Francesco Mastriani
Il mio cadavere
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PARTE VI.

II. Il ritorno.

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II.

 

Il ritorno.

 

 

 

Qualche tempo è scorso dagli avvenimenti che abbiamo narrati nella quinta parte di questo racconto.

Erano le dieci del mattino d'una giornata d'inverno.

Nel palazzo di S.... a Toledo tutto annunziava che la notte durava ancora: chiusi i terrazzini e le finestre della camera da letto, i servi oziosi nelle sale; il silenzio nell'interno de' vasti appartamenti.

Una elegantissima carrozza chiusa, al cui timone erano attaccati quattro superbi cavalli inglesi, si fermò dinanzi al portone del Palazzo S...

La cassetta di questa carrozza era difesa dalle ingiurie del verno da un ricchissimo copertone sul quale sedevano il cocchiere e un valletto, entrambi vestiti a nero con grandissima decenza. Al seggiolo del servitore stava sdraiato un gigante cacciatore dalla barba foltissima e colle solite armi proprie della sua carica.

Arrivata la carrozza al portone, costui smontò dal suo seggiolo e si fece dappresso ai cristalli dello sportello per prendere i comandi del padrone.

Intanto il portinaio del Palazzo S... veduta quella carrozza di gran signore fermarsi alla bocca del portone, stimò suo dovere inoltrarsi fin presso si montatoio del cocchio per sapere chi era il proprietario di que' magnifici quattro cavalli inglesi, e che si volesse.

La tendina che copriva nell'interno lo sportello fu scostata alquanto, e una faccia pallidissima si mostrò dietro di essa.

Poco stante, i cristalli furono abbassati, e una voce partì dalla carrozza per trasmetter un ordine.

Il cacciatore chiese al guardaportone se il Duca di Gonzalvo era in casa. Dietro l'affermativa, il predellino fu abbassato, e un uomo venne fuora della carrozza ed entrò nel portone.

Quell'uomo era Daniele.

Era impossibile di riconoscerlo. Un pallor plumbeo copriva le sue guance, il cui lividore maggiormente risaltava sulla barba nera che di presente gli chiudeva la faccia in ogni verso. La sclerotica degli occhi, da bianca, era divenuta affatto gialla, e due cerchi neri, come due ferri di cavallo, solcavangli l'altezza delle gote. Qualche cosa di stralunato e di infermiccio era nel suo sguardo incerto e sospettoso.

Piuttosto che un giovine di venticinque anni, l'aria della sua persona ne dava a credere trentacinque o quaranta. I suoi lunghi capelli erano già bigi: il delitto avea gittato la prematura canizie su quel giovine capo: le sue spalle erano bastantemente ricurve.

Daniele avea puntualmente adempito ai patti della eredità del Baronetto; i nove mesi di crudeli sofferenze fisiche e morali erano spirati. Non diremo nove mesi, ma nove anni eran passati pel figlio di Edmondo contati colla febbrile impazienza di tutte le più veementi passioni, onde può essere capace il cuore umano.

Quei nove mesi erano stati una lunga e tormentosa tensione di tutte le facoltà dell'animo di quel giovine; la sua vita e la sua ragione erano state attaccate ad un sol filo: la passione dell'oro.

Prima di conseguire l'eredità, il pensiero di Emma era secondario in lui; ma, dopo, la passione per l'Andalusa si alzò a prima potenza nel cuor suo.

Noi non tenteremo di rimuginare nella melma di quel cuore e rimestarvi le passioni odiose che il fanno pulsare e vivere. Sfuggito all'umana giustizia Daniele è sotto l'invisibil processo d'un'altra giustizia alla quale nessun reo può sottrarsi. Noi però non oseremo gittare un'occhiata nel fondo di quel cuore, caos tenebroso e terribile, su cui è sospeso il fulmine di Dio.

Questa volta Daniele non fu introdotto nel modesto stanzino da studio del Duca di Gonzalvo, bensì nel gran salotto di ricevimento.

