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X.
RE MESSÈMI-GLI-BECCA-'L-FUMO[1]
C'era una volta un omo che aveva tre figlioli. Si ammala e more quest'omo. I tre fratelli dicono: - «Che si ha a fare?»[2] - Dicono i due maggiori: - «Facciamo le parti di questa roba, perchè noi si vole andare a girare il mondo.» - Dice il minore: - «Andate, ma io non ci vengo, io rimango con la me' gattina.» - I fratelli maggiori vanno via e quest'altro piglia la gatta[3] e se ne fugge in una cantina. Quando gli è sul mezzogiorno, la gattina: - «Aspettami, or'ora vengo» - la dice. La va via e gli porta una bona minestra, un bel pezzo di lesso, un pezzo di pane e un pochino da bere. E questo ragazzo mangia e la gattina la gli dice di bel novo: - «Aspettami, ora ritorno.» - Poco distante da questa cantina c'era il palazzo d'il Re. La gattina principia a gnaulare: urli! gnau! ma urli! La servitù: - «Che hai tu, gattina?» - «Mi fareste la carità» - dice - «il mio padrone gli è cascato in un fosso, di darmi un vestito?» - «Volentieri» - dicono. Vanno e gnene danno. Dopo, poi, il giorno, la va e gnene riporta e li ringrazia. Dice uno della servitù: - «Dimmi, gattina, chi è egli il tuo padrone?» - «Un gran signore» - dice questa gattina. Dunque Maestà voleva sapere chi gli era. Un altro giorno la gattina la gli dice al ragazzo: - «Aspettami.» - Ogni giorno la gli portava da mangiare, la stessa minestra, lo stesso lesso, lo stesso pane e un pochino da bere. - «Aspettami qui; or'ora ritorno.» - Principia a gnaulare, più che di quel giorno, ma urli! - «Gnau! gnau! gnau!» - «Che vuoi, poerina, icchè tu hai?» - «Fatemi il piacere» - dice - «di prestarmi lo stajo. Il mio padrone ha bisogno di misurare de' quattrini.» - Gnene danno e la gattina va via. I domestici vanno da Sua Maestà: - «Questo e questo verte. Gli è venuto la gattina per lo stajo per misurare i quattrini: gli ha da essere un signore davvero.» - Dice il Re: - «Come la ritorna, vo' dovete dirgli: Sua Maestà bramerebbe di conoscere il suo padrone, avrebbe molto piacere.» - Aveva la gattina una moneta di dieci paoli; va e la mette in fondo dello stajo; e gnene riporta. - «Grazie» - dice. I servitori vedon questa moneta: - «Gattina! gattina!» - dicono - «guarda, ci è questa moneta!» - «Eh» - dice - «prendetela per voi. Il mio padrone non ci ha neppure osservato!...» - «Senti, gattina; Sua Maestà ci ha detto, bramerebbe di fare amicizia col tuo padrone.» - «Sissignori, come loro comandano. Non pensino, glielo condurrò.» - Va alla cantina e dice: - «Oh! che domani si deve andare da il Re!» - dice - «intendi bene!» - «Da il Re, io? O tu non vedi, son tutto stracciato, tutto rifinito? Com'è possibile ch'io possa venire?» - «Tu non devi trasgredire quel ch'io ti dico; altrimenti, ti graffio» - la gli dice. - «Oh senti! Tu vedrai al palazzo tutti tappeti, tutte ricchezze. Alza i piedi, sennò tu caschi. Vai franco con meco, sennò tu passi per un poero.» - La batte la bacchettina fatata e lui vien vestito, non posso dire come, da andare da Sua Maestà: un abito bello. E vanno al palazzo. Subito corre parola che c'è questo. Sua Maestà va incontro a questo signore e lo fa passare nel suo quarto, nelle