Vittorio Imbriani
La novellaja fiorentina
Lettura del testo

XXIII. LE TRE FORNARINE

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XXIII.

 

LE TRE FORNARINE.[1]

 

C'era una volta un omo, che faceva il fornaio in un sobborgo di campagna; e quest'omo aveva tre bambine, una più bella dell'altra, tanto, che s'eran tirate il soprannome d'Occhi di Sole. Un giorno, che le ruzzavano fra di loro sulla sua bottega, passò di un signore tutto vestito di nero, con una bella catena d'oro ciondoloni al collo e carico di tant'altre gioie e pietre preziose. A un tratto, questo signore si fermò a guardare quelle bambine; e poi s'affacciò alla bottega del fornaio e gli disse: - «O galant'omo, tenetemi conto di queste bambine, l'hanno a essere un mio boccone!» - e, senza che il fornaio avesse tempo di rispondere, riprese il suo viaggio. Ma il fornaio tenne bene a mente quelle parole; motivo per cui tirava su le figliole da signorine, perchè lui diceva che una di loro l'avea da sposare un signorone, e l'altre due dietro a quella l'avrebbero fatto altrettanto[2]. Per tornare un passo addietro, quell'omo vestito di nero, quel giorno che si fermò alla bottega del fornaio, fece una carezza per una alle tre bambine, e gli regalò un anellino molto bello. Quelle bambine, le si ricordavan sempre di quella carezza e di quell'anello; e specialmente la maggiore l'era sempre a guardarselo in dito. Loro eran già diventate grandi e il fornaio aspettava il signorone, quando un giorno stando la maggiore alla finestra tutta impensierita, vede nella strada quello stesso signore, che aveva veduto da piccina e neanche cangiato d'un neo. Questo signore, che si chiamava Centomogli, entrò in casa; e, senza tanti discorsi, chiese al fornaio la figliola maggiore in isposa. Ma il fornaio furbo disse che non gliela avrebbe data, se prima non vedeva la casa dove dovea andare. Centomogli rispose che era giusto; e subito, fatta attaccare una carrozza, vi fece salire il fornaio; e poi via come il vento, arrivarono ad una bellissima villa con tanti bei loggiati di marmo e tante statue, chè il fornaio non n'aveva mai vedute di simili. Figuratevi se rimanesse a bocca aperta! Centomogli scese col fornaio; picchiò alla porta, che subito fu aperta da un gran gattone nero, che non finiva mai di far riverenze al padrone. Centomogli, dopo aver dato ordini per un gran pranzo al gatto, menò il fornaio a vedere quella villa, dove dovea andare la sua figliola. Il fornaio, a vedere tante meraviglie, aveva perso la parola, e camminò zitto zitto come un pulcin bagnato; e non poteva credere che quella bella casa e quella bella roba dovesse essere della sua figliola; e gli pareva mill'anni d'andare a casa per raccontarglielo. Figuratevi poi com'e' rimanesse, quando vide il gatto far da desinare, apparecchiare, portare in tavola! Un po' si sganasciava dalle risa, e un po' rimaneva serio, perchè gli pareva ch'e' fosse tutto un sogno. Dopo il desinare, rimontarono in carrozza; e via di galoppo, come eran venuti, ritornarono a casa. Ci volle tutta la sera, perchè il fornaio finisse il suo racconto. La figliola maggiore si sentiva venir l'acquolina in bocca; e le sorelle, in cambio d'averne invidia, gli dicevano: - «Oh! vai, vai, Caterina; e presto ti verremo a far visita; e si starà allegre col gatto che ti farà il servitore, che ti stirerà, che rifarà i letti!» - Per la mattina dopo fu fissato lo sposalizio; e tutti contenti videro montare in carrozza la Caterina, che anche lei, a pensare alla villa, rideva lasciando la su' casuccia. Ma appena ebbero fatto un po' di strada, la vide il suo sposo farsi nero come un nuvolo d'inverno: in casa sua gli avea fatto tanti complimenti