Vittorio Imbriani
La novellaja fiorentina
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XXI. LA MAESTRA

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XXI.

 

LA MAESTRA.[1]

 

C'era una volta marito e moglie che avevan due bambine. Ma eran figliole d'un'altra moglie che quest'omo aveva avuta prima e che era morta. Le mandavano a scola: sapete bene, i ragazzi! Suo padre andava a accompagnarle e a riprenderle queste bambine. La maestra gli piaceva quest'omo, il padre delle bambine, di molto, ma di molto; ne era innamorata proprio. Figuratevi le carezze e il bene, che la voleva a queste bambine. Le bambine: - «Sai che si pagherebbe, perchè fosse la nostra mamma Lei! La ci vuol tanto bene!» - «Eh» - dice - «bambine mie, che volete? L'avete la mamma, io non posso essere la vostra mamma.» - Tutti i giorni le dicevan così: - «Che si pagherebbe, che la fosse la nostra mamma!» - Lei la dice un giorno: - «Gua', se volete che io fossi[2] la vostra mamma, il rimedio ci sarebbe. Quando la mamma vi la merenda la mattina, che la la mette in una cassina, buttate lo sportello sopra; la riman morta. E così io sposerò vostro padre!» - Disegnò bene! Eccoti una mattina le bambine, quando la madre gli la merenda, le gli buttan sopra lo sportello, e la riman morta; le rimane il ferro dello sportello confitto nel capo. Scappan dalla maestra: - «Sora Maestra, l'è bell'e fatto! l'è bell'e morta la nostra madrigna!» - Le sapevan di molto la birbonata le piccine. Torna il marito, va di e trova questa povera donna morta, gua'. Ahn, che ti fa? corre subito dalla sua maestra, dalle bambine: - «Oh cosa gli è questo? Si vede proprio, poera donna, si chinava nella cassa, gli è cascato addosso lo sportello e gli è rimasta morta!» - Le bambine si mettono a piangere; la maestra l'istesso. - «Ah! poerina, che disgrazia!» - Figuaravano. Quest'omo le porta a casa le bambine, fa sotterrare la moglie. Che volete! era morta! Piangi ch'io piango: quest'omo piangeva davvero perchè la gli dispiacque. La Maestra dice alle ragazze: - «Sapete?» - dice, - «vostro padre, quando vo' vedete che piange, vo' gli avete a dire: La non pianga, via, signor padre! non c'è rimedio. Perchè la non isposa la signora maestra?» - Eccoti, quand'egli è in casa, piangeva quest'omo sempre e rammentava la sua moglie: - «Babbo! la non pianga! non c'è rimedio! Perchè la non piglia la signora Maestra che la ci vol tanto bene?» - «Bisogna vedere se la signora Maestra la mi vorrà. Io ho due figliole, vojaltre, sapete; non è facile.» - «E» - dicono - «gli si dirà noi; gli si dirà noi alla signora Maestra.» - Eccoti la mattina le vanno a scola. - «Così, cosa disse?» - «Chi sa se la signora Maestra la vorrà prender me? E noi gli si disse: Si dirà noi alla Signora Maestra; si sentirà quel che la dice.» - Dice la Maestra: - «Quando stasera egli vi domanda, voi gli avete da dire: Se gli è contento lui, io son contenta.» - Eccoti la sera ritornano: - «Cosa gli ha detto la Signora Maestra?» - Dicono: - «Ha detto: se gli è contento Lei, lei è contenta.» - «Bene» - dice - «vol dire che domani io verrò e si discorrerà i nostri affari.» - Eccoti la mattina va e si principia a discorrere: - «Io son contento.» - «Io son contenta.» - Facendo il discorso corto, in poco tempo furono sposi. Dopo che furono stati sposi, dopo sette o otto giorni, la principiò a strapazzare queste bambine; la gli tirava, la non le poteva soffrire. Le bambine, quando tornava suo padre: - «Babbo» - dicevano - «quanto la ci strapazza, la signora Maestra. Quanto ci tira! La ci voleva tanto bene!» - «Eh!» - dice il padre - «voi sarete cattive, però....» - Un giorno torna a desinare. La gli dice lei: - «Assolutamente, o fori le bambine, o vado fori io. Io non ce le voglio.» - «Ma come!» - dice. - «Io devo mandar via le bambine? Dove voi tu, che io porti le mie bambine?» - «Ah tant'è! Io voglio così[3].» - Dunque, un giorno, il padre gli dice: - «Oh bambine, oggi, quando si sarà mangiato, s'ha andare a fare una passeggiata.» - La maggiorina la si veste; e, nella tasca, gli viene una idea, la si mette tutta crusca. La fa un bucolino alla tasca e ci mette la crusca. La perdeva; a camminare andava via. Eccoti, la moglie, la