Francesco Mastriani
Il mio cadavere
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PARTE III.

IV. Un rimedio.

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IV11.

 

Un rimedio.

 

 

 

E il domani, nella prim'ora del mattino, il dottor Weiss di Francoforte si faceva annunziare al baronetto Brighton.

Costui si era da qualche ora alzato dal letto ch'era divenuto per lui più tormentoso di uno spinaio.

Una limpida giornata di giugno incominciava il lungo suo corso. Un fresco venticello baciava le cime delle acacie, correva allegro e pazzognolo lunghesso i viottoli ombrosi della villa di Schoene Aussicht, e rapiva i primi profumi dei fiori, trasportandone gran parte nella camera da letto di Edmondo, il terrazzino della quale era dischiuso.

Il milionario si era appoggiato alla ringhiera del terrazzo: il sereno del cielo, le balsamiche aurette di primavera, il concerto degli augelli, il tremolare delle fronde, aveano per poco discacciata la negra nebbia che premea l'anima di Edmondo, ed avean dato a' suoi pensieri altro avviamento non così malinconioso. L'annunzio della visita del medico gli giunse grato come foriero di guarigione.

Edmondo fece entrare il dottor Weiss in un gentil salottino di conversazione, attiguo alla camera da letto, ed ei pure entrovvi e si sedè, invitando il medico a far lo stesso.

— Vi trovo molto cangiato dal giorno in cui ebbi ultimamente l'onore di visitarvi, signor conte, cominciò il medico. — Non sono che quindici giorni all'incirca, e rinvengo sul vostro volto le orme di una devastazione che mi pensiero e pena. Che vi è accaduto in questo brevissimo tempo?

— Non so, Dottore, rispose Edmondo, ma io sto male, malissimo: sono più di dieci giorni che il sonno sembra fuggire dagli occhi miei, o, se talvolta una cascaggine mi sorprende e un filo di sonno si stende sulle mie stanche palpebre è peggio, mille volte peggio, perciocchè uno sciame d'immondi fantasimi mi vola sul capo, starnazzando le ali su tutto il mio corpo. E non ci è modo di sottrarmi a questa orrenda pressione che mi uccide, che mi conduce alla tomba, che mi rende cadavere!... cadavere!!

Pronunziando queste due ultime parole, il Baronetto fremè; il suo sembiante s'infoscò talmente che il medico ne fu sorpreso e guardollo fisamente.

Datemi il vostro polso, signor Conte.

Dopo di aver esplorato il polso del Conte per qualche momento, il medico disse, come se avesse parlato fra :

— È strano! il polso è convulso!

E tornò a riguardar negli occhi l'infermo, procurando scavargli i pensieri e lo stato dell'anima.

— Una violenta e tormentosa passione vi agita, signor Conte, gli disse indi a poco; le profonde occhiaie solcate sul vostro volto, i battiti irregolari e convulsi del vostro polso, i fantasmi della vostra mente; tutto mi rivela che voi siete sotto l'impero di un patema di animo. La vostra infermità non è di quelle che caggion sotto l'esplorazione dell'arte; fa d'uopo ricercarne altrove l'origine: emmi d'uopo di tutta la vostra illimitata confidenza. Parlatemi francamente, signor Conte; pensate ch'io sono per voi qualche cosa di più di un medico, son vostro amico.

Il Dottor Weiss distese la mano al Baronetto, il quale gliela strinse macchinalmente, e disse dopo pochi momenti:

Dottore, io vi estimo amico e de' più leali, e però non avrò onta di palesarvi quello che soffro, a patto che le mie parole rimangano sepolte in voi. Un'invincibile ripugnanza mi ha finora tenuto dall'aprirvi l'animo mio. Mi promettete di non rivelare ad alcuno quanto sarò per dirvi? Io mi confido all'amico, e aspetto dal medico la mia salvezza.

Parlate liberamente, signor Conte, vi giuro che serberò il segreto.

— Ebbene, Dottore, sappiate che da oltre a un anno uno strano fantasma avvelena la mia vita. La notte soprattutto, la notte io gemo sotto la pressione di questo incubo morale che mi strugge, che mi succhia il sangue nelle vene, che mi spinge a grandi passi alla tomba...

— Qual è mai cotesto fantasma? chiese con premura il medico.

— Il mio cadavere! rispose cupamente il Conte e abbandonando il capo sul petto, compreso dal più mortale scoraggiamento.

— Il vostro cadavere! sclamò il Dottore in atto di chi non ben comprenda quello che gli si dica. Non vi capisco, signor Conte; mi fa mestieri intendere più chiaramente l'indole di un tale fantasma.