e ora 'un gli diceva neppure una parola e non la guardava neppure. Sapeva da su' padre, che la strada da farsi era bella e che doveano passare da tante ville: e, quando si vide entrare in un folto bosco, s'azzardò a domandare allo sposo, se era quella la strada. Ma Centomogli gli rispose bruscamente che stasse zitta. La poveretta incominciò a tremare, tanto più che il bosco era di molto buio, che non ci si vedeva più. Allora si buttò in un cantuccio della carrozza e cominciò a piangere, e mandar urli, e chiamare il su' babbo. Centomogli stiede un pezzo zitto e finalmente gli disse in bona: - «Caterina, sta zitta. Tanto il tuo babbo è lontano, e non sentirebbe una cannonata. E, se tu gridi dell'altro, e' si rischia d'essere sentiti e presi dagli assassini, che sono in questo bosco.» - La Caterina si chetò a queste parole; ma la paura gli faceva battere i denti, che pareva che la battesse la terzana. Cammina, cammina, arrivò notte; e Centomogli disse alla sposa che c'era poco altro da correre, ma che bisognava scendere di carrozza per iscorgere la casa. La Caterina, la 'un si reggeva ritta, ma la si sforzò tanto, che in poco tempo tutt'e due arrivarono a un punto, da dove si vedeva un lumicino. - «Eccoci» - disse Centomogli. E la Caterina si sentì consolare. Quando furono vicini al chiarore del lume, che veniva da un finestrino, Centomogli picchiò a una porticina d'un gran castello tutto nero. E questa volta invece del gatto fu una cagna ad aprire. Anche lei, tutta riverenze, ricevè gli ordini del padrone. Cenarono, ma ancora Centomogli non diceva nulla alla povera Caterina. Passarono quattro giorni, senza che la Caterina avesse sentito la su' voce; andava a desinar con lui, a cena, a letto, ma lui sempre zitto; e lei la si disperava come un can perso. Alla fine dei quattro giorni, Centomogli disse alla Caterina: - «Domani parto; e sto fori un mese. Se tu mi prometti d'ubbidire a' me' ordini e d'osservarli, quando torno io sarò per te un buon marito, e ti menerò nella villa, che vide tuo padre.» - La Caterina si buttò in ginocchioni e promise a costo di morire che avrebbe ubbidito a tutto quello che gli comandasse. Allora Centomogli gli consegnò un mazzo di chiavi e gli disse: - «Eccoti le chiavi di tutte le porte di questo castello. Tu vi troverai da divertirti per tutto il tempo che starò fuori. Ma ti proibisco di aprire quella dalla chiave d'oro. Bada, che tu non mi puoi ingannare. Me lo racconterà la cagnolina; e poi, ti darò un mazzolino che mi renderai al mio ritorno, che diventerà secco subito, che entrerai nella stanza, che ti ho detto.» - Lieti e contenti cotesta sera cenarono; e poi si dissero addio. Rimasta sola la Caterina colla cagna, tutti i giorni apriva una stanza; e difatti vi trovava sempre qualcosa che la divertiva. Mancavano due giorni a finire il mese, e già la Caterina aveva veduto tutto il castello; era scesa in giardino. Ma ogni volta che passava davanti alla porta dalla chiave di oro sentivasi spingersi ad aprirla; ma, se s'era vinta le altre volte, questo giorno, che non aveva da far nulla, non potè resistere alla curiosità. Dopo provato tre o quattro volte ad aprir la porta, entrò nella stanza. Girò appena gli occhi intorno, che cadde svenuta. Si rinvenne poco dopo, ma fuggì via subito. Quella stanza era tutta circondata di donne attaccate a tanti chiodi, chi per la vita chi per le braccia, chi per il collo, alle mura di quella stanza. La povera Caterina, bianca come un panno lavato, andò a nascondersi in camera sua, perchè non la vedesse la cagna in quello stato, e vi stiede tutt'e due i giorni, sempre al buio; perchè la cagna andava a portargli da mangiare. Tornò Centomogli e trovò la Caterina