IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
XI.
LA CENERENTOLA.[1]
C'era una volta un omo che aveva tre figliole. Dunque gli ebbe ordinazione di andare fori via per lavoro. E gli dice: - «Giacchè io sono in viaggio, che volete voi quando io torno?» - Una, la gli ordina un bel vestito: l'altra, un bel cappello e un bello scialle. Dice alla minore: - «O te, Cenerentola, o che tu vuoi?» - La chiamavan Cenerentola, perchè la stava sempre nel cammino. - «Vo' m'avete a comperare un uccellin Verdeliò.» - «La sciocca! Non si sa che gli abbia a fare dell'uccellino! Invece di ordinarsi un bel vestito, un bello scialle, si piglia l'uccello chi sa per farne che!» - «Chetatevi!» - dice. - «Io son contenta così». - Eccoti il padre va via. Quando torna, a quella porta il vestito; a quella lo scialle, il cappello; e alla Cenerentola l'uccellino. Eccoti, siccome gli era uno che lavorava a corte, dunque il Re gli dice a quest'omo: - «Io dò tre feste di ballo, tre festini; se tu vuoi condurre anche le tue figliole, conducile; tanto quel poco le si spasseranno». - «Come Lei comanda» - dice. - «Grazie!» - e accetta. Torna a casa: - «Sapete, ragazze? Questo e questo; Sua Maestà vole che si vada alla festa da ballo, così e così.» - «Vedi tu, Cenerentola, se ti avevi ordinato un bel vestito? Stasera s'ha a fare di andare alla festa di ballo.» - Dice: - «Non me ne importa nulla! Andate pure, io non ci vengo» - Eccoti la sera, quando gli è l'ora, si preparano tutte per bene, tutte pettinate, dicendo alla Cenerentola: - «Vien via, ti si accomoderà anche te.» - «Eh, io non voglio venire, andate voi, io non voglio venire.» - «Ma» - dice suo padre - «andiamo, andiamo! Vestitevi e venite via: lasciatela stare.» - Quando le sono andate via, la va dall'uccellino: - «Oh Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'[2].» - La vien tutta vestita di verdemare e tutta brillanti che a guardarla si accecava. Prepara due sacchette di quattrini l'uccellino; gli dice: - «Porta questi due sacchetti; e entra in carrozza e va via.» - Va alla festa e l'Uccellin Verdeliò lo lascia a casa. Entra nella festa. Appena i signori veggono questa bella signora (la faceva accecare da tutte le parti), il Re, figuratevi, principia a ballare con lei tutta la sera. Eccoti dopo che lei gli ha ballato tutta la sera, si ferma Sua Maestà; e lei si mette accanto alle sorelle. Mentre che lei gli è accanto alle sorelle, caccia fori un fazzoletto e gli casca un braccialetto. - «Oh Signora,» - dice la maggiore, - «Le è cascato questa roba.» - «Prendetelo per voi,» - dice. - «Oh se ci fossi la Cenerentola, chi sa che non fossi toccato a lei?» - Il Re aveva dato ordine, che quando andava via questa signora, stessero attenti dove stava di casa. Quando s'è trattenuta un poco, vien via dalla festa. I servitori figuratevi se erano attenti! Lei entra in carrozza e via. Lei si avvide d'essere perseguitata, la prende i quattrini e la comincia a buttarli via, fori della finestra della carrozza. I servitori ingordi, vi lascio dire, vedendo tutte quelle monete, non pensorno più a lei, si fermarono a raccattare i quattrini.[3] Lei la va al palazzo e sale su: - «Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'.» - La vien così brutta, orrenda tutta, tutta cenere, bisognava vedere in che modo! Eccoti le sorelle che tornano: - «Ce-ne-reen-to-laa!» - «Oh lasciatela stare!» - dice suo padre - «la dormirà ora; lasciatela stare!» - Dunque le vanno su e gli fanno vedere questo gran bel braccialetto: - «Vedi, scimunita? Lo potevi aver te.» - «Non me ne importa nulla a me.» - Eccoti che vanno a cena. Il padre dice: - «Andiamo, andiamo a cena, a mangiare, scioccherelle.» - Venghiamo a il Re che stava ad aspettare i servitori. I servitori non avevano il coraggio di presentarsi a Sua Maestà, stavano lontani. Li chiama: - «O come è andata?» - Si buttano a' piedi: - «Così