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XII.
C'era una volta una Regina che era gravida e stava lì al terrazzino a prendere il fresco. Passa una poera donna e gli chiede la limosina. Dice: - «Andate via, vecchia porca!» - Ma che son maniere quelle? Risponde la poera vecchia: - «Lei, la facesse un porco!» - Giusto era gravida. La partorisce e fa un porco! Figuratevi che bisbiglìo nel palazzo che ci fu: non si poteva spiegare. La Regina non faceva che piangere ricordandosi della parola detta: - «Eh!» - diceva - «Iddio mi ha castigata!» - Il porco cresce e lo mettono nel giardino. Che volete farne nella casa? Ma sotto questo pelo di porco era un giovinotto, un omo, aveva sentimenti come noi. Lì vicino c'era marito e moglie che avevan tre ragazze. Il porco vede queste belle ragazze e se ne innamora: pur che ne abbia una! E non dava pace di sè; urla; mugolìo[2]; non voleva mangiare; si spiegava che accennava in là; s'avvidero che voleva una di quelle ragazze. Andiedero a dire ai suoi genitori che una delle figliole bisognava che la prendesse questo porco, che li facevan ricchi. La minore dice: - «Io non lo voglio.» - La seconda l'istesso. La maggiore dice: - «Lo prenderò io per far felici il babbo e la mamma; io non guardo, io mi accordo.» - Che volete? lì non si fa sposalizio; altro che la sera andava a letto con questo porco senza andare a fare le cerimonie: se era una bestia! Quando gli è in camera, il porco serra e gli viene un bellissimo giovinotto. Lei urla che la voleva il porco, non voleva quello: - «Ah no! no! io ho sposato il porco; voi non vi conosco.» - «Ah» - gli dice - «abbi da sapere, sono io il porco, che per la superbia di mia madre mi trovo in questo stato. Promettimi di non dir niente alla signora madre, altrimenti ti costa caro!» - Lei gli promette; ma dopo otto o dieci giorni chiede di parlare alla Regina. Dice: - «Ho una cosa da confidarvi, ma in secreto: mi raccomando che nessuno ci senta!» - «Venite pure» - dice la Regina - «nelle mie stanze.» - La ordina alla servitù che nessuno entri. - «Venga chissisia, la Regina non c'è.» - E dice alla nora: - «Dite pure, dite.» - Serra tutti gli scuri per paura che nessun la sentisse. - «Abbia da sapere, la sera il suo figlio, vedesse il bel giovinotto che egli è!» - «Ah!» - la fa la madre. - «Ma per amore di dio la prego a non palesarlo. Altrimenti, mi ha detto che la pagherò.» - «Ah!» - dice la madre - «La mia superbia è stata! e questo è il mio castigo.» - E vanno ognuna nel suo quartiere ed è finita: perchè lui, essendo fatato, sentì tutto. La sera va nella camera per andare dalla sposa e gli dice: - «Briccona, son queste le promesse?» - «Ah! ma io....» - dice. - «Chètati, insolente!» - Prende un ago calamitato[3] e l'ammazza. La more che non si distingue che è stata uccisa. Venghiamo alla mattina. La Regina non c'è, non s'alza, non chiama. I servitori giran la gruccia, vanno là e la vedon morta. Urli per il palazzo: - «Si vede che il porco l'ha soffocata!» - Credono che l'ha soffocata: una bestia, che volete! Più che mai la Regina madre gli rimane il rammarico, dicendo: - «Io sono stata causa di questo gran male, perchè se io non diceva quella parola, non aveva un figlio porco e non seguiva questo!» - Il porco comincia a mugliare, a raspare il muro, peggio di prima; a fare cenni che voleva un'altra di quelle: s'intendeva bene. La seconda: - «Va» - dice - «lo prenderò