sempre in camera, che non ebbe coraggio di dirgli una parola. Ma lui, senza aver bisogno del mazzolino, sapeva quello che aveva fatto la Caterina. E non bastò che la piangesse, che la si buttasse in ginocchioni; perchè lui la prese, la menò nella stanza della chiave d'oro e l'attaccò come quell'altre a un chiodo, e gli disse: - «Anche te hai fatto come l'altre; dunque hai da avere un gastigo compagno.» - Poi, come se nulla fosse, richiuse l'uscio. Il giorno dopo andò dal padre di Caterina e gli disse che la su' figliola voleva la sorella mezzana in compagnia, e che gliela mandasse per qualche giorno. Il fornaio acconsentì e mandò la figliola, senza metter tempo in mezzo. Centomogli, quando fu per la strada, gli raccontò il fatto della sorella e gli disse che, se voleva diventar lei sua sposa, l'avrebbe provata a quel modo; e, se avesse ubbidito, l'avrebbe menata a quella bella villa e gli avrebbe voluto bene. Quella povera ragazza gli promesse Roma e Toma; ed il giorno dopo che fu arrivato al castello, Centomogli partì. Stette fuori due mesi e quando tornò, per farla corta, messe anche la sorella della Caterina appiccicata al muro coll'altre donne. E il giorno dopo, eccotelo daccapo dal fornaio a chiedergli quell'altra figliola per compagnia di quell'altre. Ma questa non volle partir da casa subito in quel modo; e si trattenne per più d'otto giorni senza risolversi a nulla; e non sarebbe ita, se non l'avesse spinta il su' babbo. La bella Clorinda volle partir di sera, sicchè arrivò al castello di giorno. Ma Centomogli questa volta non disse altro delle sorelle, che se la le voleva rivedere, l'erano in castigo; ma fino a tanto che egli non tornava, non avrebbe potuto scoprirgliele; e se anche lei disubbidiva al suo comando, sarebbe stata messa dove la Caterina e quell'altra. Intanto gli lasciò le chiavi e gli impose che non aprisse le stanze dalla chiave d'oro e di argento. Clorinda non rispose niente; e, dopo che fu partito Centomogli, la prima cosa, andò ad aprire la stanza dalla chiave d'argento. Non vide nulla in tutta la stanza, ma sentì un certo mugolìo, che veniva come di sottoterra. Allora girò, guardò e scoprì una lapida. L'alza e vede che era un pozzo. E da questo pozzo veniva una voce, che chiedeva ajuto. Allora la cara Clorinda non sapendo come fare a dar soccorso a chi era laggiù, sorte dalla stanza, va a chiamare la cagna e gli ordina di mettere dell'acqua a bollire. E quando l'acqua fu ben bollente, disse alla cagna: - «Portami in camera quell'acqua.» - E nel mentre che gliela portava, Clorinda prese la cagna di dietro all'improvviso e la buttò nella caldaia, dove tutta pelata vi morì[3]. Rimasta padrona del castello, piglia la porta e va a trovare un carbonaio, che stava all'entrata del bosco (e lei l'aveva visto, perchè era passata da que' posti di giorno) e gli ordinò di venire con una cesta ed una fune al castello. Insomma riprese dal pozzo un bellissimo giovinotto, tutto sfinito per il patimento. Ma Clorinda, avanti d'interrogarlo, gli diede da mangiare e lo fece riavere. Tutti e due si erano belli e 'nnamorati e fissarono di fuggire insieme e concertarono d'andar col carbonaro, rimpiattati nelle balle del carbone. E intanto che il carbonaio preparava, Clorinda aprì la stanza della chiave d'oro, e vide le sue povere sorelle morte a quel modo. Non ebbe coraggio d'andargli vicino, e scappò via subito; che gli pareva sempre ch'avesse a tornare Centomogli. Domandò al giovinotto dove voleva andare. E lui rispose: - «Io sono figlio del Re di Portogallo. Io ti farò Regina e mia sposa.» - Ci si può figurare, se Clorinda era matta per la gioia! Ma per la strada, rinchiusa nelle balle del carbone, ebbe