e così!... Ci ha buttati tanti quattrini!...» - «Vili! che non siete altro» - dice. - «Avevi paura di non essere ricompensati?» - dice. - «Ahn? bene!» - dice - «domani sera, pena la morte se voi non istate attenti.» - Venghiamo la sera dopo, c'è la solita festa. Dicono le sorelle: - «Stasera verrai, eh, Cenerentola?» - «Oh!» - dice - «non mi seccate! Io non ci voglio venire.» - E suo padre le grida: - «Oh, quanto siete seccanti! Lasciatela stare!» - Eccoti le si mettono ad abbigliarsi, figuratevi, più meglio dell'altra sera; e vanno via. - «Addio, sai, Cenerentola!» - Eccoti la Cenerentola, quando le sono andate via, la va dall'uccellino: - «Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'.» - La vien tutta vestita di verdemare; ricamate tutte le qualità di pesci del mare e poi brillanti mescolati che non si pol credere, ecco. L'uccellino gli dice: - «Prendi due sacchetti di rena. E quando» - dice - «sarai perseguitata, buttala fora.» - Dice: - «Così, rimarranno ciechi.» - Così la fa: la va via, si mette in carrozza e la va alla festa. Eccoti Sua Maestà che la vede, mah! subito si mette a ballare con lei e balla quanto può ballare, ecco! Dopo che l'ha ballato quanto poteva (lei non si straccava, ma lui si straccava!) la si mette accanto alle sorelle; tira fori il fazzoletto e gli cade fori un vezzo, ma un vezzo tutto di carbonelle, bello! Dice la seconda sorella: - «Signora, Le è caduta questa roba,» - Dice: - «Prendetelo per voi.» - «Se c'era la Cenerentola, chi sa che non fossi toccato a lei! Eh ma domani sera la s'ha a far venire!» - Eccoti dopo un poco, lei la va via dalla festa. I servitori (figuratevi: pena la morte!) tutti attenti, eh! dietro! La principia a buttar tutta questa rena e rimangon ciechi. Eh, l'arena negli occhi, lascio dire! La va a casa, la smonta e va su. - «Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'.» - La viene così brutta, uno spavento, ecco! Veniamo alle sorelle che tornano: - «Ce-ne-reen-to-laa!» - le principian di giù. - «Se tu sapessi, che la ci ha dato quella signora!» - «'Un me ne importa nulla!» - «Ma domani sera tu ci hai a venire!» - «Sì, sì! vo' l'areste aère!» - Suo padre dice: - «Andiamo a cena, e lasciatela stare: impertinenti proprio che voi siete! Venite a cena.» - Vanno a cena. Venghiamo a Maestà che sta aspettando i servitori perchè gli dicano dove sta di casa. Invece gnene riportan tutti ciechi, perchè s'ebbero a fare accompagnare, gua'! - «Briccona!» - dice. - «Questa signora o l'è qualche fata o dove avere qualche fata che la protegge.» - Eccoti il giorno dopo le sorelle: - «Cenerentola, t'ha' a venire stasera! Senti: l'è l'ultima sera, t'hai a venire.» - Suo padre: - «Oh lasciatela stare! siete sempre a tormentarla!» - Allora le vengon via e si mettono a prepararsi per la festa. Quando le son bell'e preparate, le vanno via con suo padre, le vanno alla festa. Quando le sono ite via, la Cenerentola va dall'uccellino: - Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'.» - La viene tutta colore del cielo, proprio dell'aria del cielo; tutte le comete; le stelle, la luna nel vestito, e il sole in mezzo alla fronte. Entra nella festa: chi la poteva guardare! solamente pel sole, gua', bassavan gli occhi, accecavan tutti.[4] Eccoti Maestà si mette a ballare, ma non poteva guardarla, perchè l'accecava: ballava, ma guardare non poteva. Di già aveva dato ordine Maestà ai servitori che stessero attenti, pena la morte: non andassero a piedi, montassero a cavallo quella sera. Eccoti, quando ella ha ballato anche più delle altre sere, la si mette accanto a suo padre codesta sera; tira fori il suo fazzoletto e gli cade una tabacchiera d'oro piena di zecchini d'oro. - «Signora, Le è caduta questa tabacchiera.» - «Prendetela per voi!» - Figuratevi quest'omo, l'apre e la vede tutta piena di zecchini: che contentezza! Quando la s'è trattenuta, la va