sue stanze. Quando gli è lì, discorre del più e del meno, sapete, di tante cose. - «Ma Lei» - dice il Re - «avrà la sposa e i figli?» - Risponde la gattina: - «Nossignore; è giovinotto.» - Allora disse Maestà: - «Ma si trattien molto, signore?» - «Eh, per qualche mese» - rispose la gattina - «si trattiene.» - «Dica, signore, mi favorirebbe di stare a mangiare una zuppa da me?» - dice Maestà. La gattina: - «Sissignore» - dice - «gli accetta volentieri.» - Sempre la rispondeva lei. Si trattiene un altro poco lì Sua Maestà, poi va di là e li lascia soli. La gattina dice: - «Che non credi tu di mangiare come mangi nella cantina, che tu pari un lupo: gna, gna, gna. Ci sarà ogni bene di Dio. Tu devi mangiare di tutto, e poco di tutto.» - «Ma se ho tanta fame, come io farò a mangià' poco?» - dice lui alla gatta. - «Chètati, sennò ti graffio.» - Andiamo all'ora di pranzo. Questo ragazzo gradiva di tutto, ma pochino mangiava, come gli aveva detto la gattina. Diceva lui alla gattina: - «Gatta, i me' cenci!» - chè gli stava meglio alla cantina che lì, e lui insisteva. - «Chètati, ch'io ti graffio!» - Dice Maestà: - «Cosa dice il tuo padrone?» - «Eh dice: Gran bone pietanze che son queste! Nel suo paese non si fanno.» - Finito che fu il pranzo - «Oh senta» - dice Maestà - «oh si degnerebbe di rimanere anche stasera da noi a dormire? due o tre giorni? Mi fa un regalo!» - Lui guarda la gattina, che risponde: - «Sissignore, come Lei comanda. Quanto gli sarà di piacere, noi ci staremo.» - Maestà dà ordine ai servitori che mettan le lenzola le più grosse, le più ordinarie, che sieno nel palazzo. - «Perchè» - dice - «se gli è un signore, non entra nel letto. Se gli è un poero, non gli par vero; che sta a guardare le lenzola?» - Così fu fatto. La sera, quand'è l'ora di andare a letto, la gattina entra in camera con lui, va e scopre il letto. - «Che tu non entri nel letto, sai, stasera!» - «Lasciami andare! Gli è tanti mesi che io dormo nella cantina, che non mi par vero!» - «Ti dico che tu non entri!...» - e lo graffia. Questo ragazzo si mette sur una poltrona e dorme. Venghiamo alla gattina che non era fatto giorno: - «Gnau! gnau!» - per il[4] palazzo, urla che la buttava giù il palazzo. I servitori s'alzano: - «Cos'hai, gattina, cosa c'è?» - «Cosa c'è, eh? per chi gli avete preso il mio padrone?» - dice. - «A mettergli quelle lenzola! Ha dovuto restare su d'una poltrona tutta la notte!» - I servitori corrono da Maestà: - «Maestà, questo e questo è stato con quelle lenzola!» - Maestà dice da sè: - «Gli ho detto ch'era un signore! Ed io gli voglio dare mia figlia in isposa.» - Aveva una figlia. Dà ordine ai servitori che la sera le più sopraffine lenzola, quelle di tela che rimangono in un pugno[5] gli fossero messe nel letto a questo ragazzo: - «E voi starete attenti domattina se il letto gli è arruffato, se gli è com'egli v'è entrato. Se gli è un signore, il letto è quasi tocco punto.» - Eccoti la sera vanno in camera e la gattina va a guardare il letto: - «Oh stasera entrerai nel letto. Ma bada bene, se tu ti movi, ti graffio in una maniera» - dice - «che quasi tu hai a morire!» - Figuratevi, gli entra nel letto, poero figliolo, se anche si moveva