le sperperate ricordanze della sua infanzia; si sforzava di diradare la nebbia onde si avvolgeva il passato, ma nel suo capo era una confusione spaventevole, un subbuglio di ricordi, di immagini, di sogni; cosicchè di tutta la fatica ch'egli si dava non ricavava altro frutto che quello di rammentare aver veduto altrove il Duca di Gonzalvo. Se non che la costui immagine si associava nella sua mente a quella di un altro uomo assai più bello e più giovine, di cui non conservava eziandio che un debolissimo ricordo.
Il Duca di Gonzalvo avvolto in magnifica veste da camera entrava in quello studietto nel momento in cui Daniele era tutto e cogli occhi e col pensiero in sul ritratto del nobile spagnuolo.
— Eccomi a voi signor de' Rimini, a che debbo attribuire il piacere di una vostra visita? siete forse venuto a ricevere le mie personali congratulazioni per la vostra somma valentìa nell'arte musicale?
— Non pecco di tanta vanità, signor Duca. Ieri sera quei signori furono assai indulgenti verso di me, ed io debbo attribuire a mero incoraggiamento le lodi che si piacquero prodigalizzarmi.
— Codesta modestia vi onora, signor de' Rimini. Qual è dunque il motivo che mi procura il piacere di vedervi questa mane?
Il Duca di Gonzalvo si era seduto, Daniele mostrava nell'alterazione della sua fisonomia l'agitazione che il possedeva.
— Signor Duca, incominciò il giovine lentamente e misurando le sue parole prima d'ogni altra cosa, perdonerete la mia indiscrezione se ardisco di domandarvi in qual paese è stato facto questo vostro magnifico ritratto.
— Ah! è un bel ritratto, n'è vero? Benchè io sia cangiato dagli anni, credo rassomigli ancora.
— Perfettamente, signor Duca, e mi permetterete di dirvi che pochissima differenza vi è in oggi tra questo ritratto e il suo originale.
— Così dicono tutti per lusingarmi, ma hanno un bel dire; ventitre anni non passano sulle spalle di un uomo senza lasciarvi un ricordo poco piacevole... Ebbene, questa dipintura è stata fatta in Siviglia, in un sol giorno, da un abilissimo artista Italiano.... Oh! questo ritratto mi ricorda un'era tempestosissima della mia vita, mi ricorda sventure per le quali sanguina ancora il mio cuore.
— Duolmi di aver ritoccate le vostre dolorose rimembranze, signor Duca; ma pure, ancorchè dovessi arrecarvi dispiacimento, mi arrischierò a domandarvi se in Siviglia presso a poco nel tempo in cui fu fatta questa dipintura, voi non avevate un parente, un amico, che spesso frequentava la vostra casa, o in casa del quale voi traevate?
Simigliante interrogazione fece rabbruscar la fronte del Duca, il quale guatò fisamente e con sospetto il suo interrogatore, e non rispose che dopo qualche momento:
— Non so qual premura possiate avere, signor de' Rimini, a ricercarmi d'una cosa e d'un tempo ch'io vorrei dimenticare.... Non saprei rispondere con precisione a quello che mi richiedete... Nel 1803 io aveva molti amici ed un immenso numero di nemici, perocchè il posto onorevole e l'alta carica civile ch'io avea ottenuto nella giovanile età di 27 anni mi aveano procacciato migliaia di gelosi ed invidi: in quell'anno per me cotanto funesto fui costretto di abbandonar Siviglia dove la mia vita era mal sicura, essendo per infame tradimento caduto in sospetto al mio governo. La mia partenza fu così precipitata che appena ebbi il tempo di farmi ritrarre su quella tela e mandare il mio ritratto al Castello di Santiago, poco discosto da Siviglia, e dove dimorava la mia fidanzata, Isabella di Monreal, che ora è mia moglie. Nessun'amico mi accompagnò nel triste viaggio, tranne un fedel domestico e mia sorella che volle seguirmi, non ostante le più vive rimostranze ch'io le feci, mettendole dinanzi agli occhi la malagevolezza e i pericoli del viaggio in sull'Atlantico e sovra un picciol legnetto commerciale. Ma ella rimaneva sola ed esposta forse alle persecuzioni dei miei nemici; sicchè io stesso non potetti rifiutarmi a tali possenti ragioni, e meco la menai colà dove il destino chiamavala ad una serie d'irreparabili sventure. Sciagurata sorella!... Voi mi parlate di amici, signor de' Rimini! Or bene, io n'ebbi due; uno che per invidia cercò di togliermi la vita civile, denunziandomi come venduto a nemici del mio paese, e che mi costringeva ad abbandonare la nativa mia terra; e un altro che mi offriva una splendida ospitalità e un asilo sulle frontiere della Francia, che mi abbracciava con effusione di cuore, per piantarci più tardi un coltello nel seno... Quest'uomo s'involò alla mia vendetta; io non l'ho più riveduto e il credo morto; almeno ne ho speranza, che se mi fosse dato di sapere dov'ei si asconde, andrei a trafiggerlo avvegnachè egli stesse all'estremità del mondo.