io!» - Che volete? facevano uno sborso di quattrini ai genitori! - «Almeno starete bene voi.» - E così la sera il porco, quando entra in camera, viene un bellissimo giovinotto, come per quell'altra. E dice, assolutamente impone silenzio che la non dica nulla alla signora madre. Se quell'altra la stiede dieci giorni, la sarà stata anche venti, questa, zitta. Ma poi un bel giorno la chiede un abboccamento alla Regina, come quell'altra; e quando l'è nella stanza, tutta serrata, la gli palesa che suo figlio diviene un bel giovane, come quell'altra donna. - «Pur troppo lo so, per mia disgrazia, che lui viene un bel giovane!» - «Ma la prego a non dir niente.» - «Eh state pure contenta[4] che io non parlo.» - Vanno ognuna nel suo quartiere. Quando è la sera, il porco entra in camera e fa l'istesso. - «Ah briccona!» - dice. - «Son queste le promesse, eh?» - Prende l'istess'ago, cos'era? e l'ammazza. La mattina, la servitù, eran l'undici, mezzogiorno: - «Ma che fa la Regina?» - Apron la camera e la trovan morta ancor lei. Vanno dalla Regina madre e dicono: - «Venga a vedere, Maestà, anche questa l'è morta!» - E il rimorso! potete credere! Il porco riprincipia a mugliare al muro per aver quell'altra, la terza sorella. Ma i suoi non gnene volevan dare, lo credo! Ma poi s'ebbe da accordare e viene sposa del porco; e portano anche i genitori nel palazzo, in disparte. La sera il Re diviene un bel giovinotto come nell'altre sere: - «Abbi da sapere che io sono un omo, vedi; ma per castigo della signora madre, il giorno sono un porco. Ho da ringraziarne la superbia della signora madre. Ti prego di non dir nulla alla signora madre.» - «E io ti prometto di non dir nulla.» - La sarà stata anche un mese senza dir nulla, ma poi la chiede di parlare alla Regina e gli racconta che il suo figlio diviene un bel giovine; come le altre, tal quale: - «Ma io la prego di non parlarne neppure all'aria.» - «Eh state pure contenta, io non lo dico.» - Eccoti la sera il porco entra in camera e viene un bellissimo giovane: - «Briccona, son queste le promesse, eh? Te, non ti ammazzo. Ma, prima di ritrovarmi, tu devi consumare sette mazze di ferro, sette vestiti di ferro, sette paja di scarpe di ferro ed empire sette fiaschettini di lacrime.» - E va via, sparisce: non c'è più porco, non c'è più nulla. La mattina, appena giorno, la sposa s'alza e va dalla Regina Madre, e gli racconta il caso. Potete credere il rimorso di questa donna! - «Guardate di che sono stata causa!» - Ordina tutta questa roba la Regina madre, e quando l'è fatta, la sposa la si veste di questa roba e si mette in viaggio; dice addio alla socera, la bacia: - «Addio! Addio!» - e si mette in viaggio. Cammina, cammina, con il baroccio, perchè l'altra roba l'aveva sovra il baroccio, sennò come si fa portarla! La trova una vecchina. - «Dove vai, poerina?» - «Oh!» - dice; la gli fa tutto il racconto. - «Tu non sai ch'egli è stato sposo il tuo sposo? Il tuo sposo gli ha preso moglie, lassù dove è andato. Tieni questa nocciòla. Quando sarai sulla piazza del Re, quando avrai ben camminato, non so in che posto, molto lontano, schiacciala. Verranno di gran galanterie, ma tanto belle. «La Regina» - dice - «se ne invaghirà; e ti domanderà quanto ne vuoi di queste belle cose. Tu devi dire: Una notte a dormire col suo sposo.» - Gli dà la nocciòla e va via, sparisce questa vecchia. - «Grazie! addio, addio!» - Cammina, cammina, cammina