Vittorio Imbriani
La novellaja fiorentina
Lettura del testo

XXVI. ZELINDA E IL MOSTRO

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XXVI.

 

ZELINDA E IL MOSTRO[1]

 

C'era una volta un pover'omo, che aveva tre figliole. La minore, essendo la più bella e la più manierata e dolce di carattere, era di molto odiata dalle altre due sorelle, ma in quella vece il padre gli voleva un gran bene. Or'avvenne, che in un vicino paese, appunto nel mese di gennaio, vi fosse una fiera; alla quale andando il pover'omo per provvigioni a campare la famiglia, ciascuna delle figliole gli domandò che gli portasse qualche regaluccio: la Rosina volle un vestito, la Marietta uno scialle, e la Zelinda si contentò di una rosa[2]. Il giorno dopo a bruzzolo, il pover'omo si messe in viaggio. E arrivato in sulla fiera, comprate che ebbe le provvigioni, gli fu facile trovare il vestito per la Rosina e lo scialle per la Marietta; ma non gli riescì, per quanto s'affannasse a cercarne, trovar la rosa per la Zelinda. Pure, voglioso di accontentare quella sua cara figliola, si rimesse in viaggio alla ventura pe' dintorni, e, cammina cammina, giunse ad un bel giardino; e siccome n'era il cancello aperto, e' vi entrò diviato. Il giardino era carico gremito d'ogni sorta di fiori, e in un cantuccio sorgeva su un[3] cespuglio di vaghe rose sbocciate e di colore smagliante. Non pareva che ci fosse nel giardino anima viva, cui domandare una rosa in compra o in regalo; sicchè il pover'omo, allungata la mano al cespuglio, staccò una rosa per la sua Zelinda. Misericordia! chè appena colto il fiore, di dentro al cespuglio, con gran fracasso e fiamme, sbucò uno spaventevole Mostro in forma di dragone[4], che fischiando a tutto potere, disse: - «Temerario, che ha' tu fatto? Bisognerà che tu moja subito, giacchè avesti l'ardire di toccare e sciupinare la mia pianta di rose.» - Il pover'omo, morto più che mezzo dalla paura, si messe a piangere, a raccomandarsi in ginocchioni, chiedendo perdono dello sbaglio commesso, e si diè a fare racconto del perchè cogliesse la rosa. E poi diceva: - «Lasciatemi andare. Ho famiglia; e, se non ci son'io, l'è finita per lei e va in perdizione.» - Ma il Mostro inferocito gli rispose: - «Uno ha da morire. O portami quella che volle la rosa; o, se , t'ammazzo in sul momento.» - Invano il pover'omo pregò e ripregò: il Mostro non gli diede agio di partire, se non dopo che il pover'omo gli ebbe promesso con giuramento di ritornare colla figliola. Figurarsi con che core il pover'omo rientrò in casa sua! Diede i regali alle figliole; ma con un viso tanto stravolto, che quelle gli domandarono con premura se gli fosse accaduta qualche disgrazia. Dàgli e ridàgli, finalmente il pover'omo piangendo gli raccontò la storia del suo viaggio e a che patto era potuto ritornare; e disse: - Bisognerà che io o la Zelinda si sia mangiati dal Mostro.» - Allora sì che le altre due sorelle scaricarono il sacco contro Zelinda: - «Bada » - dicevano - «la smorfiosa, la capricciosa! Lei, lei anderà dal Mostro, che ha voluto la rosa. Il babbo ha da rimanere con noi.» - E la Zelinda: - «È giusto che paghi chi ha fatto il danno. Anderò io. Sì, babbo, menatemi al giardino e sia pure la volontà di dio!» - Dopo varî contrasti e battibecchi, si decise che la Zelinda anderebbe nel giardino del Mostro e ci sarebbe lasciata sola. E così fu; chè, postisi in cammino l'indomani lei col padre, in sull'imbrunire giunsero al giardino. Entro a quel luogo ameno non ci veddero, secondo il solito, anima viva; ma osservarono un gran palazzo signorile illuminato e colle porte spalancate. Si introdussero i due viaggiatori nell'atrio; e subito quattro statue di marmo si mossero da' loro piedistalli per fargli lume su per le scale sino ad una sala, dove nel mezzo era una mensa apparecchiata d'ogni ben di dio. I due, sentendosi affamati, si sederono; e satolli, le medesime statue, presi i lumi, gli condussero in due belle camere, dove andati a letto dormirono saporitamente tutta la notte. Al levar del sole, Zelinda e il padre suo pur essi si levarono; e vennero serviti della colazione da mani invisibili. Poi, scesi in giardino, si diedero assieme a cercare del Mostro; e, giunti davanti al cespuglio delle rose, eccotelo sbucar fori in tutta la sua bruttezza e terribilità. La Zelinda dalla paura diventò bianca e gli tremavano le gambe. Disse il Mostro al pover'omo, dopo avere guardata fissa la Zelinda con due occhiacci infocati: - «Sta bene: tu hai mantenuta la promessa. Ora vattene, vecchio; e lascia quì sola la ragazza.» - Il pover'omo si sentiva morire dalla paura; e non meno dolorosa se ne stava la Zelinda. Ma, per preghiere, che facessero, il Mostro rimase duro come un sasso; sicchè bisognò, che il pover'omo se ne andasse, abbandonando la figlia, la sua cara Zelinda, alla discrezione del Mostro. Quando il Mostro fu solo colla Zelinda, principiò a farle carezze e moine; e tanto s'adoperò, che gli riuscì rendersi amabile a lei. Non la lasciava mancar di nulla. E tutti i giorni, discorrendo con lei nel giardino, gli domandava: - «Che mi vuo' bene? Vuo' tu diventarmi sposa?» - Ma la ragazza rispondeva: - «Signore, vi vo' bene sì, ma non diventerò mai vostra sposa.» - E il Mostro si addimostrava molto addolorato; e raddoppiava carezze e buoni garbi; e, sospirando a modo suo, diceva: - «Eppure, se tu mi sposassi, accaderebbe una cosa di molto maravigliosa. Ma non te la posso dire, fino a che tu non voglia essere la mia sposa.» - La Zelinda, sebbene non si trovasse malcontenta, pure di sposare il