nel sonno, e il sonno fa fare degli scossoni, la lo graffiava, ma come! Tutta la notte fu sveglio: gua'! non poteva dormire. La mattina i servitori vanno a vedere se gli occorreva qualcosa, cioccolata o caffè[6], quel che gli fosse occorso, e vedono il letto senza toccare neppure. Vanno da Maestà: - «Se la vedesse, Maestà, non par neppure che gli abbia toccato il letto.» - Risponde il Re: - «Ve l'ho detto, eh, che era un signore?» - E dice da sè: - «Oggi io parlo di matrimonio assolutamente.» - Venghiamo all'ora del pranzo. Il Re lo fa discorrere questo ragazzo del più e del meno; gli entrava sempre sul matrimonio: - «Via, si accaserebbe[7] Lei volentieri?» - dice Maestà a questo signore. Risponde la gattina: - «Se trovasse una ragazza per bene, una sua pari, volentierissimo s'accaserebbe.» - Risponde Maestà: - «Non fo per lodare mia figlia; ma se non gli dispiacesse, io gnene darei volentieri. Può star sicuro, è una ragazza per bene, come Lei brama.» - Lui sapeva d'essere tanto poero, non sapeva quel che dire, gua'. La gattina la gli fa che dicesse di sì: - «Quando Lei fosse contento, Maestà» - dicono tanto lui che la gattina - «volentierissimo nojaltri si farebbe questo passo.» - Eccoti, per farla corta, questa ragazza la la mandano a chiamare, perchè lei la stava su; e gli dice Maestà: - «Vedi? Questo è il vostro sposo.» - «Come Lei comanda, signor Padre!» - Di certo, gua', la non aveva volontà. Loro penarono poco a conchiudere le nozze e forse entro la settimana fu fatto lo sposalizio. Dunque eccoti che si trattennero forse un altro mese quaggiù da Sua Maestà. Poi gli dice la gattina: - «Sa bene» - gli dice - «il su' genero gli è un Re anche lui. È un pezzo che manchiamo dal nostro posto; e quando non c'è il Re, i sudditi han sempre da dire[8].» - Risponde Maestà: - «Hai ragione, poerina; e così è di me, sai? Nella settimana partirete... partiremo, perchè vengo anch'io ad accompagnarla la mia figliola.» - Maestà va nel suo quartiere; rimangono la gatta e il ragazzo soli. - «Ma dimmi un po', indove la vuoi tu condurre questa sposa? nella cantina?» - la gli dice questo giovane, gua'. Lei gli dice: - «Chètati, sennò ti graffio. Te, non ci devi pensare.» - Quando gli è il giorno di partire, la gattina batte la bacchetta magica e gli viene tutte queste belle strade, tutte palazzi e ville. Maestà chiedeva: - «Di chi sono tutte queste ville?» - Le genti dicevano: - «Di Re Messèmi-gli-becca-'l-fumo.» - Eccoti partono con le carrozze tutte a otto e dieci cavalli; e lei si mette a cavallo vestita da fantino, la gattina. Gli sposi col padre entrano in carrozza e via. E per quante strade di lì fin che fossero al posto, tutti replicavano: - «Ma di chi sono queste ville?» - ed essa rispondeva: - «Del Re Messèmi-gli-becca-'l-fumo.» - E tutte le genti che si domandava, sempre ripetevano così. Arrivarono al palazzo. Da quanto era bello questo palazzo! l'architettura, tutte le mura, tutte pietre preziose. Principiando dalle scale, tappeti, lumiere, una cosa che sorprendeva. E servitori! Urlando tutti: - «Evviva gli sposi! Evviva gli sposi!» - Il padre si trattiene otto o dieci giorni in questo bel palazzo, fra queste belle robe, dicendo: - «Che sorte è stata questa per la me' figliola! Che signore è questo!» - Fra sè diceva: - «Io mojo contento per avere accasato una figlia a questa maniera.» - Eccoti il giorno viene: - «Io domani parto, non posso fare di meno, gua'!» - La mattina all'ora fissata - «Addio!» - «Addio!» - Bacia la figliuola: - «Ci scriveremo!» - E va via, e torna al suo posto. Venghiamo agli sposi che ogni giorno di bene in meglio, di bene in meglio, sempre più cresceva l'abbondanza. Un giorno la dice la gattina allo sposo: - «Avrei bisogno di parlarti in disparte.» - «Quando tu vuoi. Quando ho finite le mie occupazioni, io verrò da te e sarò a sentire quel che tu vuoi.» - Quando ebbe finito quel che doveva fare, eccoti, va di là dalla gattina: - «Cosa vuoi da me?» - «Ora, aspetta un po'!» - e serra tutti gli usci, bussole, - «Voleva sapere una cosa da te; ma bada di dirmi la verità!» - «Te lo giuro. Dimmi, cos'è questo che mi vuoi domandare?» - Dice: - «Abbi da sapere che io son vecchia.» - «Ebbene?» - dice il ragazzo. - «Eh sai bene che più che vecchia non si campa. Un giorno io devo morire. Tu vedi il bene che io t'ho fatto. Se io morissi, cosa faresti di me?» - «Ah! Ah!» - si mette a piangere questo sposo. - «Ahi! Ahi! non discorriamo di queste cose!» - dice piangendo. - «Ah! non mi affliggere!» - Dice la gattina: - «Non credo di affliggerti. Voglio sapere quel che tu faresti di me.» - «Ahn, che vuoi?» - sempre piangendo questo ragazzo - «non ci posso pensare! Ma che vuoi ch'io ti facessi? Ti farei una custodia tutta soda d'oro e d'argento.» - Dice la gattina: - «Davvero?» - Risponde lui: - «Davvero. Ma non discorriamo di queste cose.» - «Ah» - la dice - «adesso non voglio altro; se vuoi andare, puoi andare.» - Lascia passare un tempo questa gatta, oh! anche più d'un anno. Una notte che ti fa? per tutti i tappeti e la meglio roba, con rispetto, la va di corpo. Con rispetto, vòmita per tutta la roba, quanta ce n'era, con un fetore insopportabile. E poi, nel quartiere bono, lei tutta sparata la si butta distesa morta. Venghiamo alla mattina che i servitori s'alzano per pulire e sentono un fetore, una cosa insopportabile. Apron le finestre e vedon tutta la roba straziata. Vanno nel salotto bono e vedon la gattina, tutta distesa lì, sparata, e sciupato ogni cosa. - «Noi non abbiamo colpa» - dicon tra loro. - «Si dirà a Maestà, Maestà vedrà, ma noi non ci s'ha colpa.» - Nell'ora in cui Sua Maestà s'alza e quando sorte dalla stanza e sente questo fetore: - «Cos'è stato? cosa non è stato?» - I servitori dicono: - «Maestà venga a vedere.» - E lo conducono nel salotto a vedè' la gattina tutta sparata; tutto conciato ogni cosa. Dice lui: - «Oh porca sudicia! Prendetela e buttatela in Arno!» - Non aveva detta questa parola e si trovò giù nella cantina, con la sposa accanto e senza mangiare nè nulla. Dunque lui fu costretto a scrivere al padre della moglie la disgrazia seguita, che mandasse a prender sua figlia perchè lui era ritorno un poero meschino. Il padre sente questo e manda a prendere la figliola e la fa tornare lassù nel palazzo. E lui rimase poero; e in capo a poco tempo credo che morisse di fame e di rimorso.
Dite la vostra, che ho detto la mia.