Nel riporre il piede in quella casa, l'antico maestro di Emma fu preso da una forte vertigine e dovè appoggiarsi contro un muro per non cadere.

Entrando nel salotto, ei disse al cameriere di annunziare al Duca di Gonzalvo un signore che dee parlargli per negozi d'importanza. Egli volea sorprendere il Duca alla sprovvista.

Siccome accennammo, la famiglia di Gonzalvo era tuttavia a letto, però conveniva a Daniele di aspettare: ei si sedè sovra un canapè, e si abbandonò alle profonde meditazioni che gl'ispirava la sua situazione.

 

Il milionario.

 


Il cacciatore si fece dappresso ai cristalli dello sportello per prendere i comandi

Tutto quanto gli era accaduto sembravagli un sogno strano e orrendo! Nonpertanto egli tornava ricco, ricchissimo! La sete ardente della sua giovinezza era appagata! Due volte milionario!! Quest'idea non era più per lui l'oasi lontana, inaccessibile a' suoi passi, meta favolosa delle sue febbrili aspirazioni; sibbene era una realtà, un fatto! il più ricco tra i giovani di Napoli! Tra pochi momenti avrebbe riveduta Emma di Gonzalvo, la superba spagnuola, che aveva affettato disprezzo per lui meschino maestro di musica! Tra pochi momenti avrebbe riveduto quel Duca orgoglioso e altero che tanto lo aveva umiliato in quell'ultimo abboccamento ch'egli si ebbe con lui!

Daniele mormorava tra i denti con sogghigno:

— Ah! signor Duca di Gonzalvo, voi dicevate che una stolta speranza mi aveva illuso; perdonavate alla mia fanciullezza l'audacia delle mie parole, chiamaste insulto la mia proposta di matrimonio! Ah... Signor Duca, gli è vero che allora io non aveva due milioni da offrirvi; ma io allora era giovine, avea genio, speranze, era innocente!! Oggi, io vengo a portarvi il milione che voi mi chiedete per mezzo della mano di Emma! Un milione rappresenta dieci generazioni di nobiltà; un milione è una potenza, una grandezza, uno stato. Furon queste le vostre parole, signor Duca! Ed eccovi soddisfatto! Io ritorno milionario, siccome vi promisi.

La faccia di Daniele si allividì maggiormente, ed egli soggiunse cupamente e con infernale sarcasmo:

— Ma voi, signor Duca, dimenticaste di aggiungere queste altre parole ch'io soggiungo alle vostre: un milione rappresenta ancora, dieci generazioni di coscienze impure, un milione è un marchio d'ignominia per la fronte di un uomo!

Poco di poi Daniele ripigliava sempre tra :

Direte da parte mia a Daniele de Rimini che adempia esattamente agli obblighi impostigli, perchè Emma, sua cugina, lo aspetta! Che intese dire quell'uomo? Emma sua cugina! Eppure, sempre che penso allo strano rapporto delle mie reminiscenze infantili, sempre che penso all'impressone che fece in me quel ritratto del Duca, che io vidi in questa casa in quell'ultimo giorno che io qui venni, non so perchè trovo spiegabile il mistero di questa parentela! Emma mia cugina! E il Duca che mi colmava di umiliazioni e d'ingiurie è dunque mio zio! mio zio! mio padre gli era dunque fratello, o mia madre sorella! Quando ricordo la spiacevole impressione che il nome di Gonzalvo produceva sull'animo di mio padre, non posso che sempre più convincermi delle relazioni che han dovuto passare tra loro!... Ma questo mistero tra poco sarà schiarato!... Tra poco il superbo spagnuolo dovrà ad ogni modo umiliarsi al mio cospetto! Ora io mi sento grande quanto le più grandi sommità sociali! mi sento forte, ardito, superiore a tutti

Ora sì che si può vivere!

Ciò dicendo, un urto di tosse cupa e profonda si fece udire dalla cavità dei suo petto, e due fiamelle di rosso carico apparvero sulle sue gote.