Mostro non se la sentiva punto, perchè troppo brutto e bestiale; quindi alle richieste del Mostro aveva sempre pronta la medesima risposta. Un giorno, il Mostro la chiamò in fretta e gli disse: - «Senti, Zelinda, se tu non acconsenti a sposarmi, è decretato, che moja tuo padre: già sta male e in fine di vita e non lo potrai più rivedere. Guarda, se dico il vero.» - E, cavato fori uno specchio incantato, il Mostro fece vedere a Zelinda il padre moribondo sul letto nella camera di casa sua[5]. Allora Zelinda, tutta disperata e fori di dal dolore, gridò: - «Che viva il babbo e lo possa riabbracciare. Sì, vi prometto, che sarò in ogni modo vostra sposa fedele e subito.» - Non ebbe a mala pena la Zelinda profferite quelle parole, in un tratto il Mostro si trasmutò in un bellissimo giovane. La ragazza ne rimase sbalordita; e il giovane, presala per mano, gli disse: - «Cara Zelinda, sappi, che io sono il figliolo del Re delle Pomarance[6]. Una vecchia strega, toccandomi, mi ridusse a Mostro; e mi condannò a stare in quel cespuglio di rose in questa figura, sino a tanto, che una bella fanciulla non acconsentisse diventare mia sposa. Per grazia tua, Zelinda, eccomi ritornato come avanti. Ora andiamo da tuo padre, che è già rinsanichito; e dopo faremo il matrimonio, ottenuto il consentimento dal Re delle Pomarance.» - Zelinda e il giovane a cavallo si partirono dal giardino; e, quand'ebbero riveduto il padre di Zelinda, tutti assieme andarono nel Regno delle Pomarance, dove il Re, alla vista del figliolo, mancò poco non cascasse morto dall'allegrezza. Il giovane disse al Re quel, che gli era intravvenuto. Ma, alla novella dello sposalizio fissato fra il figliolo e la Zelinda, il Re si turbò fortemente; e fece protesto, che, per quant'obblighi avesse alla ragazza per la liberazione del figliolo, a quella richiesta non poteva acconsentire, perchè da molto tempo innanzi aveva impegnata la sua parola di Re, che il suo figliolo si maritasse alla figlia del Re di Prussia. E non ci fu versi di tramutarlo da quel deliberato, per preghiere e pianti degli innamorati. Per cui, non vedendo altro rimedio, il giovane e Zelinda fissarono scappare assieme di notte tempo. E, travestiti da pitocchi, a piedi uscirono fori dal palazzo alla chetichella; e si posero in cammino per la campagna. Zelinda e il suo sposo, dopo avere viaggiato un giorno intero così alla ventura, in sull'abbujare entrarono in una selva e vi si smarrirono. Gira di quà, gira di , non trovavano la via ad uscirne; ed erano sul punto di sgomentarsi e darsi ormai per perduti e per morti, quando lontan lontano scorsero un lumicino.[7] A tentoni si diressero laggiù, finchè giunsero alla porta di una spelonca e picchiarono colle nocche delle dita. Dopo qualche momento, s'affaccia a un finestrino una donna, che aveva due zanne di porco sporgenti fori delle labbra, che con una vociaccia sgangherata gridò: - «Chi siete? che volete a quest'ora?» - Disse il figliolo del Re delle Pomarance: - «Siam due poverelli, marito e moglie; e ci siam smarriti in questa selva. Dateci in carità ricovero per la notte e un di pane, che siam stanchi.» - «Oh! meschini!» - sclamò la donna dalle zanne, - «dove siete mai capitati! Questa è la casa dell'Orco; e io sono la sua moglie. Scappate, ma presto, chè a momenti torna. E se vi sente e vi trova, per voi l'è finita; vi divora tutti e due vivi in un ammenne.» - « O dove volete, che si vada?» - disse il giovane: - «Guardate di rimpiattarci in qualche logo riposto, e domani a giorno ce n'anderemo senza farci sentire.» - E l'Orchessa: - «Ma che vi pare! Alla porta, dal di dentro, c'è quì una gabbia d'oro, tutta grema zeppa di sonaglioli; e ci sta un uccellino, che fa la spia e svolazza; e nella stalla c'è un cavallo con una sonagliera, che fa altrettanto. Se entra qualche cristiano in casa, l'Orco lo risà subito, perchè le bestie collo scampanellìo e il diavoleto de' canti, de' nitriti, dell'ali e delle zampe[8] glielo ridicono. E allora l'Orco cerca dappertutto; e per chi trova, non c'è scampo.» - «Tant'è,» - riprese il giovane, - «morti per morti, apriteci e lasciateci venire dentro, accada quel, che vole accadere.» - L'Orchessa, capito, che que' due non se ne volevano partire, e bramosa di fargli un po' di bene, s'avviò per la scala ad aprirgli; e in quel mentre, che tirava catenacci su catenacci e bracciali e saliscendoli e catene, con che era assicurata la porta, una vecchina tutta grinzosa apparì di fori a Zelinda e al suo sposo e presto presto gli disse: - «Pigliate questo cotone, questi confetti e queste focacce. Quando sarete dentro, tappate col cotone tutti i sonaglioli della gabbia e del cavallo, e staranno cheti. Poi, quando l'Orco è a letto e dorme, scappate via e rubate la gabbia coll'uccellino. Quando sarete in mezzo la selva, ammazzate l'uccellino e apritegli il capo. Nel capo e' ci ha un ovo. Rompetelo con una pietra; chè, rotto l'ovo, l'Orco morirà, essendo nell'ovo l'incantesimo della sua vita.[9]» - Ciò detto, disparve. Intanto la porta era aperta; e l'Orchessa, introdotti gli smarriti, li condusse in cucina, li rifocillò alla meglio e poi li messe a dormire nella mangiatoia del cavallo e li ricoprì colla paglia e col fieno per nasconderli all'Orco. Que' meschini pensavano di fare quel, che gli aveva detto la vecchina grinzosa, quando eccoti l'Orco: e l'uccellino a cantare e scotere la gabbia; e il cavallo a nitrire e a saltare tentennando la sonagliera. L'Orco, insospettito, tanto più che aveva naso fine, si diè a fiutare quà e , borbottando fra le zanne:

 

- «Mucci, mucci!

«Sento puzzo di cristianucci:

«O ce n'è, o ce n'è stati,

«O ce n'è de' rimpiattati.» -

 

Poi, rivoltosi alla moglie, disse: - «Moglie, c'è carne umana, non è vero? Dove l'ha' tu riposta?» - E l'Orchessa, facendo l'indiana: - «Ma che? Stasera tu ha' bevuto, marito, tu ha' i frazî nel naso. Va' vai a letto.» - L'Orco non era punto persuaso e storse il grugno alle parole dell'Orchessa. Stette in fra le due e poi disse: - «Sono stracco e non vo' mettermi in sul ricercare adesso. Domani poi frugherò bene la casa; e, se trovo carne umana, mi servirà per colazione.» - L'Orco se n'andiede a letto e di a un po' russava da sentirlo un miglio lontano. Pian pianino si alzarono il figliolo del Re delle Pomarance e Zelinda; e, gettate le focacce al cavallo e i confetti all'uccellino, perchè stessero zitti, col cotone tapparono tutti i sonaglioli della gabbia e del cavallo. Poi, senza pensare ad altro, vogliolosi com'erano di scappare, aperta la porta non senza fatica e agguantata la gabbia, via a corsa per la selva. Quando la gabbia fu fori della soglia della porta, l'Orco si svegliò con una scossa e urlò: - «Mi portan via la vita» - e, saltato il letto, corse dietro a' fuggiaschi. E, siccome aveva le gambe lunghe e l'odorato bono, presto li raggiunse; sicchè quelli impauriti abbandonarono la gabbia. L'Orco allora si contentò di ripigliare la gabbia e si sentì ritornare le forze, che cominciavano a scemargli; e, rinvenuto alla spelonca, la serrò con gran cura. Intanto i fuggiaschi s'eran messi a sedere ansimando per la corsa fatta. Ed eccoti la solita vecchia grinzosa, tra il losco e il brusco, gli riapparì e gli disse: - «Oh matterelli, che non avete saputo fare l'interesse vostro! Se l'Orco era morto, tutti i suoi tesori (e sono di molti) diventavano cosa vostra. Andiamo! ritornate stasera dall'Orco e fate quel, che non avete fatto.» - Que' due si sentivano poco vogliosi di ritentare la prova. Ma la vecchina gliene disse tante, che alla sera ripicchiarono alla porta della spelonca; e, dopo le solite cerimonie dell'Orchessa, che non gli riconobbe per que' della sera prima, gli entraron dentro. Ma, per tornare un passo addietro, bisogna sapere, che la vecchina aveva dato al figliolo del Re delle Pomarance una boccettina, dove stava racchiuso un liquore, che, odorato da chi la teneva in mano, rendeva ottuso il naso dell'Orco. Messi nel solito posto i due sposi, sentirono tornar l'Orco, che fiutava e borbottava la medesima canzone di prima; poi disse alla moglie: - «Questa volta, moglie, non sarò tanto mammalucco. Dammi un lume. Vo' cercare bene prima di andare a letto. E, se c'è cristiani, me li pappo in due bocconi.» - Gira e rigira, l'Orco venne alla stalla; ma il giovane annusò la boccetta, sicchè l'Orco perdette la bussola; e, non iscoprendo nulla, credette meglio andare a letto. Quando fu addormentato e russava, i due sposi, impiegate le stesse diligenze della notte avanti, tolser la gabbia dal chiodo e via per la selva; e l'Orco dietro sbraitando. Ma il giovane, cavato fuori l'uccellino, gli sfrantumò il capo con un sasso, per cui l'Orco cascò in terra morto steccolito intra fine fatta. Il che accaduto, Zelinda e il suo compagno ritornarono alla spelonca; e, caricato sul cavallo dell'Orco tutto il tesoro, presero la strada del Regno delle Pomarance. Quì giunti, si presentarono al Re, che molto lieto li ricevè; e, mirato le grandi ricchezze acquistate, consentì allo sposalizio di Zelinda con il suo figliolo. E gli sposi vissero a lungo assieme e allegramente; e nel Regno