via come l'altra sera e la va verso la casa. I servitori via a cavallo, lesti; stavano discosti dalla carrozza, ma col cavallo si pena poco. Ella s'avvede di non aver preparato nulla da gittare; non aveva nulla stasera: - «Oh!» - dice - «come ho a fare?» - Ma non poteva buttar nulla, perchè non aveva nulla. Lesta la smonta e gli cade una pianella nel far presto. I servitori la raccattano; prendono il numero dell'uscio; e vengon via. Venghiamo alla Cenerentola che va su: - «Uccellin Verdeliò, fammi più brutta ch'io non so'!» - Non gli risponde l'uccello. Quando la gnene ha detto tre o quattro volte, gli risponde: - Briccona! bisognerebbe che non ti facessi divenire più brutta, ma....» - e la fa divenire brutta e poi gli dice: - «Ora e che vuoi fa'? Tu siei scoperta.» - La si mette a piangere, piangeva proprio. Venghiamo alle sorelle che tornano: - «Ce-ne-reen-to-laa!» - Eh figuratevi questa sera, non gli risponde, cheh! - «Guarda che bella tabacchiera! Se te fossi venuta, la potevi aver te.» - «Non me ne importa nulla! Escite di costì!» - «Andiamo, andiamo; venite a cena»-dice suo padre. Vanno a cena ed è finito. Venghiamo ai servitori che tornano con la pianella e il numero dell'uscio. - «Che dimani» - dice Maestà - «appena fatto giorno voi andiate a questa casa; prendetemi la carrozza e portatemi questa signora nel palazzo.» - I servitori prendon la pianella: quella che gli stava, era lei; e vanno via. E picchiano. Si affaccia suo padre: - «Oh dio! è la carrozza di Sua Maestà! cosa ci sarà?» - Tiran la corda e van su i servitori. Vanno su. - «Cosa mi comandano?» - gli dice il padre, gua', a questi servitori. - «Quante figlie avete voi?» - Dice: - «Due.» - «Bene, fatecele vedere.» - Ecco il padre le fa venire di qua. - «Mettetevi a sedere» - dicono a una di quelle. Gli provano la pianella, cheh! la ci entrava dieci volte. Quest'altra si mette a sedere: gli era piccola. - «Ma ditemi, galantomo, non avete altre figlie voi? Badate a dire la verità, veh! Perchè Maestà lo vole: pena la morte!» - «Signori, ce n'è un'altra, ma non lo dico neppure. Gli è tutta nella cenere, nel carbone, se vedeste! Io non la chiamo nemmen figliola per vergogna.» - «Nojaltri non siamo venuti nè per bellezza, nè per abbigliatura: si vol vedere la ragazza!» - Eccoti, le sorelle chiamano: - «Ce-ne-reen-to-laa!» - ma urla, urla! Ma lei non rispondeva. Dopo un pezzo: - «Che v'è egli?» - la risponde. - «Bisogna che tu venga giù! c'è de' signori che ti vogliono vedere.» - «Io non vo' venire, io.» - «Ma bisogna che tu venga, ti pare?» - dice. - «Sì, ditegli che or'ora vengo.» - La và dall'uccellino: - «Ah Uccellin Verdeliò, fammi più bella ch'io non so'.» - La vien vestita come l'ultima sera, col sole, con la luna e con le stelle, e l'aveva per dippiù tutte catene d'oro, ma grosse! messe così. Dice l'uccellino: - «Portami via, sai? mettimi in seno, via, sai?» - Si mette l'uccellino in seno e principia a scender le scale. - «La sentono?» - dice il padre - «la sentono? La si strascica la catena del cammino. Si figurino che orrenda cosa che sarà quella!» - Eccoti quelli, quando è l'ultimo scalo, la veggono apparire. - «Ah!» - riconoscono la signora dell'altra sera. Il padre, le sorelle, figuratevi che affanno che fu quello! La fanno mettere a sedere, la gli provano la pianella, eh! l'era sua, la gli stava! La fanno montare in carrozza e la portano a Sua Maestà. E riconosce la signora di queste sere. E figuratevi, innamorato com'egli era, gli dice: - «Assolutamente, voi siete la mia sposa.» - Lei acconsente, gua', lo credo! Manda a chiamare il padre, le sorelle e le fa venire tutte nel palazzo. Concludono le nozze. Figuratevi, che feste belle, che cosa che fece a questo sposalizio! I servitori li fa de' maggiori del palazzo, quelli che avevano scoperto dove la stava, in ricompensa. Se ne vissero e se ne godettero e a me nulla mi dettero.