a patire non poco; e il viaggio era lungo e pericoloso fra mezzo a quel nero bosco[4]. Dopo otto giorni arrivarono sani e salvi in Portogallo; ma così rovinati, che il Re non riconosceva più il suo figliolo. Ora, per tornare un passo addietro, dovete sapere che il figliol del Re tre giorni avanti, che arrivasse la Clorinda al castello, era a caccia; e fu preso dagli assassini e messo in quel pozzo nel castello di Centomogli, che era il capo degli assassini. Il Re fece grandi feste, perchè il suo figliolo era tornato con una bellissima sposa; e tutta la corte si messe in gala per lo sposalizio, che fu fatto con molta allegria. Passato due mesi, che Clorinda viveva tanto contenta col suo marito, tornò al castello Centomogli e trovò la porta di casa aperta. Sali la scala, chiamò la cagna; ma non c'era nessuno. - «Ah! perfida maledetta, ti troverò quand'anche tu fossi in cima al mondo!» - diceva Centomogli. E subito si travesti da vecchio e andò spiando da per tutto e scoprì del carbonaio. Allora corre da quello e non parendo su' fatto, gli domanda come potè riuscire a salvare quei due poveri giovani del castello. E il carbonaio spifferò che gli aveva menati nelle balle da carbone al Re di Portogallo. Centomogli non stiede a dir che c'è egli?, e in due giorni fu in Portogallo. Passeggiava tutti i giorni dinanzi al palazzo, per vedere se vedeva la Clorinda. Un giorno finalmente, che la s'affacciò alla finestra, Centomogli disse fra : - Ora tu ci sarai!» - E subito si portò da un mago, e si fece fare un orologio, che messo in qualunque posto di una casa, tutte le genti si addormentassero da non si potere svegliare. E quando l'ebbe avuto, che era tanto bello da non se ne vedere, andò dal Re. Ma mi sono scordata di dire che Centomogli aveva sentito raccontare che la Clorinda era gravida, e che la notte lei non poteva mai chiudere un occhio a cagione della gravidanza cattiva. Centomogli, dunque, si presentò al Re e gli dimandò se voleva quell'orologio, che aveva la virtù di far dormire. Il Re subito lo comprò, benchè a caro prezzo, per la Regina; e volle che quell'uomo stasse per quella notte nel palazzo, per assicurarsi se diceva il vero; chè, se non fosse stato come gli aveva detto, gli disse che gli avrebbe dato un gran castigo. Centomogli non desiderava altro! e' gli pareva mill'anni che venisse la notte. E quando tutti furono a letto, lui si levò e andò in camera della Regina. E quella dormiva come tutti gli altri per la magìa dell'orologio. Centomogli andò per prenderla dal letto e portarla via. Ma, quando le persone eran toccate da lui, la virtù dell'orologio spariva. E la Regina al primo tocco si svegliò; e vedendosi davanti quell'omo, che voleva pigliarla, principiò a gridare. Ma era inutile! Faceva sforzi, sonava il campanello. Ma ogni cosa era sorda. Centomogli intanto la levava dal letto. Ma Clorinda con tutta la sua forza s'atteneva al letto e poi alle seggiole e a tutto ciò che poteva agguantare. Finalmente Centomogli la strascicò. Se non che, giunti al mezzo di camera, buttarono giù un tavolino, dove si trovava l'orologio incantato e tutt'e due i mobili si rompèrono. Il rumore fece svegliar tutti, perchè l'orologio rotto aveva persa la sua virtù. E tutti corsero alla camera della Regina, che si era svenuta. Presero Centomogli, lo messero in una prigione e presto lo fecero morire, perchè si seppe che gli era un capo-assassino, e che (dopo gli altri delitti) aveva preso cento mogli e l'aveva ammazzate come Caterina e sua sorella. Clorinda si riebbe, e poco dopo fece un bel bambino; chiamò alla corte suo padre e su' madre; fecero al solito grandi feste, e se ne godettero e se ne stettero e a me nulla mi dettero.