 

Si goderono e se ne stiedero,

Ed a me nulla mi diedero.

 

 

NOTE

 

[1] Più comunemente: Belinda e il Mostro; ed anche Rosina e il mostro. Raccolta dall'Avv. Prof. Gherardo Nerucci. Il Liebrecht annota: - «Der Haupttheil dea Märchens (bis zur Verwandlung des Ungeheuers in einen schönen Jüngling) entspricht dem Märchen aus dem Schwalmgegend, angeführt von Grimm. Kinder-Märchen III, 152 zu N.° LXXXVIII. Das singende, springende Löweneckerchen.» - La connessione della prima parte di questa fiaba col mito della Psiche è evidente e salta agli occhi. Cf. con lo esempio milanese, che segue.

 

L'OMBRION111.

 

Ona volta gh'era on papà112. El gh'aveva tre tosànn113 e l'era molto114 pover e l'andava à cercà la caritàa, per portà a de mangià a sti tosànn. E on , gh'han ditt de portagh a on pòo d'aj115. L'è andaa fœura de , l'è passàa d'on sit, l'ha vist on bell giardin, e l'è andàa dent116. L'ha vist, che gh'era on bell scepp117 d'aj; e l'è andàa e n'ha cattàa on poo. In del strappàll, l'è borlàa per terra e l'ha ditt: - «O daj118!» - E ghcompars come on'ombria. E st'ombrion l'ha ditt: - «Còsse te set vegnuu a fa cont st'aj?» - E lu, l'ha ditt, che l'è per portà a ai tosànn, che gh'han ditt lor de andà a cattall. E lu, l'ombrion, el gh'ha ditt: - «Ben! o ti te menet chì diman a st'ora vunna di tosànn, o la tòa vitta l'è andada.» - E lu, sto pover-òmm, l'è andàa a tutt stremìi119 a piang. I so tosann gh'han ditt: cosa l'era, che lu el gh'aveva? E lu l'ha ditt quell, che gh'era success. Donca120 i tosànn, la maggior l'ha vorùu minga andà, la segónda nanca121, e la minor l'ha ditt: - «Ghe andaròo mi!» - e l'è andada lee in sto sit cont el 122. E quand el pader l'è stàa con la sòa tosa, l'ha fàa a la stessa manera, che l'aveva fàa, quand l'ha strappàa l'aj. E allora l'è compars l'ombrion e l'ha ditt: - «Lassala chì, che la toa tosa l'è in bon man e la patirà minga.» - L'ha menada giò d'ona scaletta; e quand l'è stada giò, l'ha veduu on magnifich sit, inscì bell, ch'el pareva on palazz. E no ghe mancava nient, qualunque cossa, che lee la podeva desiderà. Solament, che la gh'aveva semper st'ombrion denanz ai œucc123, e la podeva mai pizzà el ciàr124 de sera; el gh'aveva proibìi lu, ch'el voreva minga, che de nott se pizzass el ciàr. E, quand el dormiva, lee, le sentiva a ronfà125 come ona persona. E la ghe voreva molto ben: la s'era tant affezionada, che la ghe voreva molto ben. La gh'ha cercàa el permess d'andà a a trovà i sorej126 e el . E lu ghe l'ha daa el permess domà127 per vintiquattr'or128. E lee, la gh'ha promess, che la saria vegnuda prima anca di ventiquattr'or. L'è andada a , l'ha trovàa i sorej e el ; e la gh'ha cuntàa, che la stava inscì ben, che ghe mancava nagott129. La gh'aveva el dispiasè, che la podeva minga pizzà el ciar, e che la nott la sentiva l'ombrion a ronfà come ona personna. Lor, i sorej, gh'han daa de podè pizzà el ciar; candela e zolfanej130, per pizzà el ciar quand lu, l'ombrion, el dormiva. I sorej voreven tegnilla ; e lee, la gh'ha ditt: - «No, poss no, perchè gh'hoo promess, che saria andada prima di vintiquattr'or.» - L'è andada; e lu, l'era a ricevela. E l'è staa content, perchè l'è andada anmò131 prima de quel, che lu, el gh'aveva ditt. La sera, quand hin andàa a dormì, lee, l'ha lassàa indormentà; e pœu l'ha pizzàa el ciar. E l'ha vedùu, che l'era on bellissem gioven. El gh'aveva al coll on cordon cont attach132 ona ciavetta133. Ghe l'ha tiràda via e l'è andada a provà in di stanz, che gh'era intorna al palazz, per vedè, dove l'è, che l'andava ben sta ciav. L'ha trovàa, che in sta stanza gh'era denter tanti donn, che lavoraven e che diseven:

 

Fee fass, patton134 e pattej135

Per el fiœu del Re.

 

E pœu l'ha saràa su e via l'è andada. Ghvegnuu a la contra lu, l'ombrion, in forma d'on bel gioven136. El gh'ha ditt: - «Adess, pòdem pu stà insemma!» - E lee l'ha ditt: - «Insegnem, dove hoo de andà; che mi ghe andaròo, dove te vœut.» - Lu, el gh'ha ditt: - «Va a la cort del Re, che mi soo, che lu l'aloggia i forestee137, quej, che desideren de andà . Che tutt i nott vegnaròo mi a trovatt.» - Lee, l'è andada; e l'han aloggiada. La prima nott, che l'ombrion l'è andàa a trovalla, ghona lampeda sul scalon; e, quand l'era , el ghe diseva:

 

Lampada d'argento, stoppino d'oro,

La mia signorina riposa ancora?

 

E la lampeda, la ghe diseva:

 

Vanne vanne, a buon'ora;

La tua signorina riposa ancora.

 

Lu, el ghe dis a la lampeda:

 

Quando mio padre saprà,

Con fasce d'oro ti fascerà138.

Quando i galli più non cantano,

E le campane più non sonano,

Sino a giorno starò qui.

 

On servitor, l'ha sentìi sta robba, ona nott e . E l'è andàa a dighel al Re, che sentiven de nott quest, che vegniva a sta robba. E lu, el Re, l'è andaa e l'ha voruu sentì lu; e di fatt l'è andaa e l'ha sentìi sta robba. L'ha pessegàa139 a mandà a fa mazzà tutt i gall e a fa sonà pu i campann. Quand ghstaa pu campann, che sonass, gaj, che cantass, quella nott l'ombrion l'è andàa e l'ha tornàa a anmò alla lampeda l'istess, che el ghe diseva i alter volt:

 

Già le galle140 più non cantano,

Le campane più non sonano,

Sino a giorno starò qui.

 

E la mattinna141, a l'ora solita, che ghe portaven el cafè142 a sta tosa, van denter; e veden, che gh on alter scior insemma. E lu, sto scior, l'ha cercàa, se se podeva parlà al Re. El Re, che l'era quel, ch'el desiderava, quand l'ha vedùu, l'ha riconossùu, che l'era fiœu, che l'era staa instriaa. E allora lu l'ha ditt: - «Quella l'è la mia deliberatrice; se no gh'era questa, mi podeva minga vess deliberàa; pérchè mi, el instriament l'aveva de bisogn de trovà vunna, che me voress ben, anca che mi fuss mostruôs.» - E so pader, el gh'ha ditt: - «Ben, e ti te la sposaret; e la sarà toa sposa.» - E s'ciao143.

 

L'è passàa on carr d'oli144 d'oliva,

La panzanega145 l'è bell'è finida.