e la trova l'istessa vecchina, l'istessa[5] proprio: - «Poerina, dove vai?» - Gli fa tutto il racconto e questa vecchina gli dice: - «Sai! Tieni questa mandorla, fai lo stesso, stiacciala. Verranno di gran galanterie, ma tanto belle! La Regina se ne invaghirà; e ti domanderà quanto ne vuoi di queste belle cose. Tu non chieder quattrini: chiedi una notte a dormire con lo sposo.» - Quando l'è quasi per essere alla piazza gli si presenta un vecchino e gli dice l'istesso: - «Tieni» - dice - «questa noce. Vedi, tu ci hai pochino, vedi: l'è lì la piazza. Stiacciala questa noce e tu vedrai le galanterie che gli esce fori. La Regina se ne invaghirà e ti domanderà quanto ne vuoi di queste belle cose. Tu devi dire: Una notte a dormire col suo sposo.» - L'aveva consumato le sette paja di scarpe dì ferro, l'aveva consumato le sette mazze di ferro, l'aveva consumato i sette vestiti di ferro e l'aveva riempite tutte le fiaschettine di lagrime. Entra nella piazza e vede un palazzo: si mette a sedere in mezzo alla piazza e schiaccia la nocciòla. E viene le più belle galanterie, ma una cosa da non poter spiegare, ecco. - «Maestà» - dicono i servitori alla Regina - «Maestà, s'affacci; venga a vedere le gran galanterie che ci sono sulla piazza.» - «Dimandate quel che ne vole, che io le voglio comprare.» - Queste galanterie erano molte cose preziose, tutte pietre preziose; ci si accecava a guardarle. Gli domandano quanto ne vole: - «Una notte a dormire col suo sposo.» - I servitori si mettono a ridere: - «Una donna strana, vuol dormire con lo sposo della Regina, cah!» - La Regina: - «Bene! gli sia accordato! Prendete queste belle cose e stasera dite che alle dodici venga qua.» - La ordina al bottigliere che alloppî tutto tutto il vino; le bottiglie, tutto, sia alloppiato per il Re. Il Re, che non sapeva nulla, beve, un poco anche più del solito. Quando gli è un'ora[6], cade addormentato, lo portano a letto e dorme come un masso. Ecco la donna alle dodici entra nel palazzo e la portano in camera. Entra nel letto, e dice: - «Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumate sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro, e ho riempito sette fiaschetti di lacrime.» - Quello dormiva, lo stesso che dire a questo tavolino. Si fece giorno, la donna fu mandata via e fu finito. La mattina schiaccia la mandorla. Figuratevi: tutte figurine che si movevano e saltavano, di pietre preziose. - «Maestà, c'è l'istessa donnina d'ieri: ma se la vedesse! che belle galanterie: assai più belle sono!» - La Regina dice: - «Domandatele icchè ne vole.» - Gli domandano quel che la vole. - «La notte a dormire col suo sposo.» - Dice la Regina: - «Sì, sì, sì. Prendete e pure; e stasera fatela venire alla solit'ora.» - Eccoti, dà ordine al cantiniere, che faccia l'istesso del giorno avanti, che alloppî tutto il vino: bottiglie, tutto. Il Re va al pranzo e beve più di quell'altro giorno, ma come! Quando gli è la sera, ecco la donna, gua', entra nel letto e principia a dire: - «Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumato sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro e ho riempiti sette fiaschettini di lagrime.» - Ma qui, dichiamo, questa fosse la camera; e qui, dichiamo, ci fosse le guardie. Sentono un mugolìo, stanno attenti; ed imparano tutto il lamento come l'avemmaria. E la mattina, appena giorno, i servitori la mandorono via