Gli occhi del duca di Gonzalvo balenavano di furore; due corde di fuoco erano state toccate nel profondo dell'anima sua, i due tradimenti che tuttavia gli amareggiavano la vita. Daniele si pentì di aver ridestato così fatte amare ricordanze in quell'uomo irascibile: egli era disanimato per quello che formava lo scopo principale della sua visita; ma era nel tempo stesso risolutissimo di por fine allo stato di sofferenze in cui lo gittavano l'amore, la gelosia, il desiderio d'ingrandirsi: pensò dunque di non frapporre più indugio alla dimanda che voleva fare al Duca. Lasciandogli però il tempo di calmarsi dalla collera, così parlò:
— Perdono, signor Duca, mille volte perdono di essere stato io l'involontaria cagione di aver risvegliato in voi di tali tristi memorie: vi giuro che se avessi saputo dovervi cagionare il minimo dispiacimento, non avrei ardito dare sfogo ad una indiscreta curiosità... Ora, lo scopo della mia visita è tutt'altro, signor Duca: esso vi sorprenderà pel suo ardimento; ma la schietta probità del vostro animo estimerà la mia. Un vostro rifiuto non mi umilierà, dappoichè soltanto la colpa deve arrossire.
— Di che si tratta? dimandò il Duca con serenità, poichè era ben lontano dal supporre quello che formava l'obbietto della dimanda di Daniele — Parlate con confidenza, signor de' Rimini, e siate sicuro di trovare in me un amico.
— Ne sono sicurissimo, signor Duca, e ciò nonostante io temo, perchè troppo audace può sembrarvi la mia dimanda.
— Parlate dunque, disse quegli con leggiera impazienza.
— Ebbene, signor Duca, vi chiedo la mano di vostra figlia, rispose Daniele reso altero e sicuro dalla propria audacia.
Il Duca di Gonzalvo si alzò per un moto di estrema sorpresa: il suo sguardo fulminò lo sguardo di Daniele, che fu costretto di chinar gli occhi.
— Voi, signore! voi mi chiedete la mano di mia figlia!
Il nobile spagnuolo dette una sonora spalmata sopra un tavolino di mogano che gli stava d'allato; il suo volto era acceso di sdegno.
— Sono io caduto tanto giù da incoraggiare un simile insulto! esclamò furibondo. Il Duca di Gonzalvo non è più dunque che un essere della specie più comune! il mio cognome è dunque quel che ci è di più plebeo e di più fangoso al mondo? Un maestro di musica vuole apparentarsi con me? un uomo che vive di salarii! Ma come? ma quando ho io incoraggiato simigliante audacia? Il Duca di Gonzalvo, uno de' più illustri nomi della Spagna, il sangue più nobile dell'Andalusia, si fonderebbe col sangue della più mercenaria borghesia! Ma è da senno che voi mi fate una tale proposta, signor mio?
— Da senno, signor Duca, rispose Daniele, il cui amor proprio ferito dalle aspre parole del nobile si era rialzato con orgoglio.
— E quali sono, di grazia, i beni e i titoli che voi offrite per pretendere alla mano della Duchessina Emma di Gonzalvo? chiese il Duca con voce resa sempre più rauca per collera.
— I titoli che vi presento, signor Duca, sono quelli di cui andar deve orgoglioso ogni uomo d'onore; essi non sono di quelli che l'intrigo, l'ambizione, la vanità, la corruttela procacciano ad un nome, come una cornice d'oro ad una vana immagine; i miei titoli sono quelli che nessun re può darmi o togliermi, i miei titoli, signor Duca, sono quelli ch'io tramando a' miei figli e non già quelli che ricevo dai miei genitori; i miei titoli sono il genio e l'onestà. In quanto a' miei beni, essi non han timore d'incendio, di terremoto o di confisca; i miei beni io li porto sulle punte delle mie dita... E se questi titoli e questi beni non sono di quelli che possono appagarvi, signor Duca, ve ne offro un altro che vale più di tutti gli onori accumulati sovra un nome: vi offro la mia giovinezza e l'ardente fede che ho nell'avvenire.