 

Stretta la foglia, larga la via,

Dite la vostra, chè ho detto la mia.

 

 

NOTE

 

 

[1] Variante, nella prima parte, della fiaba Gli Assassini; nella seconda del Re Avaro (Vedi pe' riscontri). Ha pure de' punti di somiglianza ed appartiene al ciclo stesso dell'Orco e d'Il contadino che aveva tre figlioli. Risponde anche alla Novella intitolata Le cento sporte, che si contiene nell'opuscolo: Due|fiabe|toscane|Annotate da V. I.||Esemplari C|| Napoli|Stabilimento tipografico A. Trani|Strada Medina 25| M.DCCC.LXXVI. Fu raccolta dalla signora Larissa Giorgi da Prato. Eccone una lezione milanese:

 

I TRE TOSANN DEL PRESTINEE84

 

 

Gh'era on prestinee, ch'el gh'aveva tre tosânn; eren on poo cattiv; faven immattì i soeu gent85. E la soa mamma, in att de rabbia, la dis: - «Se veniss anca on lader a tœuv, mi ve lassi toeu86.» - Domà che de a on poo de temp, va on scior a cercà vunna di so tosânn. Lee, la dimanda chi l'era; e la voreva savè de che famiglia l'era per podè dagh la soa tosa. Lu, el gh'ha portàa tutt i so cart in regola: e lor han vedùu, che l'era on bon partii. Ma sti cart eren tutt cart fals, che lor han minga cognossùu, ch'eren fals. El ghe dis, ch'apenna sposada, l'avaria menada in dove stava lu, in la soa citàa. El ghe fa di bej regaj de robba finna e fan sto sposalizi e pœu la mena via. Lee, la saluda i so gent, la saluda i so sorell; e pœu via van. Domà che fan tanta strada, tanta strada! distant!... e bosch!... quand hin staa in d'on sit, che gh'era propi nissun, in d'on bosch, el picca in d'ona portascia87, e ven di omen a dervigh. Lu, el ghe dis a sti omen: - «Ecco, questa l'è la mia sposa!» - E pœu el ghe dis, a lee: - «Sappia, che se te vœut dormì, dorma del . Ma de nott bisogna che te staghet dessedada, perchè nun a la sira vemm via e ti te dèvet stà attenta, per quand vegnem a , che picchem la porta, a dervinn. Se de no, mi te mazzi.» - Lee, sta povera tosa, la cercava de dormì del ; e de nott la stava su per stà attenta per quand piccaven la porta. E l'aveva capíi, che l'era andada in man a on capp de la compagnia di lader88. Ven, che per on poo de sir l'è semper dessedada. Ona sira, la s'è indormentada. Lu, l'è andaa denter e l'ha minacciàa de mazzalla. Lee, la s'è missa a piang e a domandagh perdon, che saria l'ultima volta, che ghe fuss capitàa quella cossa . Ven, che ona nott vann a e anca allor la s'era indormentada e lu l'ha mazzada. E lu cosse l'ha fàa? El dis: - «Andaroo a tœu l'altra sorella.» - El va di so gent (de soa mièe); el ghe dis che la soa tosa (de lor) la sta ben89 , ch'ie manda a saludà tutt; e se voreven vunna di so sorej andà a fa compagnia a lee. Vunna di sti sorej, la dis: - «Vegnaròo mi, vegnaròo mi.» - E quand l'è a de lu, la cerca la soa sorella. Lu, el ghe dis: - «L'è inutil che te cerchet la toa sorella, perchè l'hoo mazzada! «E se te faree minga quel che te disi mi, te mazzaroo anca ti.» - El ghe dis: - «Ti te dèe stà de nott dessedada, per stà pronta, quand vegnem a nun, de dervinn.» - Lee, l'ha seguitàa on poo de temp e l'è semper stada dessedada; ona nott, la s'è lassada andà del sogn90. E lu, el va dent e le minaccia; e lee, le prega de perdonagh, che le saria minga success la segonda volta. Dopo tanto temp, ona nott el va a ; e lee, la dormiva. Lu, el le desseda no; senza no, el va e le mazza anca quella. Dopo, el pensa de andà a tœu la terza. El va e el ghe dis a i so gent (de lee), che gh'han ditt i so sorell de digh de andà anca lee in compagnia on poo, e pœu che sarien vegnùu a casa insemma. Lee, la terza sorella, la ghe va. E quand l'e , la trœuva minga i so sorell. E lu, el ghe dis che eren tutt e mort; e che, se lee la stava minga dessedada, la mazzava anca lee. Lee, quella , la ghe dis de tœugh on quader de sant'Antoni, che lee l'era divotta, che inscì la starìa a fagh orazion a sant'Antoni e la saria stada dessedada. Difatti, lee, tutt i nott, la gh'aveva sto sant'Antoni e la s'è mai indormentada. Ona nott i lader vegnen a . Picchen la porta. La va a dervì, e ved che vegnen dent e portaven denter vun in spalletta. Derven on stanzin91 e van e el metten giò in de sto