gli dice, a quest'omo: - «Portatele fori; quando siete fori, a un posto, gli avete a dire d'andare ad orinare e lasciarle.» - Così quest'omo, il giorno, va via con le sue bambine, tutto dolente, pover'omo, con un dispiacere da non credersi. Cammina, cammina, cammina e gli fa fare... chi sa le miglia? Non si sa, di molte. E poi gli dice, che aveva voglia di orinare[4]: - «Aspettatemi qui» - gli dice; e va via. Lui va a casa; e le bambine aspetta aspetta, si mettono a piangere; non avevan più il suo babbo e non sapevan dove le avevan da venire. Quella maggiorina dice alla sorella: - «Stai zitta! Guarda, guarda si anderà dietro alla crusca, ch'io ho presa; così si troverà la strada.» - Eccoti, dietro dietro alla crusca; e arrivano all'uscio di casa e picchiano. Picchiano. Picchiano, s'affaccia la maestra: - «Ah!» - dice, - «son le bambine! Ah quanto tu sei scellerato!» - Le salgon su e le dicano: - «Babbo, perchè non L'è venuto più a pigliarci? perchè La ci ha lasciate?» - «Ho trovato un mio amico; e così mi sono scordato di voi.» - La moglie insisteva: - «Non avete inteso, che non ce le voglio? O via io, o via loro!» - «Sapete!» - dice suo padre un giorno. - «Oggi v'avete a vestire e si fa una bella passeggiata.» - «Sì! e poi ci lascia!...» - «Eh! non c'è pericolo; non c'è pericolo! Non vi lascio; non vi lascio! Non avete paura!» - Le bambine, le si vestono; ma non si mette crusca quella maggiorina; la non se ne ricorda, o non ce ne avea da essere in casa. Cammina, cammina, il padre le fece camminare centomila volte più della prima volta. - «Sapete» - dice - «bambine; io ho una gran voglia di orinare.» - «Ecco, già, e poi La ci lascia.» - «Non vi lascio, no; quand'io vi dico!...» - E va via suo padre: le bambine lo aspettano ancora. E si fece notte scura. Piangendo, non sapevano dove andare. Cammina, cammina; le vedono un lumicino lontano, ma lontano! Le van sempre appresso a questa luce, loro, gua'! Si avvicinano a questo lume e veggono una porta e picchiano. L'era la casa dell'Orco. Eccoti l'Orchessa (non c'era l'Orco) la tira la corda e vede queste due bambine. - «Oh poerine!» - dice. Eh! le fanno tutto il racconto. - «Il babbo ci ha lasciate» - e le fanno tutto il racconto. - «Poerine» - dice - «v'avete combinato male, perchè l'Orco vi mangia, sapete? appena, che[5] torna.» - La gli da mangiare, questa donna, qualcosa, perchè le si accomodino un po' lo stomaco; poerine! le avevan fatto tutte quelle miglia, senza mangiare; e le mette sotto un orcio, dopo che le hanno mangiato. Eccoti l'Orco, che torna a casa. - «Mucci, mucci, che[6] sito di cristianucci; o ce n'è o ce n'è stati, o ce n'è degli impiattati.» - «Eh, chetatevi!» - dice l'Orchessa - «Venite a cena, che si vada a letto! Sempre delle buffonate!» - Eccoti l'Orco mangia e va a letto. E la mattina va via, perchè lui andava via presto. Dice l'Orchessa a queste ragazze: - «Poerine» - dice - «io vi do da mangiare; ma salve non vi fo, perchè, se torna, vi mangia. Non vi sarebbe altro vi mettessi su quel tetto, perchè su codesto tetto lui non ci va.» - L'Orco non ci poteva andare. Te le fa andare e mettere sur un tetto. Eccoti l'Orco, che torna; si volta in su: - «Ah briccone, or'ora voi siete mie! Lo diceva, che ci erano i cristianucci!» - Dunque va a casa e rimprovera la moglie. Dice: - «Che so io di bambini? Che conosco io le case degli altri? In casa mia non v'erano» - dice la moglie. Eccoti l'Orco va e picchia a tutte le case, perchè gli aprissero; voleva andare a prendere le figliole. Nessuno gli rispondeva: eh! che eran minchioni, che volevano aprire all'Orco? Lui va a casa e prende tutti i fiaschi, fiaschi voti[7]; e principia a fare una scala, avete inteso? con questi fiaschi e diceva: - «Ora le chiappo!» - Quando gli ha fatto tutta questa scala, si mette a salire. Figuratevi co' fiaschi questa scala! Quando gli è neppure a metà, gli vien di sotto e riman morto. Allora l'Orchessa, la va a prendere le bambine e la le tiene per sue figliole proprio, veramente; e ricche le erano. Quando le furono grandi, lei le maritò e stiedero sempre bene e sempre in pace con questa donna. Morto che fu l'Orco, ci ebbero la sorte; e del padre non se ne ragiona più.