[1] Ho messo l'accento sulla seconda e di Messèmi, per evitare che altri, pronunziando sdrucciola la parola e frantendendo, cada nell'errore in cui sembra incorso il Liebrecht, che annota: «König Schickt'-mich-ihm-pickt-den-Rauch. Zum gestiefelten Kater. S. G. G. A, 1871. S. 1408 zu N. 4.» - È lo Chat-Botté di Carlo Perrault; ed il Gagliuso, trattenimento IV della Giornata II del Pentamerone: - «Gagliuso, pe' 'nnustria de 'na gatta lassatole da lo patre, diventa signore; ma mostrannose sgrato, l'è renfacciata la sgratitudene soja.» - Nella imitazione Italiana intitolata Il conto de' conti, Gagliuso diventa Petrillo: - «Petrillo per industria d'una gatta lasciatagli dal padre diventa un signore, ma mostrandosi ingrato, gli è rinfacciata la sua ingratitudine.» - Ne la Chiaqlira dla Banzola questa novella è intitolata La fola d' Mascarin, e Mascarin è il nome del micio. V. Gonzenbach, Sicilianische Märchen (LXV. Vom Conte Piro). In Pitrè (Op. cit.) la novella LXXXVIII. Don Giuseppe Piru. La prima favola nella undecima delle Tredici piacevoli notti del signor Giovan Francesco Straparola da Caravaggio, è identica a questa Fiaba. Forse sarà cosa grata a' lettori il poter confrontare la narrazione dello Straparola col semplice racconto d'una ciana. Essendo ora pur troppo lo Straparola quasi irreperibile in commercio, trascriveremo qui la sua Novella. - «Trovavasi in Boemia una donna, Soriana per nome chiamata; ed era poverissima, ed aveva tre figliuoli, l'uno de' quali dicevasi Dusolino, l'altro Tesifone, il terzo Costantino Fortunato. Costei altro non aveva al mondo che di sostanzia fosse, se non tre cose, cioè un albuolo, nel quale le donne impastano il pane; una panara, sopra la quale fanno il pane; ed una gatta soriana36 già carica di anni. Venendo a morte fece l'ultimo suo testamento; ed a Dusolino suo figlio maggiore lasciò l'albuolo, a Tesifone la panara ed a Costantino la gatta. Morta e sepolta la madre, le vicine per lor bisogna quando l'albuolo, quando la panara ad imprestito richiedevano. E perchè sapevano loro essere poverissimi, gli facevano una focaccia, la quale Dusolino e Tesifone mangiavano, lasciando da parte Costantino minor fratello. E se Costantino gli addimandava cosa alcuna, rispondevano: egli andasse dalla sua gatta che gliene darebbe. Per il che il povero Costantino con la sua gatta assai pativa. La gatta, che era fatata, mossa a compassione di Costantino ed adirata contra i due fratelli, che sì crudelmente lo trattavano, disse: Costantino, non ti contristare, perciocchè io provvederò ed al tuo ed al viver mio. Ed uscita di casa, se n'andò alla campagna; e, fingendo dormire, prese un lèpore, che accanto le venne, e l'uccise. Indi andata al palazzo regale, e veduti alcuni cortegiani, dissegli voler parlar col Re. Il quale inteso che era una gatta che parlar gli voleva, fecela venire alla presenza sua. Et addimandatela cosa richiedesse, rispose: che Costantino, suo padrone, gli mandava a donare un lepore, che preso aveva; e appresentollo al Re. Il Re, accettato il dono, gli addimandò chi era questo Costantino. Rispose la gatta: lui esser uomo, che di bontà, di bellezza e di potere non aveva superiore. Onde il Re le fece assai accoglienze, dandole ben da mangiare e da bere. La gatta, quando fu ben satolla, con la sua zampetta con bel modo empì la sua bisaccia, che da lato aveva, d'alcuna buona vivanda; e, tolta licenza dal Re, a Costantino portolla. I fratelli vedendo i cibi, de' quali Costantino trionfava, li chiesero che con loro i37 participasse. Ma egli, rendendogli il contraccambio, li denegava. Per il che tra loro nacque una ardente invidia, che di continuo gli rodeva il cuore. Costantino, quantunque fusse bello di faccia, nondimeno per lo patire che avea fatto, era pieno di rogna e di tigna che gli davano grandissima molestia. Ed andatosene con la sua gatta al fiume, fu da quella da capo a piedi diligentemente leccato e pettinato; ed in pochi giorni rimase del tutto libero. La gatta (come dicemmo di sopra) molto continoava con presenti il palazzo regale ed in tal guisa sostentava il suo patrone. E perchè ormai rincresceva alla gatta l'andar tanto su e giù e dubitava di venir in fastidio alli cortigiani del Re, disse al patrone: Signor, se tu vuoi far quanto ti