[1] Cf. con la fiaba XVI: La Maestra, Il Liebrecht annota: - S. Lemcke's Iahrbuch XI, 385 meine Anmerkung zu dem cyprischen Mährchen N.° 2.» - È lo stesso argomento del trattenimento VI, giorn. I del Pentamerone: - «Zezolla, 'mmezzata da la Majestra ad accidere la Matreja; e credenno, co' farele avere lo patre pe' mmarito, d'essere tenuta cara; è posta a la cucina. Ma ppe' bertute de le fate, dapò varie fortune, sse guadagna 'no Re pe 'mmarito». - Cf. Pitrè (Op. cit.), XLI, Picuredda e XLII, Grattula-Beddattula (della quale il prof. Malato-Todaro ha data una versione Italiana nella Rivista Sicula di Palermo, vol. VIII). Bernoni (fiabe popolari veneziane) VIII. La Conza-Senare. Prima che il libretto e la musica di due Italiani, ringiovanissero la fiaba della Cenerentola e fin dall'anno M.DCC.LIX, fu recitata a Parigi una Cendrillon, parole dell'Anseaume, musica del La Ruette, che non incontrò gran fatto. Gli aneddotisti dànno per certo, che alcuni anni prima, il basso Thevenard, passando innanzi ad una calzoleria, stupisse della piccolezza elegante d'una pantoffola da ricucirsi; e che s'informasse dello indirizzo della padrona di quella calzatura; e volesse conoscerla; e se ne innamorasse perdutamente; e la chiedesse in matrimonio lì per lì, su due piedi; e non fosse in seguito nè più scontento, nè più infelice di tanti e tanti che hanno arrischiato il duro passo solo dopo mature considerazioni, ponderatamente. Anche il poeta tedesco Di Platen-Hallermünde, sepolto a Siracusa, ha trattato drammaticamente questo tema vaghissimo. Ecco due racconti milanesi che appartengono al ciclo della Cenerentola, il quale abbraccia due rami, quello di Peau-d'âne e quello di Cendrillon.
LA SCINDIROEURA.39
Ona volta gh'era on Re. El gh'aveva ona tosa. L'era tanto bella che le voreva per sposa, la voreva sposà per mièe; e lee la voreva minga, perchè l'era vecc. Lu, seguitava a seccalla de sposall; e lee, on dì per contentall, la gh'ha ditt: - «Famm dùu vestìi a me piasè e on'ochetta che parla, che te sposi.» - Come difatti, el gh'ha fàa dùu vestìi, vun pien de stell e on alter cont i ragg del sol. Sicchè, la sera, lu, l'è andàa in lett. El ghe dis: - «Adess ven anca ti, Maria.» - la se ciamava Maria. E lee, la dis: - «Adess vegni subet.» - L'ha ciappàa i dùu vestìi e i ha faa su in d'on fagott e l'ha miss l'ochetta in d'on cadin con denter l'acqua. L'ochetta, la sbatteva i al: e el Re le dimanda: - «Maria, te vegnet a dormì?» - E l'ochetta, la ghe rispondeva: - «Vegni» - Lu, el Re, el s'è indormentàa; e el s'è dissedàa pu fin a la mattinna. La mattinna el leva su, el trœuva pu la soa tosa. Lee, l'ha miss on bell'-e-brutt40, ona finta che se cognosseva domà che i occ; e la s'è missa in viagg; e l'ha seguitàa a viaggià finchè l'ha trovàa ona cittàa, dove gh'era on Re. L'è andada alla porta del Re e la ghe dis a la guardia de digh a la Reginna se voreven ciappalla per fa la donzella. E la guardia la gh'ha ditt: - «Te gh'hê minga vergogna, bruttascia che te set, a cercà de vegnì a fà la donzella?» - Dopo, lee, l'ha tornàa a pregà se voreven ciappalla a fà la scindirœura41; a stà a i fornell, a i fogolar a tœu su la zener. Allora la guardia l'è andada a dighel a la Reginna. La Reginna, la gh'ha ditt de lassalla pur vegnì. On dì, el fiœu del Re, el ghe dis a la soa mamma, a la Reginna: - «Diman, vœuri fa ona festa de ball» - E lee, la ghe dis: - «Fâlla pur.» - Quand l'è staa