 

[2] Il padre, che, partendo, chiede alle figliuole cosa vogliano in dono, si ritrova nella Gatta Cennerentola del Basile. Dove il padre dimentica il dono per la migliore ed il suo bastimento viene arremorato. Episodio mancante nella nostra lezione della fiaba presente. - «Soccesse, ch'avenno lo Prencepe da ire 'Nsardegna pe' cose necessarie a lo stato sujo, dommannaje ped'una a 'Mperia, Calamita, Sciorella, Diamante, Colommina, Pascarella, (ch'erano le seje figliastre) che cosa volesseno, che le portasse a lo retuorno. E chi le cercaie vestite da sforgiare; chi galanterie pe' lo capo; chi cuonce pe' la facce; chi jocarielle pe' passare lo tiempo; e chi 'na cosa, e chi 'n'autra. E ped utimo, quase pe' dellieggio, disse a la figlia: E tu che vorrisse? Ed essa: Nient'autro, se non che mme raccommanne a la Palomma de le Fate, decennole, che mme manneno quarcosa. E si te lo scuorde, non puozze ire, 'nnanze, arreto. Tiene a mente chello che te dico, arma toja, maneca toja. Jette lo Prencepe, fece li fatte suoje 'Nsardegna, accattaje quanto l'avevano cercato le figliastre, e Zezolla le 'scìe de mente. Ma 'mmarcatose 'ncoppa a 'no vasciello, e facenno vela, non fu possibile mai, che la Nave sse arrassasse da lo puorto; e pareva, che fosse 'mpedecata da la remmora. Lo patrone de lo Vasciello, ch'era quase desperato, sse pose pe' stracquo a dormire, e vedde 'nsuonno 'na Fata, che le disse: Saje, pecchè non potite scazzellare la nave da lo puorto? Perchè lo Prencepe, che bene co' buje, ha mancato de prommessa a la figlia, allecordannose de tutte, fora che de lo sango propio. Sse 'sceta lo patrone, conta lo suonno a lo Prencepe, lo quale, confuso de lo mancamiento, ch'aveva fatto, jeze a la Grotta de le Fate, e, arraccommannatole la figlia, disse, che le mannassero quarcosa.» - Un simile arremoramento ritrovo in una fiaba, che ho raccolta in Napoli da una crestaina e che il Liebrecht chiama ein ganz eigenthümliches neapolitanisches Märchen:

 

'A FATA ORLANNA146.

 