 

Stretta la foglia e larga la via;

Dite la vostra, chè ho detto la mia.

 

 

NOTE

 

[1] Per lo più, nelle varianti di questa fiaba, il figliuolo che i genitori vogliono far disperdere è maschio, come nel famoso Petit-Poucet del Perrault. Una variante, che ho udita narrare in Toscana, ma che non potetti sventuratamente stenografare, s'intitola Giovannino piccolo e ricco. Giovannino, sperduto due volte dal padre, ritrova la casa, perchè aveva seminato prima sassolini e poi crusca. Ma la terza, semina panico e gli uccellini se lo beccano. Una fata il mette sur un poggio e gli un flauto, che, quando lo si sona, quantunque Giovannino desideri, accade. Giovannino pacchia e pecchia; e fa ballare e capitombolare i genitori, che per riprenderlo vogliono ascendere il poggio. La madre, scorticata e ferita, ricorre al giudice; e Giovannino, sonando il flauto, desidera, ch'ella strombetti alla Barbariccia, semprechè le avvien di nominarlo. Il giudice offeso di que' suoni, la caccia dall'udienza. Ella, per chiudere il varco ai flati, ottura il sedere con la conocchia e torna al tribunale; ma, nominando Giovannino, il vento estrude la rocca con tanta violenza, che va a ferire il giudice nella gamba. (Confronta con la Novella CXLV di Franco Sacchetti: - «Facendosi cavaliere messer Lando da Gobbio in Firenze per essere podestà, messer Dolcibene, schernisce la sua miseria; e poi nella sua corte essendo mossa questione a messer Dolcibene, con nuova astuzia e con le peta vince la questione).» - La prima parte della nostra Maestra è identica al principio della Gatta Cenerentola del Basile (Pentamerone. Giornata I. Trattenimento VI.) - «Zezolla, 'mmezzata da la Majestra ad accidere la Matreja; e credenno, co' farele avere lo patre pe' marito, d'essere tenuta cara; è posta a la cucina. Ma pe' bertute de le Fate, dapò varie fortune, sse guadagna 'no Re pe' marito.» - Fino all'arrivo alla casa dell'Orchessa si riscontra perfettamente con la seconda fiaba della Gonzenbach (Op. cit.) Maria, die böse Stiefmutter und die sieben Räuber (salvo che nella versione della Gonzenbach la madre è morta naturalmente). Il matricidio, consigliato dalla Maestra per isposar lei il futuro vedovo ed eseguito col coperchio della cassa e la ingratitudine naturalissima della maestra, divenuta matrigna, si ritrova appo la Gonzenbach nel conto: Von Giovannino und Caterina. - La madrigna che odia i figliuoli del primo letto e li vuole sperduti si ritrova in Nennillo e Nennella, trattenimento83 VIII della V Giornata del Pentamerone: - «Iannuccio ha duje figlie de la primma mogliere. Sse 'nzora la seconna vota e songo tanto odiati da la matrea, che le porta a 'no vosco; dove sperduto l'uno da l'autro, Nennillo deventa caro cortisciano de 'no Principe; e Nennella, jettannose a maro è gliottuta da 'no pesce fatato e jettata sopra 'no scuoglio, è da lo fratiello reconosciuta e da lo Principe maritata ricca ricca.» - Ecco una versione milanese del racconto.