questa donna. E queste guardie, quando s'è levato il Re, gli raccontano tutto: - «La notte ci viene una donna da Lei e Le dice: Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumato sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro e ho riempiti sette fiaschettini di lacrime.» - Ah, il Re si ricorda della sposa; chè aveva dimenticata ogni cosa. Andato via da il palazzo della madre, si scordò di tutto. - «Non sa? Le dànno il vino alloppiato» - dice questa guardia. - «Bisogna che Lei non lo beva. Ci starò attento io.[7]» - La mattina, stiaccia la noce quella poera donna. Figuratevi! che galanterie! più belle dell'altro giorno. La noce gli era più grossa della nocciola e della mandorla e ne sortì più robba. La Regina dice: - «Domandatele icchè ne vole.» - Gli domandano quel che la vole e lei dice: - «Una notte a dormì' con lo sposo.» - «Prendete le ricchezze» - dice la Regina - «e ditegli che stasera venga all'istess'ora.» - Questa guardia che aveva fatto la spia al Re, dice al cantiniere: - «Pena la morte, se tu metti l'oppio nel vino del Re. Figura di metterlo, ma non lo mettere. Poi, sarai ricompensato. Invece mettilo a quello della Regina, l'oppio.» - Il giorno a pranzo, com'era solito, il Re beve, mangia. La Regina con quell'oppio s'addormenta; la mettono a letto; è finita. Eccoti Maestà che va alla camera, si spoglia e va a letto. Quando sono le dodici[8], eccoti la donnina. Lui figura di dormire; e lei principia a dire: - «Son Ginevra bella, che per ritrovarti ho consumato sette mazze di ferro, sette paja di scarpe di ferro, sette vestiti di ferro e riempiuti sette fiaschettini di lacrime.» - Lui per tre o quattro volte glielo lascia dire; allora figura di svegliarsi e l'abbraccia così, poerina! e la riconosce per isposa, e dice: - «Bisogna partì' subito! subito! far fagotto e via.» - Prendon tutte quelle belle robe che l'aveva schiacciate dalla nocciola, dalla mandorla e dalla noce, tutte quelle ricchezze, fanno fagotto, spogliano il palazzo, ecco! Prende la guardia che gli aveva fatta la spia con seco, prende il cantiniere e tutti via; e vanno a il palazzo della madre. Cheh! era quasi sempre a letto piangendo di dolore per questo figlio, gua'! Urli, strepiti di contentezza: - «Oh viva! viva!» - Tutta la servitù, dicendo: - «Ecco la nostra sposa! ecco il nostro padrone!» - perchè raccontano. La Regina che sente questi urli, va di là e vede la nora. Dice: - «Questo è il suo figlio, che io sposai che era un porco e adesso è un bel giovane.» - Va nelle braccia la madre del figlio, chiedendogli perdono di quel ch'ella era stata causa ch'egli aveva patito. Lui gli perdona e così se ne vivono in santa pace. Venghiamo alla Regina, quell'altra moglie, che si desta. Chiama, chiama, nessun risponde, non c'è nessuno. La va per le stanze: tutte vote; tutto portato via; ogni cosa, tutto sparito. La va allo scrigno a vedere in dove l'aveva messe tutte quelle belle cose, tutte quelle gioje: la non trova più nulla. Caccia un grand'urlo e dal dolore cade e more. E così è finita.
Stretta la foglia e larga la via,
Dite la vostra che ho detto la mia.