stanzin. Lee, a la sira adrèe, apenna ch'hin andà via, la va in de sto stanzin a guardagh cossa aveven mess giò; e la ved che gh'era on giovin in terra buttàa giò, che el pareva mort. La ghe guarda; e la ved, che l'è ferìi. Lee, la saveva indove i lader tegneven on cert onguent, che se ontaven lor quand vegneven a , che eren feríi. La a tœull e la prœuva a ontagh92 la ferida. La ved che el rinvèn; e lee, allora la va in cusinna93, la ghe on brœud per podè sostanziall94. La ghe dis: - «Come l'è, che fa a trovass chì, lu?» - Lu, el dis, che l'è stàa assaltàa di lader e che l'han ferìi: - «Lor, me creden mort, e m'han miss , perchè a lassam in strada, gh'han pagura de vess scopert, perchè mi sont el fiœu del Re.» - Lee, allora la dis che apenna che saria stàa in forza, lee gh'avaria fàa el mezz de podell scappà. - «Mi sol, no; con ti, scapparoo; perchè se de no, se i lader trœuven pu mi, allora ti te mazzen.» - Fan el dacord95 a la sira adrèe de andà via tutt e dùu, apenna che i lader eren via. I lader van via; e lor van, scappen. Lu el cognosseva i strad; e l'è andàa in d'ona fattoria, che l'era poch distant, che l'era on fattor sott a la cort del Re. Van ; lu, el fiœu del Re, el ghe dis, s'el podeva menall a casa soa, perchè lu, l'era stàa assassinàa di lader e so pader le saveva no, e desiderava de faghel savè pusèe prest, che fuss possibel. El fittavol pensa de caregà on carr de fen, de paja, fàa in manera de andagh denter tutt e dùu, el fiœu del Re e la tosa96 del prestinèe, e de podè avegh el sit de fiadà. Van, se metten in viagg. Quand hin a on certo sit, incontren i lader; fermen: - «Cossa gh'avii ?» - «Oh» - dis - «cossa gh'hoo de avè? L'è on poo de paja, che meni giò per sternì97.» - S'ciao! E lor: - «Eh ben» - disen - «andèe!» - e el lassen andà. Quand hin a la cort, i so guardi voreven minga lassall andàa denter in la porta. La, el ficciavol98, el ghe dis, che l'è el fiœu del Re, che gh'ha dàa orden de andà denter. Ghe disen, ch'el fiœu del Re, el ghminga, che anderan a dighel al Re de sto orden, che gh'han lor. Van a dighel al Re. E lu, el dis: - «Magara el fuss ver ch'el fuss el me fiœu! Ma el me fiœu l'è on pezz che no sòo in dove l'è, che el se ritrœuva!99» - El Re, el ghe dis: - «Vegnaròo giò mi a vedè.» - Difatti el va. El ficciavol, el ghe dis che l'è propi el so fiœu, che gh'ha dàa l'orden de andà denter, e che anzi l'è in quell carr. pesseghen, descareghen el car100. El fiœu, el ven giò; e el pader, a vedè el so fiœu, l'è tutt content. E pœu, el ghe ved insemma sta donna. Allora el fiœu, el ghe cunta quel che gh'era success; e che quella l'era quella, che gh'ha salvàa la vitta. Allora el pader, el ciappa sta tosa, le ringrazia tant. El fiœu, el ghe dis, che lu, el voreva sposalla. El Re ghe le conced. S'ciao! Ven, che el capp di lader l'ha scopert che quella l'era scappada cont el fioeu del Re; e l'ha sentíi che era success sto matrimonî. Lu, el saveva che lee ghe piaseva tant Sant'Antoni. L'ha fàa fa on quader magnifich, grand e pesant, che ghe voreva quatter omen a portall, e l'ha mandàa a la Cort; l'ha mandàa a digh che gh'aveven on quader de Sant'Antoni, che l'era inscì bel. E lee, la sposa, la ghe dis a so marì de tœughel. Lu, ghe le tœu; e lee, le fa mett in la soa stanza. E lee, l'andava semper a pregà sto sant, che per i so orazion, che le ghe fava, lu l'ha salvada de la mort; e pœu lee, l'ha podùu salvagh la vita a quel che l'ha sposada. De a on tre , la sentiva sto quader, che el fava di vers101: - «cricch! cricch! cricch!» - Ona sera, la va in lett; e tutt a on tratt la sent ona molla come a derviss. La guarda al quader, e la ved che el se mœuv. E lee sonna el campanin in pressa. In d'on moment va denter gent; e fan andà denter i guardi e arresten el Sant'Antoni, che l'era el lader102. E via a tœu tutt i alter. E han trovàa , in dove staven i lader, han trovàa di gran robb finn, tutta robba robada. E el capp, l'han condannàa a mort e l'han faa morì. E lee, la tosa del prestinèe, l'è restada Reginna, l'è andada a tœu i so gent, e se i è tiràa a la cort cont lee; han fàa pu el prestinèe, han fàa i sciori anca lor.