Nce steva 'na vota 'nu mercante. Nu' teneva figlie; era sulo isso e 'a mogliera. Aveva a piglià' 'a mercanzia, aveva a partì'. Sse vota 'nfaccia 'ô marito, 'a mogliera: - «Chiss'è 'n aniello; mettitello 'ô rito. Mm'haje a portà' 'na pupa granne quant'a mme, che fa qualunque atteggio, che cose, che ss'assetta. Sì te scuorde, 'st'aniello sse fa 'rosso 'ô dito; e 'u vapore non va avante arreto.» - Comme 'nfatte accussì fuje. Sse dimenticaje 'a pupa, sse mmise 'ncoppa 'ô vapore, e 'u vapore no' volea camminà'. 'U pilota sse votaje: - «Signure, v'avite dimenticato quarche cosa?» - a tutt' 'e signure, che nce stevano. - «Nossignore, niente.» - All'urdemo d' 'o vapore steva chisto mercante: - «Signò'; v'avisseve dimenticato quaccosa, pecchè 'u vapore non po' camminnà'?» - Isso sse guardaje 'â mano e decette: - «Sì, mm'haggio scordata 'na cosa; 'a pupa de moglierema.» - Calaje, prese 'a pupa, e sse mmise dinto 'ô vapore; e cammenaje. Arrivaje a Napole, portaje 'a pupa 'â mogliera, tutta ben vestita, tutta elegante: pareva 'na bellissima giovane. 'A mogliera, tutta contenta, che parlava, che discorreva co' 'sta pupa, che lavoravano vicino 'ô balcone tutt'e doje. 'Nfaccefronte steva 'u figlio d' 'u Rre: ss'annamoraje 'e 'sta pupa e nce cascaje 'mmalato d' 'a passione. 'A Recina, che vedeva 'stu figlio 'mmalato, diceva: - «Figlio mmio, che è stato? ch'haje? Dill'a mammà. Oggi o domane, nuje morimmo e tu regne: e poi chi regna, se tu pigliE 'na malattia e more?» - Sse votaje: - «Mammà, haggio presa 'sta malattia, pecchè 'na figlia, 'a figlia d' 'o mercante, che sta derimpetto, tanto che è bella, che mme fa 'nnamorare.» - Dice 'a Recina: - «Sì, figlio mmio, io t' 'a faccio sposà'. Doppo ch'è 'na figlia de 'mmonnezzaro, t' 'a faccio sposà'» - «Sì, mamma mmia, faciarrisseve 'na cosa bona. Mo' mannammo a chiammà' 'ô mercante.» - Mannajeno 'o servo a casa d' 'o mercante: - «Sua Maestà ve vole a palazzo!» - «E che bo'?» - «Dèbbo parlareve147.» - 'U mercante va a palazzo; dice: - «Maestà, cosa comanna?» - «Tu tiene 'na figlia?» - «Maestà, no.» - «Comme dice, che no? 'U figlio mmio è caruto ammalato p' 'a passione, che ha pigliate p' 'a figlia toja.» - «Majestà, io ve dico, che chella è 'na pupa, non è mai cristiana.» - «Io no' boglio sape' chiacchiere! Se no' mme presente a figliata 'ntermine de quinnece ghiuorne, 'a cape toja sott' 'â chillottina.» - 'A chillottina no' sapete che è? È la forca. Ca sse 'mpenneva, se non portava 'a figlia doppo quinnece ghiuorne. Annaje a casa chiancenno 'sto mercante. Le decette 'a mogliera: - «Che è stato, che t'ha detto lo Re a palazzo, ca tu chiance?» - «No' nzaje, che mme succede? 'U figlio d' 'o Rre è caruto 'mmalato pe' chella pupa, che tu tiene!» - sse votaje 'nfacci' 'â mogliera. Sse votaje 'a mogliera: - «È caruto ammalato? non ha visto, ca è 'na pupa?» - «No' 'u crerette: e dice, ca mmfiglia; e ca se no nce presento 'â figlia mmia 'ntermine de quinnece ghiuorne, 'a cape mmia sott' 'â chillottina.» - «Be', pigliatella» - sse votaje 'a mogliera - «e portatella a 'na parte de campagna. Vire, che può ffà'.» - Mente, ca 'a menava, tutto sbegottito, trovaje a 'nu viecchio: - «Mercante, cosa vai facenno?» - Sse votaje, decette: - «Eh, vicchiariello mmio, che t'haggio a '?» - Sse votaje 'u viecchio: - «Io so tutto.» - Dice 'u mercante: - «Eh già, che sapite tutto, trovate 'nu 'rremedio p' 'a vita mmia.» - Dice: - «Appunto. A tale e tale paese, cammina, nc'è' 'na fata, ca sse chiamma 'a fata Orlanna. Tene 'nu palazzo, ca no' nce sta guardaporto e no' nce sta scalinata. Chisto è 'nu violino, chesta è 'na scalella de seta. Quanno arrive a chillo palazzo, tu miettete a sonà'. Ss'affaccia 'a fata co' tutte 'e dodece damicelle. Chessa te po' dare 'ô 'rremedio, 'a fata Orlanna.» - 'U mercante cammenaje, cammenaje; e trovaje 'ô palazzo, ca no' nce steva guardaporto e no' nce steva scalinata. Sse mette a sona' 'ô violino. Ss'affaccia 'a fata co' tutte 'e dodece damicelle. E decettero: - «Che buo', che nce chiamme?» - «Ah! fata Orlanna, dateme 'nu 'rremedio.» - «E che 'rremedio vuoje?» - Dice: - «Tengo chesta pupa, ca 'u figlio d' 'u Rre è caruto 'mmalato, sse n'è 'nnamorato. Io comme faccio?» - Faceva: - «'Ntermine de quinnece ghiuorne, se non 'a presento, 'a cape mmia sarrà tagliata.» - Decette 'a fata Orlanna: - «Mitte chesta scalella vecino 'ô muro. Damme chesta pupa. Aspetta doje ore e poi te 'a donco.» - Aspettaje doje ore e ss'affacciaje 'a fata: - «T'ecchete a figliata. Chesta parla a tutte, parla 'ô Re, 'â Recina; ma 'ô Prencepe no' nce parla. Statte buono, addio.» - Sse n'entraje 'â parte de dinto 'a fata Orlanna, e 'u mercante sse n'annaje co' 'a figlia. Annaje a casa e nce 'a portaje 'â mogliera. Dicette 'a pupa: - «Mammà, comme state?» - «Sì, figlia mmia, sto bona. E tu, addò' sì' stata?» - «So' ghiuta 'â villeggiatura co' papà e mo' so' venuta.» - 'Ntermine de quinnece ghiuorne, 'u mercante 'a vestette tutt'elegante e 'a portaje a palazzo. 