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VI.
L'artista.
Il giorno appresso, Daniele era stabilito al primo piano del casino di Schoene Aussicht. Il Baronetto avea posto agli ordini del giovine pianista le migliori delle sue carrozze e due scelti domestici, uno tedesco e l'altro francese. Il più splendido e principesco servizio era ai comandi di Daniele, il quale era trattato come un ospite regale.
La colezione gli era recata nel suo appartamento, il pranzo era comune col Baronetto, così avendo disposto lo stesso Daniele. Edmondo gli aveva lasciata intera libertà, sì che il giovane era padrone assoluto di sè medesimo in tutto il corso del giorno. Ma al cadere delle tenebre, e in sull'ora del pranzo, il Baronetto il facea pregare di salire al secondo piano.
Dopo il pranzo, Edmondo faceva servire il tè nella camera verde, ove si riduceva assieme a Daniele e dove, coricato sulla magnifica sedia a foggia di letto, si abbandonava al piacere di sentire a suonare il giovane pianista.
Un preziosissimo piano-forte era stato trasportato nella camera verde. Pochi momenti dopo di aver preso il tè, Daniele si sedeva innanzi allo strumento ch'ei toccava con tanta maestria e con tanta perfezione, e traeva da que' tasti sublimi e patetici accordi.
Alcune volte Daniele suonava pezzi di grandi maestri da lui variati coi colori della più ricca fantasia. Era un torrente di melodie or piane o soavi come le cantilene religiosa di vergini romite, or flebili e toccanti come i lamenti della passione, or gravi e solenni come le preci dei morti salmeggiate in una chiesa lontana, or vivaci e liete come l'inno della speranza: era un concerto di accordi non mai uditi, or vibrati e veementi come i palpiti delle giovanili passioni, or dimessi e pacati come il mormorio del vento sulle acque d'un ruscello.
Alcune altre volte Daniele sposava il canto all'armonia strumentale: e allora quella sua voce era una potenza di affetti inesprimibili, la sua anima parea soggiogata dalle commozioni. Quel canto limpidissimo, soave, tutto cuore, tutto passioni, eco dell'anima, quel canto italiano ispirato da un cielo innamorato, quel canto, delizia della vita, storia sublime delle segrete sofferenze del genio peregrino in sulla terra, il canto di Rubini, di Lablache, di Basadonna, si ritrovava in terra straniera sulle labbra di Daniele, e andava a toccare i più nascosti penetrali nel cuore di Edmondo, che pallido, affannoso, tremante ascoltava le note dolcissime che, come effluvii divini, partivano dal cuore più che dalle laringi del giovine artista.
Edmondo pareva men triste del consueto; dormiva talvolta sonni placidi. Ma il lugubre fantasma non cessava di assalirlo di quando in quando, e alcune volte ne' momenti stessi in cui suonava Daniele. L'incanto della musica spirava di botto e le note basse del piano-forte prendevano agli orecchi di lui il solenne e terribil carattere de' rintocchi della squilla di morte.
Una sera, Daniele cantò la romanza del colpevole amore, ch'egli avea cantata sei mesi fa, nella sala di Lady Boston a Napoli. Sì grande fu la commozione onde l'artista fu preso al ricordo della donna ch'egli amava, che non potè terminar la romanza; le lagrime gli bagnavano il volto.
Inconcepibile contraddizione del cuore umano! Quel giovine, nei momenti in cui non era ispirato dal genio musicale, avea l'anima dura e malvagia: la sua condotta verso Lucia n'è una prova. Ma nei momenti in cui era al piano-forte, in cui era favorito dalla ispirazione, Daniele era tutt'altro uomo. Chi avesse giudicato di quel cuore negl'istanti in cui egli era artista, sarebbesi formato di lui l'opinione d'uomo sensitivo e virtuoso.
Edmondo fu profondamente commosso dall'accento con cui il giovane avea cantato il suo colpevole amore; di talchè, veggendo che quegli non poteva più proseguire per l'effetto delle proprie commozioni, gli domandò:
— Amo, Signor Conte, amo la più vaga creatura che sia sulla terra: ella ispira i miei componimenti, dà l'impulso alle mie dita. La speranza di possederla m'incoraggia alle più ardue fatiche.
— In che paese si trova al presente cotesta fanciulla?
— In Napoli.
— Quantunque voi diciate che non paleserete il nome di lei ancora che vi si desse un regno; disse sorridendo il Conte, pure userò l'indiscrezione di dimandarvi a qual famiglia appartiene la donna che amate.