 

[2] Che, come si dice per proverbio, l'una avrebbe ajutato a maritar le altre. Ned altrimenti, per suggestione di Romeo, persona umile e pellegrina, calcolò Raimondo Berlinghieri: e le sue previsioni si avverarono.

 

[3] Un modo simile di sbrigarsi di persone incomode lo abbiamo visto nella Prezzemolina.

 

[4] Di fughe cosiffatte ne sono piene le istorie e le favole. Ne citerò una dalla Historia Varia del Domenichi: - «Sarà più fresca memoria e alquanto più felice consiglio d'una certa nuova et non più usata astuzia di Nicolò Picinino, il quale egli, famosissimo capitan di guerra del suo tempo et affezionatissimo del Duca Filippo, lasciò a' posteri; dalla qual cosa non si può dubitare, quanto fusse notabile e accorto l'ingegno di tale uomo. Perciocchè, essendo egli vinto in battaglia da Francesco Sforza, capitan generale della Signoria di Vinegia, et essendo fuggito et ricoveratosi a Garda, sul lago di Salò, sì come quel che non vedeva speranza alcuna di salvarsi, perchè egli non poteva ir salvo a trovare i suoi, anco si poteva molto fidare in una terricciuola, sì come è Garda; fece uno atto nuovo et non mai più udito innanzi quel giorno, di farsi portare in un sacco da un famiglio tedesco per il campo degli Sforzeschi, mostrando egli di portar pane a' suoi padroni, talchè finalmente egli si salvò in quel modo. Nel quale uomo difficilmente si potrà conoscere, a cui si dia la parte principale, o alla fortuna, che troppo lo favoriva; o alla fede del servidore, il quale con pericolo della sua vita lo portò a salvamento; o più tosto alla troppa fidanza del Picinino, il quale, mentre ch'egli avea paura dello Sforza più che non bisognava, non dubitò d'arrischiarsi a qual si voglia pericolo.» -

 

 

 





84 Il Limbrecht annota: - «Kinder-Märchen, N.° XL. Der Räuberhauptmann; «und N.° XLVI Fitcher's Vogel.» -



85 I soeu gent, i suoi genitori. Si noti la parte, che ha in questa variante la maledizion materna, motivo mille volte adoperato e dalla fantasia popolare e nella letteratura propriamente detta.



86 Tœu, (con l'œu breve, a differenza di tœu, tuoi, che lo ha lungo) adoperato assolutamente, ha, fra gli altri sensi, anche quello di pigliar moglie, sposare. Doma o nomà, solo, soltanto, solamente. Domà che de a on poo de temp, di a poco, sol dopo poco.



87 Piccà, bussare, picchiare. Portascia, Usciaccio, portaccia. Dervì, aprire; a quindi dervigh, aprirgli; dervinn, aprirne.



88 Capp, in milanese, non si adopera isolatamente nel significato proprio di capo, testa, anzi solo in alcuni significati tropici o metaforici. Capp de lader, capobandito. Si noti quell'on poo de sir, letteralmente: un poco di sere, una poca di sere.



89 Nell'originale "st ben". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]



90 Sogn, tanto sonno, quanto sogno. Lassass andà del sogn, è locuzione, che manca al Vocabolario Milanese Italiano di Francesco Cherubini.



91 Portà in spalletta (secondo il Cherubini) - «che i contadini dell'Alto Milanese dicono portà in pepiss o in gigiœura. Portare a zanchellini, portare a cavalluccio o a pentole o a pentoline. È quello che i lodigiani dicono portà in pegorina e i bergamaschi portà in croppa.» - Stanzin, stanzino, stanzibolo, bugigattolo.



92 Ned Onguent, ned ontà, si rinvengono appo il Cherubini. Anzi solo il verbo Ong, contadinesco Vong (ungere, ugnere) e il sostantivo (nel Supplimento) Ongiuda (ugnimento, untata). In altre novelle, non è un unguento specifico, anzi un'erba miracolosa, che risana il ferito e spesso risuscita il morto, come ho posto in un'altra nota. Alla quale mi giova aggiunger qui, che un'erba simile, che riappicca le membra troncate, si ritrova nella XII delle Novelle Antiche stampate in calce al primo volume del Catalogo dei Novellieri Italiani in prosa, raccolti e posseduti da Giovanni Papanti.



93 Cusinna, tanto vuol dir cucina, quanto cugina.



94 Sostanzià, manca affatto nel Cherubini.



95 Dacord, accordo, convenuto, concerto. el dacord, concertare accordarsi (locuzione trasandata dal Cherubini).



96 Tosa usavano anche i Provenzali. Giraldo Riquiero ha detto:

 

Toza, senz cor vaire

E senes estraire

M'auretz tan quan viva.

 

Dove il Nannucci annota: - «I Bolognesi e i Lombardi Tosa per fanciulla; o viene forse dal tonsus de' Latini, quasi proprio di chi ancora non ha capelli.» - L'etimologia è erronea; non viene da tonsa, ma invece da intonsa, chè le fanciulle lombarde portavano i capelli lunghi, ma li tagliavano nel delle nozze; onde il Manzoni, nell'Adelchi, fa dire ad Ermengarda ripudiata, che si rivolge alla madre morta:

 

Quella Ermengarda tua, cui di tua mano

Adornavi quel con tanta gioja,

Con tanta pièta; a cui tu stessa il crine

Recidesti quel , vedi qual torna!