che eren adrèe a ballà, la Scindirœura, la ghe dia a la Reginna: - «O sura Reginna, che la me lassa andà a guardà denter almen dal bus de la ciav, a vedè come fan a ballà, perchè hoo mai vedùu.» - E lee, la Reginna, la ghe dis: - «Ben, va: ma torna subet, perchè s'el te ved el me fiœu, chi sa cossa el me dis.» - Allora lee, la Scindirœura, la va in la soa stanza, la mett su el vestíi pien de stell e la va de denter in sala. El fiœu del Re, el ved sta bella giovina; l'ha ciappada de ballà insemma. L'ha faa on gir; e pœu, lee, la ghe dis: - «Ch'el me lassa andà on moment, che torni subet.» - Invece l'è andada a casa a lavorà. El va a casa, el fiœu del Re, el ghe dis a la soa mamma: - «Se t'avesset de vedè, mamma, che bella giovina che l'è vegnùu là a la festa! la gh'haveva su on vestìi pien de stell ch'el lusiva per tutta la sala. L'ha fàa on gir, e pœu l'hoo veduda pu. La gh'aveva i occ che pareven tutt quej de la Scindirœura» - E lee, la seguitava a dì: - «Sont mi quella, sont mi quella.» - E lu, el dis: - «Cossa la dis quella cialla là?» - E lee, la tornava a dì: - «Sont mi quella, sont mi quella.» - El fiœu del Re, el dis: - «Diman, vœuri fà on'altra festa.» - Quand l'è stàa ch'eren adrèe a ballà, la Scindirœura, la ghe dis a la Reginna: - «Che la me lassa andà là, sura Reginna, a guardà denter del bus de la ciav, per vedè se gh'è là quella bella giovina.» - E la Reginna, la ghe dis: - «Te set on pòo tropp seccante! s'el te ved el me fiœu, chi sa cossa el dis.» - E lee, la ghe torna a dì: - «Voo là appenna on momentin e pœu torni subet.» - Allora la Reginna, la ghe dis: - «Ben, va.» - La Scindirœura, la va de sora in la soa stanza, l'ha tiràa via el bell'-e-brutt, la mett su el vestii cont i ragg del Sol, e la va denter in sala. El fiœu del Re l'ha ciappada subet per ballà. Lee, l'ha fàa on gir e pœu la ghe dis: - «Ch'el me lassa andà on momentin, che torni subet.» - Intant che la ballava la gh'ha tiràa giò l'anell del fiœu del Re; e la va a casa e la se mett a fa el so mestée. Va a casa el fiœu del Re, el ghe dis a la soa mamma: - «Se t'avesset de vedè, mamma! Gh'è vegnùu là ancamò quella bella giovina d'ier. La gh'aveva su on vestíi cont su i ragg del sol, che la lusiva per tutta la sala.» - La Scindirœura, la seguita: - «Sont mi quella, sont mi quella.» - E lu, el dis: - «La gh'aveva i occ, che paren tutt quej de la Scindirœura.» - E la torna ancora: - «Sont mi quella, sont mi quella.» - E lu, el dis adrèe a la soa mamma: - «Sent cosa, la dis quella cialla là.» - E lee, la torna ancamò: - «Sont mi quella, sont mi quella.» - El dì adrèe, el dà on'altra festa; e lee, la gh'è andada pu; e lu, de la passion, el s'è malàa. Gh'era pu nissun che podeva andà in stanza a portagh de mangià; e lee, la gh'è dis a la sura Reginna: - «Che la me lassa andà mì, a portagh el pantrìd.»42 - E la Reginna, la ghe dis: - «Cialla che te set! el vœur nanca che vaga i donzell; t'hà giost de andà ti!» - E lee, la ghe dis ancamò, la Scindirœura: - «La vedarà, sura Reginna, che de mì l'accettarà.» - Allora la Reginna, la dis: - «Va pur.» - Lee, l'è andada in stanza. Prima de andà in del Re, lee, l'è andada in stanza e l'ha miss su el vestíi cont su i ragg del sol. E l'è andada a portagh il pantrìd. La gh'ha miss denter l'anell; e lu, allora, a vede sta bella giovina, de la contentezza l'è guarìi e l'ha sposada. Dopo hin andaa a casa a trovà so pader che l'aveva lassada.