 

 

L'ESEMPI DI TRE TOSANN.

 

Ona volta gh'era marì e mièe: gh'aveven tre tosânn; ma la mader l'era madregna, come disem nun. Ona sera, (l'era in lett) la ghe dis al marì: - «Pensa ben a menà via quij tosânn, che mi voeuri minga vedej.» - E lu, el ghe dis: - «Diman i menaroo in quaj sit per faj perd.» - La tosa minor l'ha sentii; e l'ha faa finta de nient: l'ha preparaa i saccocc pien de farinna, e, quand l'è staa, che han finii de disnà, so pader, el ghe dis: - «Andemm, tosânn, vegnì adrèe mi, ch'emm de andà in d'on bel sit.» - E i ha menaa in d'on sit distant. La tosa minor la stava de drèe e ogni tocchell la metteva giò ona brancada de farinna. Quand l'è stàa nott s'hin ridott in d'on bosch, sicchè so pader el ghe dis: - «Buttemmès giò chì, in de sto cassinott, finchè el ven » - E lu, i ha lassàa indormentà e poeu lu l'è vengnùu via. E i tosânn hin restàa . Dopo de a on pòo s'hin dessedàa e s'hin miss a piang, perchè han trovaa pu so pader. E la tosa minor la ghe dis: - «Lassèe fa de mi che soo la strâda per andà a casa.» - Come di fatti hin andàa a . De a on pòo de , la comincia ancamò la soa mièe; la ghe dis al marì: - «Pensèe ben a menà via ancamò quij tosânn, che voeuri pu vedej.» - Allora i ha menàa in d'on alter sit. E la tosa minor l'ha sentìi, l'ha impienìi i saccocc de sal e tutt i tocch la metteva giò ona grana. Dopo ghpassàa i e ghe l'han mangiàa tutt. Quand l'è stàa nott, i ha menaa in d'on alter bosch, i ha lassaa indormentà, poeu lu l'è andàa a casa e i tosânn hin restàa . Dopo s'hin dessedàa e han trovaa pu ancamò so pader. Allora la tosa minor la dis: - «Vegnì adrèe de mi, che sòo la strâda a andà a casa.» - La va innanz on gran tocch e poeu han pers la strada e han seguitàa a viaggià tutt el . In fin l'era quasi nott e saveven pu dove andà. Han vist on ciar distant in d'ona cassinna e lor hin andàa a cercà alogg. E gh'era ona donna; la ghe dis: - «Ve loggeria volentera; ma gh'hoo el marì che l'è on mago: se el ven a , el ve mazza.» - Allora sti tosânn gh'han ditt: - «Se scondem sott a quella motta de brugh : inscì en ne troverà no.» - Come di fatti han faa inscì. E lee la ghe dis: - «Sentìi, tosânn; farem ona robba. Diman mattina hoo de el pan e a vialter ve diròo: Vegnìi chi a juttà a mett denter el pan in del forno. Lu el ve dirà de andà a boffà in del foeugh, e vialter disìgh che si minga bonn, ch'el v'insegna lu.» - Come di fatti lu el ghe dis: - «Tosânn, vegnìi chì, a boffà in del foeugh.» - E lor ghe disen: - «Semm minga bonn.» - E el mago el ghe dis: - «Vegnìi chì, che v'insegnaroo .» - E el se mett adrèe a boffà. Allora lôr gh'han ciappàa ona gamba per unna e l'han casciàa denter in del forno. Dopo han seràa su; e l'è mort denter. E quella donna i ha tignùu come i so tosânn, e staven benissem. On ghe va on poverett a cercà la caritàa: e l'era so pader de sti tosânn. E sti tosânn gh'han ditt: - «Se rigordèe quand n'avìi menàa in del bosch per fann perd? El Signor, nun el n'ha benedìi e vu el v'ha castigaa.» - In quel menter gh'è s'cioppaà ona venna del coeur e l'è mort subet.