 

Anche il Varon Milanes dice: - «Tos, Toson (Figliuolo. Putto. Fanciullo). È tolto dal participio tonsus, che viene dal verbo tondeo, es, qual significa tosare, perchè per il più i figliuolini vanno tosati, acciò forze i capelli non gli offendano il cervello ancora tenero, il che ce lo ad intendere l'aver udito consiglio di saggi medici, i quali volevano, che i figliuolini in quella tenera età andassero scoperta la testa per la sopraddetta causa.» - O che scienza ed igienica ed etimologica!



97 Sternì o starnì, (dal latino sternere); far l'impatto, impattare, fare lo sterno o il letto delle bestie.



98 Ficciàvol o Fittavol. Fittajuolo, affittajuolo, fittuario.



99 Dev'essere un Italianesimo, che non si ritrova segnato nel Cherubini.



100 Si dice tanto carr quanto car; sebbene il primo sia più usuale. Entrambi sono registrati dal Cherubini. Io m'attengo scrupolosamente alla pronunzia della mia novellaja, che adoperava quando l'una e quando l'altra forma del vocabolo. Anche in Italiano, la stessa persona dice talvolta ommettere, ufficio, Allighieri, eccetera e tal altra omettere, uficio, Alighieri e via discorrendo.



101 Per vers, in Milanese, s'intendono tanto le voci, con le quali ci rivolgiamo alle bestie, domestiche o selvatiche, per allettare, radunare, incitare, istizzire, iscacciare; quanto le voci degli animali stessi: el vers del loff; el vers del can; ecc. Non c'è lingua più ricca della nostra italiana per indicar con verbi, locuzioni e sostantivi speciali le voci ed i suoni, che emettono le varie specie di bestie. Ne ho formato un elenco, che oltrepassa i cento verbi; e non credo di averle registrate tutte; ecco perchè non lo inserisco qui con la sinonimia de' dialetti, che posseggon pure parecchi be' termini analoghi, i quali la lingua aulica desidererebbe. Ognun vedrebbe di quanto rimane al di sotto la nomenclatura delle voci degli animali in francese, ch'è tra le Rabelaissian del De L'Aulnaye in calce alla sua edizione del Rabelais. Ma non so resistere alla tentazione di aggiunger a questa postilla alcuni versi di un cinquecentista obbliato, che appunto mentova in essi parecchi termini siffatti, tra cui ce ne ha de' fidenziani e degli obsoleti. Questi è Gabriele Zimano, che nel Caride, favola pastorale, dedicata da Reggio il III Ottobre MDCX alla serenissima signora Margherita Gonzaga Estense, Duchessa di Ferrara, così fa parlare due pastori:

 

Timio.E tacerai tu dunque? ah, negli estremi

Miseri avvenimenti tu non chiedi

Col tuo soave dir dolce soccorso?Caride.Soccorso? Ah, convien ch'io

Fra tutti gli animali

Taccia i miei casi; e che saria il narrarli,

Se non far compatir gli amici meco?

Ogni male ha rimedio, eccetto il mio;

Incurabile è il mio. Il toro mugge;

L'upupa si lamenta;

La civetta il gran torto

Mostra con aspro intorto;

L'ostropor la cicada

Forma, sfogando il duolo;

Ulula il lupo; ed il susur si sente,

Da i dolci favi; l'umile belato

Forman gli agnelli; il mattutino gallo

Espergifica lieto;

Lieto ancora il cavallo

Innisce; e l'elefante

Chiede con i mestissimi barriti

Soccorso; e agl'indistinti

Suoni lor non si nega

Se non mercede dono

Da la pietà, che al mio distinto dire

Chiude le crude orecchie!

Onde ben posso dire

Che non è verso me la pietà pia.

Chi mi darà soccorso

Se la pietà lo nega?



102 Per l'uomo nascosto dentro una statua (od un quadro) oltre le novelle indicate in nota al Re Avaro vedi anche: A. Sgubernatis. Le Novelline di Santo Stefano (VIII. Argentofo). - Pitré, Opera citata: XCV. L'acula, chi sona (Geraci Sicula) XCVI. L'acula d'oru (Borgetto) e Lu Re Fiuravanti (Palazzo Adriano). Gonzenbach, Opera citata: LXVIII. Vom goldnen Löwen. Aloise Cintio de' Fabrizî, Origine de' Volgari Proverbî (M.D.XXVI.) la spiegazione del proverbio L'è fatto il becco all'oca, eccetera, eccetera.



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