[1] Il Liebrecht annota: - «Vgl. Grimm45. K-M. N.° 108 Hans mein Igel; und meine Bem. Heid. Iahrb. M.DCCC.LXVIII. S. 308 zu Schneller N.° 21» - È lo stesso argomento della Favola I, Notte II dello Straparola: Galeotto, Re d'Anglia, ha un figliuolo nato porco, il quale tre volte si marita; e posta giù la pelle porcina de divenuto un bellissimo giovane, fu chiamato Re Porco. Gonzenbach (Op. cit.) XLII. Vom Re Porco, Pitré (Op. cit.) Lu Sirpenti e varianti ivi abbreviate. Cf. De Gubernatis. Novelline di Santo Stefano di Calcinaja: XIV. Sor Fiorante mago, ed anche in parte: XIII. La Cieca (da paragonarsi con la III favola della III notte dello Straparola). Vedi pure nel Malmantile Racquistato, Cantare IV, dalla stanza XXXII in poi. Tutte queste versioni hanno attinenza con l'antica fola di Psiche. Eccone una milanese:
Ona volta gh'era on scior e ona sciora, ch'eren marì e mièe: pregaven el Signor, ch'el ghe dass on fiœu. Infin, on dì, gh'è compars in casa on corbattin. On dì, sto corbattin, el comincia a fa tanto de muson47. Lor ghe dimanden cossa el gh'aveva. E lu, el voreva minga dighel. In fin, col seguità a dimandagh, el ghe dis, ch'el voreva tœu mièe. In la cort ghe stava on prestinèe48, ch'el gh'aveva tre bêj tosann. Sto scior, el ghe dis al prestinèe, se el voreva dagh ona tosa in sposa per el so corbattin. E lor ghe disen de sì. Come difatti, el l'ha sposada e han faa on gran disnà. Lu, quand l'è fenìi el disnà, el va denter in d'on tond e el seguita a sbatt i al; el ghe fava andà adoss tutt i gott de conza49 a la sposa. E la ghe dis: - Guarda, ciall50, che te m'hè smaggiàa51 tutt el vestìi.» - E lu, l'ha ditt nient. A la sera, el va a dormì con la sposa: l'ha lassada indormentà e l'ha seguitàa a beccalla fin che l'ha fada morì. Dopo lu, la mattina l'è levàa su; e l'è andàa via; e l'è restàa via on sett o vott dì. Dopo el ven a casa e el comincia ancamò a fa tant de muson. I so genitor ghe dimanden cossa el voreva; e lu, el ghe dis ancora, ch'el voreva tœu mièe. E lor gh'han dit ancamò a sto prestinee se el voreva dagh anmò ona tosa per sposa. E lu, el gh'ha ditt de sì. Dopo sposada, han faa ancamò on gran pranz, e lu, el corbattin, el va denter anmò in del tond, sbatt i all e gh'ha faa andà su tutt i gott in del vestìi. E lee, la sposa, la ghe dis: - «Sta quiett, ciall, che te me smagget tutt el vestìi.» - Allora, la sira, el corbattin, l'è andàa a dormì con la sposa, l'ha lassada indormentà e l'ha seguitàa a beccalla, che l'ha fàa morì anca quella. Dopo, lu, a la mattina, el leva su, el va via per on sett o vott dì, e dopo el ven a casa anmò, e el comincia a fà el muson, che el voreva tœu mièe anmò. Allora lor, so pader e soa mader, ghe disen al prestinèe: - «Ve demm ona borsa de danèe, e dènn la vostra tosa per sposa al corbattin.» - E lor, el prestinèe e la tosa, gh'han ditt de sì. Quand l'ha avuda sposada, han fàa on gran disnàa ancamò; e lu, l'è andàa denter ancamò in del tond a sbatt i al. E so pader, el gh'aveva ditt de digh nient. Come difatti a la sera hin andàa a dormì e el gh'ha fàa nient. L'è vegnùu carnevàa, el gh'ha ditt: - «Varda che mi, diman, passaròo via de la porta vestìi in maschera; e te faròo on basin. Varda ben a dighel a la mamma! perchè, se ti te ghel dirèt: del turlurù sont vegnùu e del turlurù tornaròo andà.» - Come di fatti l'è passàa: el gh'ha fàa on basin. La soa mamma l'ha cominciàa a dì: - «Dimm, chi l'è ch'è stàa che t'ha fàa on basin? Se ti te mel diset minga, gh'el diròo al to corbattin.» - Lee, infin, la ghe l'ha ditt, che l'è stàa el corbattin. L'è passàa on mes, l'è passàa dùu, el corbattin l'è andàa a casa pu. E lee, la s'è imaginada de la parola ch'el gh'aveva ditt. L'ha fàa fa tre para