ordinerò, in breve tempo farotti ricco. - Ed in che modo? disse il patrone. Rispose la gatta: Vien meco e non cercar altro; chè sono al tutto disposta di arricchirti. Ed andatisi insieme al fiume, nel luogo che era vicino al palazzo reale, la gatta spogliò il patrone, e di comune concordia lo gittò nel fiume; dopo si mise ad alta voce a gridare: Ajuto! ajuto! Correte, correte! che messer Costantino s'annega! Il che sentendo il Re, e considerando che molte volte l'aveva appresentato, subito mandò le sue genti ad ajutarlo. Uscito di acqua messer Costantino e vestito di buoni panni, fu menato dinanzi al Re, il qual lo ricevette con grandi accoglienze. Et addimandatolo per qual causa era stato gettato nel fiume, non poteva per dolor rispondere. Ma la gatta, che sempre gli stava dappresso, disse: Sappi, o Re, che alcuni ladroni avevano per spia il mio patrone esser carico di gioje, per venire a donarle a te; e del tutto lo spogliarono; e, credendo dargli morte, nel fiume lo gettarono; e per mercè di questi gentiluomini fu da morte campato. Il che intendendo il Re, ordinò che fusse ben governato ed atteso. E vedendolo bello, e sapendo lui esser ricco, deliberò di dargli Elisetta sua figliuola per moglie e dotarla di oro, di gemme e di bellissime vestimenta. Fatte le nozze e compiuti i trionfi, il Re fece caricar dieci muli di oro e cinque di ornatissime vestimenta, ed a casa del marito da molta gente accompagnata la mandò. Costantino, vedendosi tanto onorato e ricco divenuto, non sapeva dove la moglie condurre; ne fece consiglio con la sua gatta, la quale disse: Non dubitare, patron mio, che ad ogni cosa faremo buona provvisione. Cavalcando ognuno allegramente, la gatta con molta fretta camminò avanti, et essendo dalla compagnia molto allontanata, s'incontrò in alcuni cavalieri, ed a quelli ella disse: Che fate quivi, o poveri uomini? Partitevi presto, chè una gran cavalcata di gente viene, e farà di voi presaglia. Ecco che gli è qui vicina, udite il strepito delli nitrienti cavalli. I cavalieri spauriti dissero: Che deggiamo adunque fare noi? Ai quali la gattina rispose: Farete a questo modo. Se voi sete addimandati di cui sete cavalieri, rispondete animosamente: di Messer Costantino; e non sarete molestati. Et andatasi la gatta più innanzi, trovò grandissima copia di pecore et armenti; e con li lor pastori fece il somigliante, et a quanti per strada trovava, il simile diceva. Le genti che Elisetta accompagnavano, addimandavan: Di chi siete cavalieri? e: Di chi sono tanti belli armenti? E tutti ad una voce rispondevano: Di messer Costantino. Dicevano quelli che accompagnavano la sposa: Adunque, messer Costantino, noi cominciamo sopra il tener vostro entrare? Et egli col capo affermava di sì. E per questo la compagnia grandissimo ricco lo giudicava. Giunta la gatta ad un bellissimo castello, trovò quello con poca brigata e disse: Che fate, uomini da bene? Non vi accorgete della roina che vi viene addosso? - Che? dissero i castellani - Non passerà un'ora che verranno qua molti soldati e vi taglieranno38 a pezzi. Non udite i cavalli che nitriscono? Non vedete la polve in aria? E se non volete perire, togliete il mio consiglio, che tutti sarete salvi. Se alcuno vi addimanda di chi è questo castello, ditegli: di Messer Costantino. E così fecero. Aggiunta la nobil compagnia al bel castello, addimandò i guardiani di cui era e tutti animosamente risposero: Di Messer Costantino Fortunato. Et entrati dentro, onorevolmente alloggiarono. Era di quel luogo castellano il signor Valentino, valoroso soldato, il quale poco avanti era uscito dal castello per condurre a casa la moglie che nuovamente aveva presa; e per sua sciagura, prima che giungesse al luogo della diletta moglie, gli sopraggiunse per la strada un così fiero e miserabile accidente, per lo quale immantinente se ne morì. E Costantino Fortunato del castello rimase signore. Non passò gran spazio di tempo, che Morando, Re di Boemia, morì; ed il popolo gridò per suo Re Costantino Fortunato, per esser marito di Elisetta figliuola del morto Re, a cui per debito di successione aspettava il Reame. Et a questo modo Costantino di povero e mendico, signore e Re rimase, e con la sua Elisetta gran tempo visse, lasciando di lei figliuoli successori nel Regno.»