— È la figlia di un nobile e superbo spagnuolo, che si è volontariamente esiliato dalla sua patria, poscia che le vicende politiche lo ebbero spogliato del potere.
— Il nome di costui? chiese il Baronetto con ansietà.
— Ah! egli! esclamò Edmondo: e voi siete il fidanzato di sua figlia?
— Volesse il cielo che il fossi!... Ma voi conoscete il duca di Gonzalvo?
— Sì, rispose con tristezza il Baronetto, l'ho conosciuto in Ispagna; uomo protervo, ambizioso, avaro!
— È vero purtroppo quanto dite, signor Conte. Ambizioso, avaro e superbo! Oh! perchè sua figlia è un idolo di bellezza! Perchè ho avuto la debolezza di amarla!
— Rifiuta egli forse di rendervi felice?
— Ebbene, sì, signor Conte, rispose il giovine con abbattimento, ei ricusa. Il giorno in cui gli chiesi la mano di sua figlia, il superbo mi umiliò con ogni maniera d'ingiurie.
— E quale speranza nutrite ancora di possederla?
— Nulla posso nascondere a voi, signor Conte: la benevolenza di cui mi onorate e il vostro rispettabile carattere m'ispirano un'illimitata fiducia. Vi dirò adunque che io strappai al duca di Gonzalvo la promessa d'attendere due anni prima d'impegnare la sorte di Emma sua figlia.
— E condiscese il duca ad aspettar questo tempo?
— Condiscese, perocchè io gli promisi di ritornare…. dopo due anni…. di tornare.....
Daniele avea vergogna di confessare il folle ardimento della sua proposizione.
— Ebbene, di ritornar che cosa? dimandò il Baronetto.
— Di ritornar... milionario, rispose il giovine arrossendo e abbassando il capo.
— Milionario! esclamò questi, e su che speravate accumulare in due anni una tal favolosa fortuna?
— Nol so io medesimo, signor Conte, speravo negli eventi, nella mia stella, e soprattutto nella febbrile operosità che mi avrebbe data la mia passione per colei che amo, per Emma.
— E quanto avete guadagnato finora nel giro delle vostre accademie?
— Pochissimo, signor Conte, quasi niente: le spese dei viaggi assorbono tutto. Mi avveggo purtroppo che la mia proposizione fa dettata da impeto giovanile, dallo sdegno in cui mi posero le umilianti parole di quel superbo... Ma non mi fo più illusione, signor Conte; i due anni passeranno, ed io non avrò potuto mettere su che un meschino capitale appena bastante per vivere indipendentemente dal capriccio della sorte. Oh... ci vuol ben altro che note musicali per diventar milionario, non è vero, signor Conte?
— Verissimo, mio caro Daniele. La vostra proposizione fu troppo ardita ed inconsiderata: ciò nulladimeno….
Edmondo si fermò di repente; i suoi occhi erano animati, brillanti, il suo volto avea preso un carattere di vivacità straordinaria. Un pensiero al certo gli era passato per la mente, al quale ei si era fermato con compiacenza e con delizia. Daniele avea notato il subitaneo cangiamento della fisonomia del Conte. La reticenza che avea seguito alla frase ciò nulladimeno avea fatto balzar di speranza il cuore del giovine pianista.
— Ebben signor Conte, voi dicevate.... ciò nulladimeno.
— Sì, rispose Edmondo, io diceva... Non bisogna disperare... chi sa!.. Ditemi, Daniele, avete voi coraggio?
— Se ho coraggio! Mettetemi alla prova, signor Conte, e vedrete se ho coraggio anche di affrontar la morte!
Daniele guardava attentamente il volto e gli occhi del Conte ne' quali si dipingeva quasi una specie di aberrazione mentale.
— A che questa interrogazione, signor Conte?
— Domani vel dirò... Domani parleremo a lungo.... Io forse vi sarò debitore d'una eterna obbligazione, e voi forse dovrete a me... la vostra fortuna.
Edmondo si alzò: il suo volto raggiava di insolita gioia.
— Buona sera, Daniele, buona sera, gli disse stringendogli la mano, buona sera, figlio mio, a domani..... a domani. Chi sa! domani forse la vostra sorte sarà cangiata!
Il Baronetto si ritirò. Daniele rimase trasognato. Eppure, quella parola che il Conte avea profferita, quel figlio mio, avea scosso l'anima del giovine!