Lo sguardo di Daniele balenava; le sue guance erano infiammate; egli era stato colpito nel più vivo dell'anima sua, nel suo amor proprio. Il Duca fu scosso dal carattere energico e ardito del giovine.
— Attribuisco all'ardore della vostra giovinezza, rispose questi meno sdegnosamente, la stolta speranza che vi ha illuso, e perdono alla vostra fanciullezza l'audacia delle vostre parole; ma comprenderete che io dovrò privarmi del piacere di più ricevervi in mia casa. Provvedere per un altro maestro a mia figlia, e non commetterò novellamente l'imprudenza di porle a fianco un giovanotto. Spero che non abbiate fatto trasparire minimamente ad Emma cotesta follìa che vi è sorta nel cervello.
— Sicchè voi, signor Duca, mi ricusate per vostro genero?
— Non avreste giammai dovuto concepire sì chimerica speranza, rispose il Duca in atto di accommiatare il giovine. Ciò per altro non toglie ch'io avrò sempre per voi quella benevolenza di cui spero vi renderete più degno rinunziando finanche alla ricordanza di una tale insensata proposta. Avrò cura di farvi pervenire al vostro domicilio gli onorarii che vi sono dovuti per le lezioni a mia figlia.
Il Duca si accingeva ad abbandonare quella conversazione.
— Un momento, signore, di grazia, un momento. Degnatevi di ascoltarmi pochi altri minuti, e poscia ci saremo separati per qualche tempo.
— Che avete ancora a dirmi?
— Poche altre parole, signor Duca. Dareste voi vostra figlia ad un uomo che le recasse una fortuna considerabile?
— E che non avesse altro titolo che quello di esser ricco? chiese il Duca.
— Sì, signore, soggiunse Daniele, ricco, solamente ricco.
— Ebbene, rispose il Duca, se quest'uomo fosse un milionario, io lo preferirei certamente a sposo di mia figlia. Un milione rappresenta dieci generazioni di nobiltà. Un milione è una potenza, è uno Stato, è una grandezza.
— Un milione!!! disse cupamente scoraggiato il giovane pianista.
— Ebbene, disse sorridendo il Duca avete voi da offrirmi un milione, signor de' Rimini?
Daniele stette alcun poco in silenzio, indi rispose:
— Tra due anni, signore, tra due anni forse... Mi date voi la vostra solenne parola di onore di aspettare due anni prima d'impegnare la sorte di vostra figlia?
Il Duca guardò quasi trasognato; sospettò per un momento che il cervello di Daniele avesse dato di volta; ma sulle costui sembianze non appariva il minimo segno di alterazione mentale.
— Voi dunque dite...
— Che tra due anni io potrei offrirvi un milione.
— Ed io vi aspetto, disse ridendo il Duca.
— Sul vostro onore?
— Sul mio onore, soggiunse il Duca, sempre ridendo.
— Ebbene, disse gravemente Daniele, oggi siamo al dì 17 dicembre 1826. Permettete che io me ne faccia un ricordo sovra un pezzo di carta.
Sul tavolino era l'occorrente da scrivere.
Daniele segnò queste poche parole:
Oggi, io Duca di Gonzalvo prometto sul mio onore a Daniele de' Rimini di non prender verun impegno di matrimonio per mia figlia Emma prima che spirino due anni dalla data di questo giorno — Napoli, 17 dicembre 1826.
— Firmate, signor Duca, disse Daniele presentandogli la carta.
Il Duca, dopo di aver titubato per qualche momento, guardò Daniele con sembianza di pietà, ed appose la sua firma a quella scritta, quasi per compassione dello stato di mente del giovane pianista.
— Siete contento, signore? dimandò il nobile sorridendo.
— Contentissimo. A rivederci, signor Duca; a rivederci nel 1828.
Daniele spariva. Il Duca, entrando nelle sue stanze, esclamava tra sè:
— Povero Daniele! Chi lo avrebbe creduto! Egli è folle!