Gh'era on negoziant; el gh'aveva tre tosann: do eren brutt e vunna l'era bella. L'era la minor quella bella. E lor ghe voreven minga ben a sta sorella: e quand vegniva in cà quajchedun43, lor eren in casa a ricev e quella lì la trattaven come ona personna de servizi; e a l'inverno, lee, la stava semper in cusinna, in canton del fœugh a scaldass, perchè in sala i so sorell la voreven minga. Ven che el Re, el dà ona festa de ball. E lor, quij do sorell brutt, hin staa invidàa e hin andàa fœura de casa a fa tutt i provist, e tœu di vestii de seda, di robb de galanteria per andà a sta festa de cort. Ven quella sera che se vesten e van a ballà. Lee, sta povera tosa, la gh'aveva ona passion; e la va in giardin a piang; e la piangeva. Ghe va là ona donnetta: - «Cossa te gh'het, la mia tosa, che te set così malinconica? perchè te pianget?» - «Perchè i mè sorell hin andàa a la festa de ball a la cort del Re; e mi, han minga vorùu menamm.» - «Te see contenta a andagh anca ti?» - «Magara, podess andà!» - «Ben, tè: questa ch'è chì, l'è ona verghetta. Va de sora, va in la toa stanza, batt sta verghetta chì, e te vegnarà fœura quel che te fa de bisogn per andà a la cort. Quand te set sott a la porta, te battaret ancamò la verghetta, e te comparirà lì ona carrozza. Quand te set a la cort, ti te battaret la verghetta, e la carrozza, la scomparirà via.» - Difatti, lee, la va de sora, la batt la soa verghetta, e ghe ven fœura on magnifich vestìi, e tutt quel che ghe fava de bisogn e scarp e calzett e per la testa tutt. La se vestiss e la va. La batt la soa verghetta, e ghe ven la carrozza. Quand l'è entrada in sala de ball là, la ved i so sorell. Gh'è là el fiœu del Re; apenna che le ved, el dis: - «Oh che bella figura! che bella giovina! come l'è missa de bon gust!» - E le tœu su a ballà. Lee, la balla; lu, el ghe dis tanti tenerezz; e lee, apenna finíi, la va via. Lu, el fiœu del Re, el ved che la gh'è pu, tutt fœura de lu: - «Pover a mì, pover a mì! Se el saveva, ghe andava adrèe almen a mettela in carrozza.» - Lee, la va a cà, la se devestiss tutta e la va a dormì per non fass capì di personn de servizi in casa. A la mattina i so sorell van in cusinna, e lee, l'era là settada al camin. E discorreven de la festa che gh'era stàa; che l'è stada inscì bella; e che gh'è andàa là ona sciora, che l'era inscì ben missa, che no gh'era nissuna altra inscì ben missa de quej ch'hin andàa là; e che el fiœu del Re l'ha ballàa insemma; e che in d'on moment la gh'è scomparsa via e l'han veduda pu. - «Se t'avesset vedùu, Scindirin-Scindirœu! la gh'aveva duu occ che pareven tutt i tœu.» - «S'era mi quella!» - «Cossa t'hê ditt?» - «Hoo ditt de menamm ona quaj sera anca mì; minga andà domà vialter!» - «Cossa te vœut vegnì a fa ti, che te see minga bonna de ballà? Che vestíi te vœu mett su per vegnì a la cort?» - «I fee per vialter i vestíi, podíi famen vun anca per mì.» - Ven che el Re, el dà on'altra festa per el piasè de vedè ancora sta figuretta che gh'è andàa la prima sera. E lee, i so sorell tornen andà ancamò; e lee, quella sera torna a batt la soa verghetta ancamò. Ghe ven fœura on vestíi pusee bell ancamò, ghe ven fœura cambiament divers de mett in testa de robba finna e tutt, con di boccheritt44, di mazzettitt de fior. La va e la entra in sala come l'ha faa l'altra volta. El Re le ved, el ghe corr a la contra; e le invida subet a ballà con lu. Lee, la ven giò e la va a fa on gir in la sala e la ghe