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Che direbbe Lei? che ce ne fussano della gente contenta nel mondo? Chê! ognuno ha la su' ascherezza. La stia dunque a sentire. C'era un Re, ma non c'era verso, che lui fusse mai contento; lui, la su' contentezza non l'aveva. Colla moglie non stevano d'accordo e sempre si battibeccavano, che era una disperazione[2]; eppure non gli mancava nulla, e della grazia di dio in casa ce ne stramoggiava; una dovizia, via! Che ti fa il Re? Chiama il su' fido camberieri e dice: - «S'ha a andare a girar per il mondo, se si potessi trovare, se de' contenti ce n'è. Almeno per aver questa consolazione, E di vedere qualcheduno un po' contento.» - Presero una cassetta sotto 'l braccio, tutta piena di gioielli, d'anellini, di buccole per gli orecchi; e poi, travestiti da orefici, partirno da casa, e cammina cammina, loro non si fermorno, che quando furno dimolto lontani. E così tutti i giorni camminavano di qua e di là con quel mestieri d'orefici; ma della gente contenta a modo non ne trovan mai. Chi steva in nimicizia colla moglie, chi co' figlioli, chi aveva a ridosso i parenti. Ce n'erano, che leticavano pe' tribunali, o si battagliavan col prossimo. Insomma tutti, chi più o chi meno, la su' croce l'avevano a portare; dappertutto de' malcontenti. Un giorno, questi du' viaggiatori sentiron dire d'una città, in dove ci comandava un Re, che lo chiamavano il Re delle contentezze. Sicchè dunque deliberorno di fargli una visita, perchè, con quel nome, loro si figuravano, che quel Re fussi molto contento. Si messano in cammino; e, arrivati alla città di quel Re, si presentano al palazzo e subbito gli feciano passare a udienza. Il Re gli ricevette da par suo e comperò de' gioielli; e poi gli orefici gli garborno tanto, perchè gli parseno gente per bene, che lui gli volse con seco a desinare. Quando ebban finito di mangiare e che eran satolli, discorsano del più e del meno, in quel mentre che bevevano il caffè; e il Re, dalle parole e dalla su' allegrezza in viso almeno, s'addimostrava contento. N'aveva il nome delle contentezze! Dice quello, che era travestito da orefice forastiero: - «Lei, Maestà, non si pole lamentare; sta bene e non gli manca nulla. Dunque gli è per questa ragione, che lo chiamano il Re delle contentezze?» - «Eh! di sicuro, questo pare. Ma venite con meco e vi farò vedere i mi' contenti. Venite, venite.» - S'alzano; e il Re innanzi a girare per tutto il palazzo, pieno d'oro, di pietre preziose; una ricchezza, che cavava gli occhi a vederla; poi arrivorno a un salone, giù fondo - anche qui c'è fondo - ma lì, al paragone, fondo, chè la fine non si vedeva. Dice il Re: - «Guardate quelle tre belle donne, che lavorano: una è la Regina, la mi' sposa; e quell'altre due sono le su' camberiere, che gli tengono compagnia. Avre' a esser contento io, con quel tocco di sposa! è una bellezza splendente; non ce n'è altre di compagne.» - Tutti assieme si avvicinorno. Ma, più che il Re s'avvicinava e la su' sposa cominciava a allargar le braccia e a tremolare; e, quando lui gli era dinanzi a petto, la Regina si trasmutava in una statua. Dice il Re: - «Ecco le mi' contentezze! Una bellissima sposa, che non la posso toccare, perchè diventa una statua. I' sono un omo sperso; e 'l mi' Regno non avrà eredi.» - Que' du' viaggiatori rimasono sbalorditi a quello spettacolo; e, quando si furno licenziati dalla corte, disse il servitore al su' padrone: - «Maestà, torniamo a casa e state colla vostra moglie; perchè si vede, che, nel mondo, de' contenti non ce n'è, e della miseria n'è più in casa degli altri, che a casa vostra.» - Detto fatto, ritornano addietro, e il Re s'avvezzò a non si lamentar più della su' scontentezza, e s'accomodò a quel che dio gli mandava.
[1] Narrata dalla Luisa Ginanni del Montale Pistoiese e raccolta dall'avv. prof. Gherardo Nerucci. Nimo, cioè nessuno. Fagiuoli. Il sordo fatto sentir per forza. - «Laura. Ma s'io non lo scoilto dire a nimo a codesto moe. Frasia. Se tu non lo scoilti dire a nimo, te lo dich'io; e bada a me e non a nimo. A nimo, eh? A nessuno dei dire.» - Confronta con la Novella I della Giornata.... del Pecorone.
[2] Chi sa quante volte non avrà pensato come quel marito, che, (in un sonetto di quel Zanetto, mentovato a pagine 136-137 del presente volume), alla moglie, la quale biasima i vivicomburî delle Indiane sul cadavere del marito:
- «Hai ragion» - le rispose - «è una follia.
Che giova, a chi nol sente, un tanto amore?
Ti regola altrimenti, moglie mia.
«Non aspettar, ch'io giunga all'ultim'ora;
Anticipa, mio ben, bruciati in pria,
Ed io dirò: Che moglie di buon cuore!» -