de scarp de fer, e la s'è missa in viagg. In tutt i paes che la passava, la dimandava cunt per andà al paes del Turlulù. Col seguità a viaggià in fin la seguitava a piang e l'ha trovàa ona porta: gh'era ona stria52 in mezz e ona fila de tosànn per part. E sta stria, la ghe dimanda: - «Dove l'è che la voria andà, o sposa?» - E lee, la ghe dis: - «vòo al paes del Turlulù.» - E la gh'ha cuntàa quel che l'è success. E la gh'ha dàa ona nizzoeula53 a la sposa, sta stria, e on pestonin54; e la gh'ha ditt quand che l'avaria impienìi d'acqua de occ (perchè la piangeva, sta sposa) la trovarà on'altra porta. Come di fatti, l'ha seguitàa a viaggià; e quand l'è stàa pien el pestonin, l'ha trovàa la porta, che gh'era ona stria in mezz e ona fila de tosânn per part. E la ghe dis: - «Dove vorii andà, sposa? Dove vì, sposa?» - La ghe dis: - «Vòo al paes del Turlulù.» - E sta stria, la ghe da ona castegna e la gh'ha ditt: - «Tegnìi de cunt sta castegna, che la sarà l'occasion de fav andà insemma al voster corbattin.» - E la gh'ha dàa on alter pestonin; e la gh'ha ditt, quand l'avarìa impienìi d'acqua de occ, la trovaria on'altra porta. Come di fatti, l'ha seguitàa a viaggià. Quand l'è stàa pien el pestonin, l'ha trovàa on'altra tra porta: gh'era ona stria in mezz cont ona fila de tosânn per part. E la ghe dis: - «Dove vorìi andà, sposa?» - La ghe dis: - «Vòo al paes del Turlulù.» - E lee, sta stria, la gh'ha dàa on nôs; e la gh'ha ditt de tegnill de cunt, che sarà l'occasion per andà insemma al corbattin. E la sposa, la ghe dimanda a la stria, se gh'era ancamò on pezz a rivà al paes del Turlulù. E la stria, la gh'ha ditt, che se ved giamò el campanin; e la gh'ha insegnàa la manera come l'aveva de fa per andà a la cort del Re, che l'era po[eu] el so corbattin. Come di fatti, l'è andada a la porta del Re a dimandagh se voreven ciappalla pe fa la donzella55. E lor, gh'han ditt che ghen' bisognava no. E lee, l'ha pregàa almen de ciappalla per curà i pûj56: e lor l'han ciappada. On dì l'era in giardin e gh'è vegnùu in ment de romp la nizzœula: e gh'è saltàa fœura ona bellissima rocca d'ora57, che la lusiva tant, che tutt i pûj s'hin miss a scappà. La Reginna, la ghe dis a la donzella: - «Guarda on poo quella cialla cosa l'hà fàa, che la fà spaventà tutt i pûj.» - La donzella, la guarda; e la ghe dis: - «Se l'avess de vedè, sura Reginna, che bellezza d'ona rocca d'ora che la gh'ha la pollirœula! L'è tant bella, che la spaventa tutt i pûj!» - E la Reginna, la ghe dis: - «Dimandela de sora.» - E la Reginna, la ghe dis a la pollirœula: - «Cosse l'è che te vœuret a dammela a mì?» - E lee, la ghe dis: - «Nient: solament ona nott a dormì insemma al so marì.» - E la Reginna, la ghe dis: - «Ben, te dormiret.» - Lee, a la sira, la gh'ha dàa l'indormentinna58, che l'ha seguitàa a dormì tutta la nott, el marì. Quand l'è stàa indormentìi el corbattin, la pollirœula la va in lett e la seguita tutta nott: - «O corbatto, o corbattin, l'è trìi ann che viaggio per mare e per terra, ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà, te.» - E lu, el s'è mai dessedàa. A la mattina, a bon'ora, ghe va là la Reginna e la ghe dis: - «Fuora, fuora, pellegrina, che l'ha da entrar la bella Regina.» - E lee, la s'è levada su; e l'è andada de bass. Quand l'è stàa el mezz dì, la romp la castegna e salta fœura ona pu bell'aspa59 d'ora; la lusiva tant, che tutt i pûj s'hin miss a