In questo, il Duca di Gonzalvo entrò nel gran salotto di ricevimento.

Daniele si alzò, chinò la testa, e nulla disse, aspettando che il Duca l'avesse riconosciuto.

— Chi è il signore, e che cosa brama? chiese il nobile tenendosi all'impiedi.

— Non ho il bene, signor Duca, di essere da lei riconosciuto? disse il Daniele, fissando gli occhi sul volto di lui.

Il Duca il ragguardò con grande attenzione, cercando di richiamare le sue rimembranze, ma non potè risovvenirsi di quel personaggio che gli stava dinnanzi; Daniele era del tutto cangiato; la sua barba, il suo pallore cinereo, l'aria del suo volto, le spalle alquanto ricurve ne avean fatto un altro uomo, per modo che non pure al Duca, ma a chiunque altro più intrinseco col giovine, sarebbe stato impossibile il riconoscerlo.

— Non ricordo di lei, disse freddamente il Duca di Gonzalvo.

— Allora aiuterò le rimembranze di lei, signor Duca, pronunziando il mio nome che forse non le sarà uscito di memoria. Io sono Daniele de' Rimini.

Daniele de' Rimini! ripetè il nobile, e stette per qualche tempo in cerca de' propri pensieri.

— Non ricorda il mio nome, signor Duca? ricorderà, io spero, il maestro di pianoforte di sua figlia Emma.

Il Duca ebbe un soprassalto di sorpresa.

— Ah! voi, signore! Voi Daniele de' Rimini, quel giovine ch'ebbe la follia d'innamorarsi di mia figlia!

— Per lo appunto, signor Duca, io sono quel desso!

— Ah! bravo! mi fa proprio piacere di riverdervi, piacciavi di accomodarvi. E da quanto tempo siete di ritorno in Napoli?

— Da pochi giorni, signor Duca, rispose Daniele sedendo sovra una poltrona.

Il Duca si era seduto, sembrava lietissimo di rivedere il giovine pianista.

— Vi ringrazio davvero di esservi ricordato di noi, mio caro de' Rimini; eh, come si sta? Vi confesso che vi trovo molto cambiato, tanto che mi è stato malagevole di riconoscervi. Avete forse sofferto qualche malattia?

— Sì, signor Duca, molto ho sofferto, ho avuto malattie mortali; eppure il vivo desiderio di mantenere la mia promessa verso di voi me le ha fatte superare. Oh! io temeva tanto di morire prima di questo giorno! — Voi avete una promessa verso di me? dimandò il Duca maravigliato.

— Sì, signor Duca, siccome voi pure l'avete verso di me. Io non ho dimenticato la mia, ma veggo pur troppe che voi avete obbliata la vostra.

Il nobile incominciava a comprendere; egli era estremamente sorpreso, ma non era sicuro della sanità della mente del giovine, per maniera che il riguardava con sospetto misto a dolore.

— Mi avveggo che non mi avete ancora compreso, signor Duca: cercherò di farmi comprendere meglio. Oggi, signor Daca, siamo a mercoledì 17 dicembre 1828.

— Or bene, chiese il nobile sempre più maravigliato.

— Or bene, compiacetevi di gittare un'occhiata su questa carta.

Daniele trasse da un elegante portafogli un fogliettino di carta e il consegnò al Duca, il quale con indicibile sorpresa lesse:

Oggi io Duca di Gonzalvo prometto sul mio onore a Daniele de' Rimini di non prendere verun impegno di matrimonio per mia figlia Emma prima che spirino due anni dalla data di questi giorno. Napoli 17 Dicembre 1826Duca di Gonzalvo.

Il volto del Duca diventò pallidissimo come cera.

— Che vuol dir questo? dimandò egli con turbamento.

— Vuol dire, signor Duca, che io vengo a reclamare da lei l'adempimento delle sue promesse.

— Delle mie promesse?