da on mazzettin de fior per una a i so sorell, e pœu la ven via. El fiœu del Re, el ghe corr adrèe; lee, la batt la soa verghetta e la carrozza l'è subet lì: la monta in carrozza e la corr a cà; la batt la soa verghetta, le scompar tutt coss, e la và a dormì. A la mattinna i so sorell tornen ancamò andà in cusinna e ghe disen de la festa che l'era inscì bella, che gh'è andàa sta sciora, e che l'era pusee ben vestida de la prima volta, e che l'è andada là, e la gh'ha daa on mazzett de fior per un a lor: - «Ma te disi, Scindirin-Scindirœu, che la gh'aveva duu occ che pareven propi i tœu!» - «S'era mi quella!» - «Cossa t'hê ditt?» - «Hoo ditt, che se adess el fiœu del Re, el dà on'altra festa, vuj propi che me menè anca mi insemma!» - «Oh te sèe matta? coss'avemm a menâ ti? coss'hêm de menatt ti? L'è minga on sit adattàa per ti!» - Difatti, el fiœu del Re, el torna a dà on'oltra festa ancamò. Lee, la fa l'istess con la soa verghetta e ghe ven fœura on vestíi, ma ona bellezza! insomma gh'era nissun che podeva avè on vestíi compagn. Ven che la va; e apenna che la entra in sala, el fiœu del Re l'è là. El balla insemma; e pœu', el ghe dis ch'el desiderava de parlagh, de digh in dove la stava, che lu, el voreva falla per soa sposa. Lee, la ghe dis, che la podeva minga digh in dove la stava e che l'era impossibil che lee l'avess avùu de deventà soa sposa. Lu allora, el tœu giò on anell e el ghe le dà: - «E mi tœujaròo nissun, fin che non se presentarà quella che gh'hoo dàa el me anell.» - E lee, la ghe dis che l'anell l'accetta, ma che l'era difficil che la podess deventà soa mièe. E via la va a casa. L'è andàda a cà, l'ha battùu la soa verghetta, gh'è scompars tutt, e pœu l'è andàda a dormì. A la mattinna va là i so sorell e ghe cunten: che gh'è stàa là ancora quella sciora inscì ben missa; e che el fiœu del Re l'è innamoràa; e ch'el gh'ha dàa on anell per soa memoria. - «Te disi, Scindirin-Scindirœu, che la gh'aveva duu occ che pareven propi tutt i tœu.» - «S'era mi quella!» - Ven, che de lì a on pòo de temp, i so sorell ghe disen a la Scindirin-Scindirœu, che el fiœu del Re l'era malàa per el dispiasè de podè minga avè cognossùu quella sciora, che andava a i so fest de ball. Lee, la Scindirin-Scindirœu, la va in giardin e l'era malinconica malinconica comè. Ghe compar quella donnetta, e la ghe dis: - «Cossa te gh'hêt? te sèe inscì malinconica?» - «Gh'hoo dispiasè, perchè el fiœu del Re, el s'è innamoràa de mi; e mi, l'è impossibel, ch'el me poda sposà.» - E lee, quella donnetta, la ghe dis: - «Te insegnaroo mi, come te devet fa. Ti, in casa toa, te tratten minga ben. Tira su quel pretest lì; e dì che te vœut andà a servì. E va a la cort, e va là e dimandegh se han de bisogn ona camerera, e cerca d'andagh in cà de la Reginna come donzella.» - Difatti, lee, inscì l'ha faa. La ghe dis a i so sorell: che lee, l'era stuffa de stà sott de lor; che la trattaven minga ben, la tegneven pegg che ona serva; e lee, l'ha pensàa de andà via a servì. Difatti, lee, la ghe parla a gent là de la cort per vedè se voreven tœulla per camerera. Lor el disen a la Reginna. La Reginna le ved, la ved sta tosa inscì bella, missa inscì ben, la ghe dis de fermass pur là che le ten per soa camerera. El fiœu del Re, l'era in lett malàa; ghe portaven de sora el pantrìd; e on dì, combinazion, lee, l'era de bass e la sent che aveven da portagh el pantrìd al fiœu del Re. E lee, la dis: - «Sa! vòo de sora, gh'el