 

[2] Sgrammaticatura: che io sia. Benedetti soggiuntivi! Un ragazzo, che riprovammo tre anni fa negli esami di licenza liceale, si prese l'incomodo di stamparmi contro un libello, nel quale, fra le altre amenità, s'incontravano queste frasi: - «L'esaminatore Imbriani pretende, che la scelta fosse del professore, non badando, che in tutte le altre sedi liceali avvenisse il contrario....» - «Ciò l'Imbriani sceglie a preferenza, affinchè avesse un addentellato....» - Ed il poverino, senz'accorgersene, dimostrava così la giustizia della sua condanna.]

 

[3] Traduzione pretta del Virgiliano:

 

Sic volo, sic iubeo; sit pro ratione voluntas.

 

[4] Più d'un lettore aggrinzerà il naso a questa parola, dimenticando che naturalia non sunt turpia. Ma i nostri maggiori non erano tanto schivi, quanto siamo noi, più forse per cresciuta ipocrisia, che per migliorata costumatezza. Dicevano le cose loro semplicemente, ingenuamente, senza malizia. Ne' Miracoli d'Amore, favola pastorale di Vincenzo Iacobilli (Roma M.DC.I), per esempio, Ranocchia villano è soprappreso da doloretti viscerali:

 

Ranocchia.

Che dïavol sarà? fan gran fracassoì

Le budella nel ventre. Oh gran dolore!ì

Quello caldajo di ricotta calda,ì

Che poco fa mangiai, n'è la cagione.ì

Ohimè, che sarà questo? par, che tengaì

Cinquecento folletti entro la pancia.ì

Meglio sarà, che a scaricare il corpoì

Vada dietro a questi arbori, che forseì

Si partirà la doglia.

Corimbo.

Io cerco il mio padron per dargli nuovaì

Di duo agnellini, che son nati or'ora.

Ranocchia.

Dïavol fa, che m'escan le budella.

Corimbo.

Qualche rozzo villan dev'esser quello.ì

Gli vo fare una burla. Vo gridareì

Al lupo. Al lupo! Al lupo! Vien pel bosco!ì

Pastor fuggite e salvate la greggia.ì

Fuggi, fuggi villan, s'esser non vuoiì

Dal lupo ucciso.

Ranocchia.

Cancaro! m'è forzaì

Con le brache calate fuggir via:ì

Sia quel, ch'esser si vuol, purchè ne scampi.

 

C'è della goffaggine; nol nego. Ma il riso, suscitato da questo e simili episodi, mi pare aver dovuto esser più salubre, più morale ed esteticamente superiore a quello, che destano certi moderni Acquazzoni in montagna, certe Missioni di donna, certe Nonne scellerate eccetera, eccetera.

 

[5] È noto (ma pur giova ricordarlo) appena che adoperarsi male co' tempi futuri per come, subito che, tosto che. Esempio: - «Appena, che sarà andato via il maestro, io verrò da voi.» - S'ha a dire: Come sarà andato via il maestro; oppure: tosto che sarà andato via, eccetera.]

 

[6] Sito, a Firenze si adopera solo nel senso di puzza, cattiv'odore; mai in quello di luogo. Raccontano d'uno d'altra provincia d'Italia, il quale, visitando un casino, che voleva affittare per villeggiarvi, sclamava sempre: Oh che sito! oh che sito! La fattoressa, che il menava intorno, diceva fra : Dice, che v'è un sito! Guà'! I' 'un lo sento! Finalmente scesero in un chiuso tutto aranci, e gli aranci eran tutti fioriti ed olezzavano, che non si può dire l'odore, che rendevano. Sclama il forestiero: Oh che sito! che sito! La donnicciuola non si potè tenere di non gli dire: Oh senta! qui poi, sito, davvero 'un ce n'è!]

 

[7] Que' vasi di vetro sottile ed impagliati, dal collo lungo e stretto e dalla pancia quasi sferica, ne' quali custodiscono e portano  in tavola il vino nella Toscana. Nelle provincie meridionali, in Lombardia, in Piemonte non usano. Sogliono esser capaci due litri e un quarto. Il piretto napolitano, più spiccatamente piriforme e più capace, è di vetro spessissimo e si regge in piedi senza impagliatura.]

 

 

 





83 Nell'originale "trattenitenimento". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



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