— Ah! Dottore, non vedete che io soffro a parlarne? Come farò per farmi comprendere? Non vi ho detto abbastanza allora che vi ho nominato il mio crudel nemico, il vampiro che mi consuma la carne, che scopre le mie ossa, che rode i mie visceri, e che mi annienta, mi distrugge? Il mio cadavere! Egli è... , sempre rimpetto a me, con quegli occhi socchiusi e velati dalle tenebre della morte, colla bocca spalancata, livido... immobile come un pezzo di cera: il mio cadavere abbandonato sul letto dell'estrema agonia!.. Vedete quelle persone che passano accosto ad esso; sembran paurose di svegliarne il sonno!... Chiunque se gli avvicina rattiene il fiato per tema di fiutare le putride esalazioni di quel corpo, sul quale incomincia la seconda opera della natura, il lavoro di decomposizione. Gli elementi dell'aria atmosferica, quegli elementi che per tanti anni han lavorato a conservar la vita, ora si affrettano a ripigliarsi il frutto dell'opera loro, appropriandosi le molecole che si staccano da quelle ruine di organizzazione. Ogni minuto secondo strappa o disfà una fibra di quel corpo il quale perde... perde sempre senza mai più acquistare. Tutta la natura si gitta, come uccello di rapina, su quel suo figlio, alla cui conservazione ella avea fatto concorrere tutte le sue forze; ed ora si affretta a disfare quel dilicato tessuto... Nelle tenebre si compirà questo lavoro di decomposizione, siccome nelle tenebre si era compito il lavoro di formazione: le visceri di una madre crearono, le visceri della terra consumeranno: nove mesi ci vollero per formarlo, e forse nove mesi ci vogliono per disformarlo, interamente: quel primo tempo fu contato co' palpiti di un amore ineffabile, l'amor materno: il secondo tempo chi mai l'ha calcolato? Oh... il mio Cadavere!... le visceri del mio amore, abbandonato da tutti e da tutto! abbandonato alla terra, sua crudel nemica, alla creta che lo abbranca per farne creta, a' vermini che ne fanno la loro abitazione! E chi sa dirmi quello che soffrirà il mio povero cadavere? Chi conosce i misteri della tomba? Non può forse avvenire che l'antica magione del pensiero risenta l'orrore del sepolcro? Chi mi assicura che il cadavere non soffra nel vedersi strappato da' beni della vita, da quanto egli ha amato in sulla terra? Oh! il sonno della morte sarebbe men duro se i nostri corpi non rimanessero esposti agli orribili ospiti delle visceri della terra! Se potessimo in morendo avere la dolce consolazione di sapere che coloro i quali ci hanno amati non abbandoneranno le nostre spoglie! Il mio Cadavere!... il mio povero Cadavere abbandonato da tutti!... da tutti!

Edmondo ruppe in lagrime, come un bambino.

Il Dottor Weiss aveva attentamente seguito le parole dal baronetto, la cui eloquenza era eccitata dal favorito soggetto della sua orribile fissazione. Non ci era più dubbio! Il medico avea tutto compreso, tranne una cosa, che dovea pur formare il perno delle sue argomentazioni. In che stato si trovava la coscienza del Conte? Gli è vero che la fissazione di lui e i fantasmi che il maceravano non erano dell'indole di quelli che soglion morder l'anima dei rei; ciò non per tanto una tale angosciosa fiacchezza di spirito in un uomo forte, vigoroso, che aveva veduto il mondo, che aveva arrischiata tante volte la vita, che era stanco e sazio di tutti i piaceri; una tale fiacchezza di spirito era inconcepibile senza una prepotente cagione morale, la cui mala radice era forse nella coscienza di lui. Ad ogni modo, lo stato di Edmondo era tanto deplorabile in quanto che l'infermità non era del genere di quelle che vanno sottoposte alla disanima e curagione dell'arte medica; ei bisognava operare sul morale e trovar rimedii nella filosofia e nella religione.

Edmondo era ricaduto nel suo cupo abbattimento, dal quale il dottor Weiss si affrettò di trarlo.

— Tutto ho compreso, signor Conte, dissegli il medico: trista è la situazione dell'anima vostra, ma non è da disperare. Prima di tutto, permettete che vi faccia un'interrogazione. Vi ricordo che in questo momento io sono amico vostro, e che entrambi dobbiamo cercare una via che ci guidi alla desiderata guarigione. In che stato si trova vostra coscienza?

— Che intendete dire, Dottore? domandò esterefatto il Conte, credendo che il medico volesse disporlo per l'ultimo viaggio.

Intendo dire, soggiunse questi, che la riparazione di qualche male involontario da voi cagionato potrebbe essere il più efficace rimedio contro i fantasmi che vi assediano. Una buona coscienza è il miglior guanciale su cui si trovi leggiero il sonno e ristorante.

Edmondo abbassò il capo e nulla disse. Questa volta egli avea compreso il vero sentimento delle parole del dottore.