portaroo de sora mi; gh'el daroo al camerer che gh'è lì in anticamera.» - Intrettant che la va su di scal, la ciappa l'anell e le mett in la tazzinna del pantrìd, e la va in anticamera e la ghe dà la tazzinna al camerer. Lu, el fiœu del Re, el se mett adrèe per mangià el pantrìd, el trœuva denter el so anell, el ciama el camerer, el ghe dis: - «Dimm on poo, chi l'è che m'ha fàa sto pantrìd?» - «De bass el cœugh.» - «Chi l'è che te l'ha portàa su?» - «Ma mi sera lì in anticamera, è vegnùu la donzella de la Reginna e me l'ha portàa su lee.» - «Fa el piasè; ciamem subet la donzella de la mia mamma.» - El camerer el va; el ciama la donzella. La donzella, la voreva minga andà; ma el fiœu del Re, l'ha vorùu che la ghe andass. Quand l'è andada denter, el le guarda, el dis: - «Oh lee, l'è quella che vegneva a i mè fest de ball.» - La dis: - «Sì, l'è vera; ma mi saveva minga come fà a restituigh el so anell e hoo pensaa de metteghel dent in la tazzinna del pantrìd.» - E lu: - «Hoo ditt che quella che gh'aveva el me anell l'aveva de vess la mia sposa; e lee, la sarà la mia sposa.» - Lee, la voreva no, perchè la diseva che l'era ona povera tosa che l'era minga adattada a lu. Allora lu, el fa ciamà la soa mammin, el ghe dis che lu el voreva sposalla, quella lì o nissun. E la mader, la gh'ha ditt: - «Ben, sposala pur, se quella tosa lì, la dev vess quella che ha de rendet felice, sposala e mi son contenta; perchè l'è ona bona tosa, savia, educada.» - I so sorell, quand han sentii, che la Scindirin-Scindirœu, l'aveva de vess Reginna, ghe ven ona rabbia, che insomma!... Ma lee, tanto bonna, l'ha fàa in manera, dopo vess sposàda cont el fiœu del Re, de tirà là la soa famêja in compagnia.
[2] Presso il Basile, invece dell'uccello, abbiamo una palma, ed il carme è questo:
Co' la zappetella d'oro t'haggio zappato;
Co' lo secchietiello d'oro t'haggio adacquato;
Co' la tovaglia de seta t'haggio asciuttato:
[3] Polieno, Stratagemmi, lib. III. - «Poscia che Demetrio prese la città di Atene, Lacare vestitosi con certa veste da servo e da villano ed inchiostratasi la faccia, portando un cesto coperto di sterco, segretamente uscì dalla città per una postierla; e montato a cavallo, tenendo dei darici d'oro in mano, se ne fuggì. I cavalieri tarantini però, tennergli dietro a speron battuto senza punto arrestare il corso. In allora egli incominciò a spargere i darici d'oro per la via; i quali veggendo, i tarantini smontavano da cavallo e raccoglievano. Fatto questo più volte, egli tagliò loro il seguitarlo; e perciò Lacare cavalcando se ne venne in Beozia.» - Nè molto dissimile è l'altro stratagemma che nel libro IV Polieno narra di Mitridate. Cf. con la favola d'Ippomene ed Atalanta. (V. Guicciardini, Detti e fatti, il racconto intitolato: - «Quanto possa l'ajutorio divino nelle cose umane et per contra quanto nuoca la divina indegnatione.» - Vedi anche nel XXI dell'Orlando Innamorato del Berni, la storia della figliuola del Re Monodante).]
[4] Nell'Adone, Canto II, stanza LXIII:
L'altera dea, che del gran rege è moglie,
De l'usato s'ammanta abito regio:
Di doppie fila d'or son quelle spoglie
Tramate tutte e d'oro han doppio fregio;
Sparse di soli; e folgorando toglie
Ogni sole al sol vero il lume e 'l pregio.
Di stellante diadema il capo cinge,
E lo scettro gemmato in man si stringe.
A ciò che ad ogni senso dia diletto,
Il piè che 'l regge e 'l vaso ov'entra il vino
A guisa fatti son di ramaglietto.