scappà. Allora la Reginna la ghe dis a la donzella: - «Va on pòo de bass; cosse l'ha fàa quella cialla?» - Allora la donzella la va de bass, la guarda e la ghe dis: - «Se l'avess de vedè, sura Reginna, che bellezza d'on aspa che la gh'ha la pollirœula! La lussis tant che tutt i pûj se spaventen.» - Allora la Reginna, la ghe dis: - «Dimandela de sora.» - E la Reginna, la ghe dis a la pollirœula: - «Cosse l'è che te vœuret a dammela a mì?» - E lee, la ghe dis: - «Vœuri dorm on'altra nott insemma al so marì.» - Allora la ghe dis: - «Ben, te dormiret.» - La gh'ha dàa ancamò l'indormentinna al marì, che l'ha dormìi tutta la nott. Quand l'è stàa indorment, la pollirœula la va in lett, e la seguita tutta nott: - «O corbatto, corbattin! l'è trìi ann che viaggio, per mare e per terra: ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà' te.» - A la mattinna a bon'ora, la va in stanza la Reginna: - «Fuora, fuora pellegrina, chè ha da entrare la bella Regina60.» - Allora la pollirœula, la va de bass; e la va ancamò in giardin cont i pûj. Quand l'è stàa mezz dì, la romp el nos. Allora ghe salta fœura ona bellissima carrozzetta d'ora, che la correva attorna per el giardin de per lee61. Allora tutt'i pûj s'hin miss a scappà. La Reginna, la ghe dis ancamò a la donzella: - «Va on pòo de bass, guarda cossa la fa la pollirœula.» - E la donzella la va de bass, la guarda e la ghe dis: - «Se l'avess de vedè, sura Reginna, che bellezza d'ona carrozzetta che la corr de per lee per el giardin! e tutt i puj scappen.» - Allora la Reginna, la ghe dis: - Dimandela de sora.» - E la ghe dis a la pollirœula: - «Cosse l'è che te vœuret a dammela a mi?» - E lee, la dis; - «Nient. Vœuri dormì on'altra volta insemma al so corbattin.» - La Reginna, la ghe dis: - «Che cialla che te set! L'è minga mêj che te ciappet di danèe? Ten dòo fin che ten vœut.» - E lee, la pollirœula, la ghe dis: - «Vœuri minga on centesim: vœuri dormì on'altra volta insemma al so corbattin.» - El Re, el capiva ch'el stava minga tant ben a bev quella robba là; e lu, inscambi de bevela, l'ha trada via. La Reginna le saveva no. Quand l'è stà indorment, la pollirœula la va in lett e la comincia: - «O corbatt, o corbattin, l'è trìi ann che viaggio per mare e per terra; ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà te.» - Lu, el comincia a fa andà la testa. Lee, la torna on'altra volta a dì l'istess: - «O corbatt, o corbattin, l'è trìi ann che viaggio per mare e per terra; ho stracciato tre paja di scarpe di ferro, per venirti a trovà' te.» - E lu, el se disseda. Lee, la torna a dì on'altra volta; e lu, el dis: - «Ma chi te set?» - E lee, la ghe dis: - «Sont quella tal, che te m'avevet sposàa e pœu te m'hê abandonada.» - -Allora lu, el ghe dis: - «Come l'è, che t'hê fàa a vegnì chi?» - Lee, la gh'ha cuntàa tutt come l'è stàa. E lu, el ghe dis: - «Ben, mi faròo finta de dormì, quand che ven la Reginna; e ti leva su. Pœu, la pensaròo mi, bella.» - Lee, la mattina a bon'ora, la va la Reginna in stanza e la ghe dis: - «Fuora, fuora pellegrina, chè ha da entrare la bella Regina.» - Lee, l'è andada in lett insemma a lu, la Reginna. Dopo lu, el se disseda, el dis: - «Adess, mi levi su, e ti sta pur chì a dormì.» - E lee, la ghe dis; - «Sì; stòo chi on pòo tard, perchè me senti minga ben.» - L'ha lassada indormentà; el gh'ha dàa el fœugh al lett e l'ha brusada in lett. Dopo l'è restada l'altra per soa sposa.