— Sì, signor Duca, il prezzo che voi metteste alla mano di vostra figlia era enorme; io non poteva offrirvelo: presi due anni di tempo, e non ho mancato alla mia parola, lo sono milionario, signor Duca.

— Voi, voi, milionario!

— Per lo appunto, e vengo a chiedervi la mano di vostra figlia.

Il Duca non dubitò più che Daniele fosse demente.

— E dove l'avete il vostro milione? dimandò con sarcasmo il padre di Emma.

— Su quasi tutte le banche di Europa, rispose il giovine. Se vi compiacerete di passare al mio studio, strada Toledo, Palazzo M.... vi si darà minuta contezza de' miei beni.

— Al vostro studio!

— Eccovi il mio indirizzo, signor Duca.

Daniele cavò dal portafogli una cartellina e la consegnò nelle mani del nobile, il quale vi gittò distratto un'occhiata. Quella cartellina conteneva le seguenti parole:

Il Conte di Sierra BlondaStrada Toledo, Palazzo M.

Il Duca mise un grido altissimo; afferrò Daniele per ambo le braccia, il guardò con occhi di matto.

— Il Conte di Sierra Blonda! Il Conte di Sierra Blonda!! Dov'è costui? Dov'è l'infame? Che rapporto avete voi col Conte di Sierra Blonda? Chi siete voi? Come questo abborrito nome si trova su questa cartella? Chi siete? parlate?

— Sono il suo erede.

Erede!!... Egli è dunque morto!

Morto!! ripetè Daniele.

Il Duca ricadde estenuato e affranto in sulla sedia.

— E dove, dov'è morto l'infame?

— A Manheim, in Germania.

— In Europa! così vicino!! mormorò il Duca... E voi, signore, chi siete voi che avete ereditate le ricchezze e i titoli di quel ribaldo?

— Io sono... suo figlio.

— Suo figlio!... E la madre vostra... chi era ella?

— L'ignoro, signor Duca, conosco soltanto che mia madre era spagnuola.

Spagnuola!... Ma il vostro cognome non è de' Rimini?

— Lo era, signor Duca, due anni fa; io sono Daniele Brighton, Conte di Sierra Blonda.

Il Duca sembrava un forsennato. Questa scoperta inaspettata gli avea posta la febbre nei polsi... Daniele forse era suo nipote, figlio della sventurata Juanita, figlio dell'abborrito Edmondo.

Il nobile si era coperto la fronte con ambo le mani, e si era sepolto nei suoi pensieri, cercando di strigare il caos che si era formato nella sua mente.

Daniele frattanto, dopo alcuni momenti di silenzio, ripigliava:

— Quali che sieno state le relazioni passate tra voi e mio padre, signor Duca, non potranno mai influire sul reciproco adempimento delle nostre promesse. Oggi io sono milionario e nobile, e, ripeto, vengo a dimandarvi la mano di vostra figlia.

Il Duca alzò il capo, e guardò Daniele in maniera come se non l'avesse compreso.

Daniele ripetè:

— Non avete nessuna risposta a darmi, signor Duca?

— Voi mi chiedete la mano di mia figlia?

— Per lo appunto.

— Voi dunque ignorate che mia figlia è maritata?

Daniele si levò di botto, come per lo scatto di una molla.

Maritata!! Emma maritata!

Il Duca fu spaventato dalla feroce espressione degli occhi del giovine.

— Ella è maritata, vi ripeto.

Daniele mise un sordo gemito, indi fu assalito da una tosse violenta e terribile, che durò alcuni minuti, a capo de' quali disse al Duca con voce appena sensibile:

Uomo senza onore, vil creatura!... Maritata!... E chi è l'indegno ch'ella ha sposato?

— Ecco lo sposo di mia figlia, disse il Duca additando un uomo ch'era apparso sulla soglia del salotto.

Maurizio Barkley! esclamò Daniele, e una fiamma di furore gl'incendiò la faccia.

 


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