[2] Questo si ha a, si pronunzia veramente dal volgo contraendo le due a che s'incontrano, in modo che potrebbe figurarsi così: s'hâ. Onde spesso equivoci. Il Marchese M.*********, milanese, sentendosi domandare da un notajo fiorentino: S'ha a scrivere? ed intendendo: Sa scrivere? rispose meravigliato: Ma! un pochino! almeno ho imparato da ragazzo e fino ad iersera me ne ricordavo.
[3] Non sappiamo se fosse una maghera micia allampanata e strutta od un bel pelliccione. Vattel'a pésca. «Le donne, quando vedono un bel gatto, grande e grosso, lo chiamano un bel pelliccione, cioè: che ha una bella pelle o pelliccia.» - Ann. al Malm. Cant. IX, St. XXI. Di gatte così affezionate all'uomo ne troviamo una appo il Guicciardini: - «Una gatta inamorata d'uno fanciullo, supplicò Venere che la volesse in donna trasformare. Venere, avuta compassione di lei, le fece la grazia et le dette forma di bellissima giovane: mediante la qual forma et bellezza, essa ben tosto lo amante a letto si condusse. Or in questo stante, volendo Venere esperimentare se ella, mutata forma, avesse mutata natura, fece passare per il mezzo della camera un topo, verso il quale, subito saltata dal letto donna Gatta, corse per prenderlo. Di che sdegnata Venere, la ridusse immantinente nella sua pristina forma.» -
[4] Per il, con il, forme viziose e riprese con ragione da' grammatici, che nè l'esempio di valorosi scrittori, nè l'uso generale potranno mai render commendevoli o vaghe. Massime al plurale, quanto son goffi que' peri che verdeggiano e que' coni che piramideggiano in quasi tutte le scritture moderne!
[5] Senza dubbio di quella tela sciósciala ca vola, ricordata di continuo dal Basile nel Pentamerone. Raccontano che quando Re Carlo Alberto visitò Cuneo con la moglie, il consiglio comunale ragunato pensò bene fra le altre cose deliberate, d'invitare le signore a ricamare in oro un pajo di lenzuola pel letto della Regina, trovando troppo vulgari delle lenzuola di semplice tela, ancorchè della più fina battista. Si vera sunt exposita, lascio immaginare che nottata passasse la Maestà Sua sulle asperità e le scabrosità di que' ricami, e con quanti lividori s'alzasse la dimane dopo una notte insonne. Ma ne raccontan tante di que' di Cuneo in Piemonte, e su per giù le medesime si narran de' Bustocchi (cioè degli abitanti di Busto Arsizio) in Lombardia; e d'altri nelle altre regioni d'Italia.
[6] L'offerta delle quali bevande forma da un pajo di secoli un obbligo d'ospitalità. Vedi Martelli, Satire:
S'ordini all'abil scalco il cioccolato
O la bevanda abbrostolita e fresca
Di quei, cui dalla Legge è il vin vietato.
Non si può dir quanto i poeti addesca
Chi liberal ne' buccheri presenta
La bevanda indïana o la turchesca.
L'odor traspiri ed il frullar si senta
Nella stanza vicina: e tempo è allora
Di recitar quindici versi o trenta.
[7] Vocabolo che ho udito condannare come Napoletanesimo a Napoli, ma che è pure, come Napoletano, e Toscano ed Italiano. Fagiuoli, Cavalier Parigino: «Mia sorella.... ancora non ha risoluto l'elezion del suo stato. Alla quale coll'accasarmi io non so di pregiudicare in modo alcuno.» - Il Celano, negli Avanzi delle Poste (vol. II p. 224) ha detto spiritosamente sebbene non da purista: - «Molte volte (e se dico per lo più, non dirò male) i mariti, invece di accomodarsi col casamento, si scasano.» - ]
Senza capo e signor che 'l freni e regga
Erra et inciampa il popolo confuso,
Qual greggia a cui se avvien che non provveggia
Pastor, licenziosa esce dal chiuso.