[2] Veramente la voce propria sarebbe grugnito, chè il porco grugnisce, ed il mugolare è del bue: ma le voci degli animali spesso si scambiano. Altre parole adopera Gentile Sermini nella novella de' trogli per le voci de' porci (ma veramente lì si tratta di porci selvatici, ossia cinghiali, che propriamente rugghiarebbero o ruggirebbero): - «Raddoppiava la stizza, onde assai più tartagliavan di prima; per modo che non fa mai zuffa di cani, nè le migliara dell'adunate scotte sul tetto di Camporeggi ove gridando fanno consiglio, nè 'l gracidare dello infinito numero delle ranocchie nel pantano di Grosseto, nè in quel piano le sveglianti cicale, nè i ringhianti porci del Tombolo, ringillando assaltati da lupi, nè di Val di Sora le passere, nè tutti gli stornelli del Paglietto di Massa, nè tutti questi nominati che facessero tanto schiamazzo; ed avendoli insieme raunati in un piano, se a un tratto ognun cantasse suo verso, non v'è dubbio che assai meglio si sarebbono intesi che quei quattro trogli.» -
[3] Calamitato poi perchè? Che sì che sì che la novellaja derivava la parola da calamità, quasi equivalesse a calamitoso, anzichè da calamita, ripetendo inconsciamente il bisticcio che fa il cav. Marino (Adone, IV. 282): D'ogni calamità sia calamita. Bisticcio di cui lo Stigliani pretendeva alla paternità, volendolo tolto dalle sue Rime:
Così in un tempo istesso ella si fa,
Ma Girolamo Aleandro diceva del verso del Marini: - «Quanto questo leggiadro detto sia differente da quel sciapito de' duo versi tronchi dello Stigliani, ciascun sel vede; perchè altro è il dire, che una donna allettando e tormentando l'amante gli si faccia calamita e calamità, altro, che alcuno tirandosi sopra tutti gl'infortunî si chiami calamita d'ogni calamità.»
[4] Contenta per tranquilla; come i tedeschi adoperano il loro «zufrieden.» -
[5] Anche qui l'istessa sta per una somigliantissima, una tal' e quale. Non era la vecchia medesima, no, ma la simillima della prima vecchina.
[6] Un'ora di notte, un'ora dopo le ventiquattro, alla Italiana antica.
[7] Questo particolare delle tre nottate vendute a carissimo prezzo e frodate con l'alloppiamento, si ritrova con qualche diversità nella Novella I della Giornata IV del Pecorone. - «Giannotto, morto il padre, va a Vinegia, ed è accolto come figliuolo da Messer Ansaldo, ricco mercante. Vago di vedere il mondo, monta sopra di una nave ed entra nel porto di Belmonte. Quel che gli avvenne con una vedova, signora di esso, la quale prometteva di sposar colui che giacendosi con lei n'avesse preso piacere.» - Da questa novella del Pecorone il Crollalanza (così italianamente avrebbe da chiamarsi lo Shakespeare) tolse in parte la favola del Mercadante di Vinegia. Vedi: Madonna Lionessa, cantare inedito del secolo XIV, giuntavi una novella del Pecorone (Bologna, presso Gaetano Romagnoli, 1866).]
[8] Le dodici, cioè mezzanotte. E qui la Novellaja, che pur dianzi avea contate le ore alla italiana, le conta alla francese. Perchè già i due modi di contare sono in uso, e quando si adopera l'uno e quando l'altro. E mi pare di avere osservato, come per quel bisogno naturale che ha l'uomo di distinguere, per quello istinto che lo spinge a ricercar la chiarezza, acciò possa capirsi quando si parla all'italiana e quando alla francese, sia prevalso l'uso di aggiungere al numero la parola ore, quando si conta all'italiana; e di adoperare il numero assolutamente, quando si conta alla francese. Un'ora, due ore, tre ore, dodici ore, s'intende un'ora dopo le ventiquattro, due, tre, dodici ore dopo le ventiquattro, all'italiana. L'una, o il tocco, le due, le tre (antimeridiane o pomeridiane) significa una, due, tre ore, dopo mezzogiorno o mezzanotte, alla francese; le dodici, mezzogiorno o mezzanotte. - Voglio anche notar qui che il toscano divide l'ora in quarti e metà; ma non dice mai un terzo d'ora per venti minuti; com'è bell'uso meridionale.]
A la di crudeltà mai sempre piena
Magara Circe, come a sua gradita
Et ai disegni suoi fida consorte).
femmina fatturaja (come dice il Cieco d'Adria nell'Alteria, A. I, Sc. IV.
Eugenia. Che son io incantatrice o qualche femina fatturaja, che con parola pajavi ch'io possa liberarlo?
Volpino. Ben vi è lecito il farlo.
Volpino. La si fa-da-Gonzaga, la vacca sozza.....)
Ma perchè set contadinna