Signor Conte, ripigliò questi che dal silenzio dell'infermo aveva già sospettato non esser monda di colpì la coscienza di lui — non è mio intento il voler entrare nei segreti della vostra vita. Iddio solo scruta i cuori e giudica gli uomini: ma è mio debito di rischiarare la vostra mente sulle probabili origini del funesto e straordinario malore di cui siete vittima. Se la radice del male stesse nel vostro organismo e nelle funzioni che ne dipendono, io sarei obbligato di cercare con accuratezza la cagione di un tale disordine per apportarvi salutari medicamenti; ma la serpe non stà nel vostro organismo, signor Conte, bensì ... nel fondo della vostra anima, dove non è dato all'occhio umano di addentrarsi. A me basta l'aver su questo richiamata la vostra attenzione. Mi permetterò di farvi eziandio osservare che la via del pentimento è la più bella che vi si offra e la più atta a ridonarvi la pace smarrita e a bandire le tristi e lugubri immagini, sotto il cui impero voi soccombete. Siete ancora giovine, ricco e di valida salute; avete ancora innanzi a voi una lunga serie di anni. Se una colpa ha bruttata la vostra coscienza, se una follìa giovanile vi pesa in sul cuore, volgete al cielo il vostro sguardo, implorate la Divina clemenza, riparate, se è possibile, al male che avete fatto; se l'innocenza è bella, il pentimento è più nobile; l'anima vi si ritempera, vi si fortifica e vi attinge la calma e la gioia. Che se niun rimordimento è nel vostro cuore, se una singolare attitudine ipocondrica del vostro spirito è la cagione del tristo fantasma che tormenta le vostre notti, non saprei indicarvi altro rimedio più efficace che la distrazione.

— La distrazione! mormorò tristamente il Baronetto, e dove trovarla? E l'anima mia non si rifiuta forse ad ogni maniera di svagamento?

— Fa d'uopo sforzarsi alla distrazione, signor conte; ci bisogna che non istiate solo in nessun'ora del giorno, e, se è possibile, della notte: bisogna che vi mettiate nell'attività de' piaceri, che frequentiate le riunioni, i teatri. Oltre a ciò, vi propongo un rimedio della cui riuscita molto mi riprometto; esso vi costerà un po' d'oro.

— Dell'oro? E che non darei per riacquistare la mia salute e la tranquillità del mio spirito? Parlate, parlate presto. Di che si tratta? Che debbo fare?

— Ebbene, signor Conte, il rimedio ch'io vi propongo è il seguente: Abbiamo a Manheim un giovine pianista italiano che ha destato in pochi mesi l'ammirazione e la simpatia di Europa. Egli ha dato accademie a Parigi, a Londra, a Berlino, a Vienna: iersera si è fatto udire in questo teatro di Manheim, ed ha prodotto tale entusiasmo, che pochi suonatori possono vantare un sì bel successo. Voi gli scriverete, signor conte, e lo inviterete a passar con voi un mese o due: i soavi accordi ch'ei sa trarre dal piano forte avranno forza di strapparvi dai vostri bui pensieri; la sua compagnia vi rallegrerà; quasi novello Davide porrà in fuga la malinconia del nuovo Saulle.

— Che nome ha questo giovine?

Daniele de' Rimini.

— E credete che la musica sarà capace di ridonarmi la serenità dell'animo? Credete che le armonie del piano forte varranno ad allontanare dalla mia mente l'immagine del mio cadavere?

— Io lo spero, signor Conte.

— Ebbene, io tenterò questo mezzo: dimani, il giovine pianista italiano Daniele de' Rimini avrà stanza in questo casino.

Un servo pose termine alla conversazione, annunziando che il bagno a pioggia era pronto.

La sera di questo giorno, Daniele de' Rimini riportò un altro trionfo. Dopo l'accademia, gli abitanti di Manheim; trasportati di entusiasmo pel suonatore italiano, l'aveano accompagnato infino all'albergo dov'egli avea stanza. Correndo la stagione de' bagni, Manheim era zeppa di forestieri, e il teatro era de' più animati e brillanti.

Daniele, siccome abbiamo accennato, aveva in pochi mesi percorso le prime capitali di Europa: la fama il precedeva dappertutto, e un trionfo lo aspettava in ogni paese in cui si faceva udire a suonare. La sua giovinezza, l'avvenente malinconia del suo volto parlavano in suo favore anche prima che ponesse le mani sui tasti del piano-forte. La qual cosa il giovine non sì tosto incominciava, gli uditori erano rapiti e incantati dalla magia degli accordi, dalla dolce mestizia dei motivi delle opere italiane, a' quali Daniele dava una veste di armonie al tutto corrispondenti e flebili. Il genio o l'ambizione, animava le dita di quel giovine? L'uno e l'altra. Il genio era il mezzo; l'ambizione, o, per dir meglio, l'avidità dell'oro la molla delle sue ispirazioni.

Daniele era partito il gennaio da Napoli, povero e oscuro. Cinque mesi appena erano scorsi, ed egli avea già acquistato celebrità; ma il suo peculio non arrivava per ora che ad una somma tenuissima. Daniele era scoraggiato, ma non disperava; gli restava ancora a percorrere altra metà dell'Europa e tutta l'America settentrionale; i viaggi assorbivano gran parte de' suoi guadagni.

Il domani della seconda accademia data a Manheim, un domestico in gran livrea consegnava a Daniele il seguente biglietto:

«Il Baronetto Edmondo-Isacco Brighton, conte di Sierra Blonda, prega il signor Daniele de' Rimini di favorirlo questa mattina nella sua proprietà di Schoene Aussicht

Dopo un'ora, Daniele de' Rimini si trovava alla presenza di Edmondo.

 

 

 

 





11 Nell'originale "V". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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