'U Re, conforme 'a vidde, sse vota co' 'a Recina: - «Have ragione, figlio mmio, ch'è 'na bella giovane!» - Essa sse mese dent'a' galleria a parlà' co' 'u Rre e 'a Rrecina; e co' 'u Prencepe no' parlava. 'U Prencepe morteficato: - «Co' papà parle, co' mammà parle; e co' mme no! Comme va 'st'affare? Forze sarrà 'a soggezione, ca non mme parla.» - Ss''a sposaje; e neppure nce parlaje. Tanto che fuje costretto 'u Prencepe, ca sse spartettero senza nisciuna cosa. 'U Prencepe steva a 'na parte e essa a 'n'auta, in doje appartamienti. Isso sse mettette a fa' l'ammore co' 'n'auta Prencipessa. Pigliaje, mente 'na mattina, ca steva mancianno chesta 'nnammorata, chiammaje 'u cammariere: - «Viene cca, 'u prencepe sta a tavola?» - «Altezza, sì.» - «Aspetta!» - Sse taglia 'e doje mane e 'e menaje dinto 'ô furno. Asciette 'nu ruoto co' diece cape de sacicce. - «Portancelle 'ô Prencepe.» - «Prencepe, ve manna chesto 'a Prencipessa.» - Dice: - «E comme so' fatte?» - «Prencepe, ss'ha tagliate 'e doje mane, 'e ha menate dint' 'ô furno;» - sse votaje 'u cammariere: - «Mm'ha fatto stravedè'.» - Dice 'u cammariere, ca ss'era maravigliato. Dice: - «Basta, manciammole.» - Sse votaje 'u Prencepe. A 'nnammorata sse votaje: - «'U faccio anch'io.» - Sse taglia 'e doje mane, 'e mena dentr' 'ô forno, e sse bruciajeno e morette. - «Oh  che mm'ha fatto! mme n'ha fatto morì' a una!» - dicette 'u Prencepe. 'Ncapo 'e tiempo assaje, sse mise a fa' l'ammore co' 'n'auta. Quanno fuje 'a primma jornata, che annaje a tavola cu' essa, 'a Prencipessa chiamma 'n auto cammariere: - «Cammariè', addò' vaje?» - «Majestà, vaco a tavola d' 'o Prencepe, che sta mancianno.» - «Aspetta!» - Sse taglia 'e doje vracce, 'e mena dint' 'ô furno. Esce 'nu ruoto co' doje sanguinacce. Dice: - «Portancello 'ô Prencepe, a tavola.» - «Prencepe!....» - «Vattenne, ca no' boglio sèntere chiacchiere.» - «Ma sentiteme, lassateme conta'!» - «Ebbe', conta.» - «'A Prencipessa mm'ha chiammato: 'U Prencepe sta a tavola?==Prencipessa. Ss'ha tagliate 'e doje braccia soje e 'i ha mmenate dint' 'ô furno. N'ascette 'nu ruoto co' doje sanguinacce; e v'ha mannate 'sti doje sanguinacce. Majestà, ma chella mm'ha fatto remannè' accussì! Tene anche 'e vraccia 'n'auta vota.» - «Eh basta! manciammole! So' bone!» - Sse votaje 'a Prencipessa, l'auta 'nnamorata: - «Eh lu farrò anch'io! boglio vede'!» - Vedè', essa pure! All'urdemo d' 'a tavola, sse taglia 'e vracce e 'e mena dint' 'ô furno. Sse bruciajeno e morette. Diceva 'o Prencepe: - «Ah mme n'ha fatto morì 'n'auta!» - 'Ncapo 'e tiempo, sse mise a fa' l'ammore co' 'n'auta. 'U primmo juorno, che annaje a tavola co' essa, 'a mogliera chiammaje 'ô cammariere. Dice: - «Majestà, cosa volite?» - «'U Prencepe sta a tavola?» - «Majestà sì.» - «Aspetta!» - Sse taglia 'e doje gamme e 'e mena dint' 'ô furno. Esce 'no bello ruoto, granne, co' doje prosutte 'mbottite. - «Portancelle a tavola.» - «Majestà, nu' sapite....» - «Vattenne, ca no' boglio sèntere niente!» - «Majestà, lassateme contà! vuje mo' mme ne cacciate!....» - «Ebbè, conta, co'.» - «So' passato 'â parte d' 'a Prencipessa e mm'ha chiammato: 'U Prencepe sta a tavola?==Maestà.==E aspetta. Ss'ha tagliate 'e doje gamme, e 'e ha misse dint' 'ô forno e mm'ha date doje pregiutte.» - «Embè, manciammole.» - secutaje. Quanno fuje 'nfine d' 'a tavola, sse votaje a 'nnammorata: - «Che nce' vo'? 'U faccio pur'i'.» - Sse taglia 'e doie gamme; 'e menaie dint' 'ô forno. Sse bruciajeno 'e gamme e morette. Dice 'u Prencepe: - «Ahie! mm'148 fatto co' tre!» - Sse votaje 'u Prencepe: - «Sfortunato mme! No' haggio a l'ammore co' nisciuna cchiù.» - Quann'a la notte, ca steva curcata 'a Prencipessa, int' 'a nottata 'a lampa deceva: - «Signurì, voglio bere.» - «Agliariè', dancelle a bevere 'â lampa.» - «Signurì, mm'ha fatto male.» - «Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quant'è bella 'a fata Orlanna! Quant'è bella 'a fata Orlanna! Quant'è bella 'a fata Orlanna!» - Faceva accossì tutt' 'a nottata 'nsino a ghiuorno. Erano tutte cose affatate: 'a lampa, l'agliariello. 'U Prencepe, che senteva, sse votaje 'na mattina 'nfaccia a 'nu cammariere: - «Tu, stasera, haje da entrà' dint' 'â cammera d' 'a Prencipessa. Nce haje da stà tutt' 'a nottata sott' 'ô lietto. Haje da vedè, cosa fa tutt' 'a nottata.» - 'U cammariere trase sott' 'ô lietto. Quanne fuje 'a notte, cominciaje 'na vota 'a lampa: - «Signurì', voglio bere.» - «Agliariè', dall'a bere 'â lampa.» - «Signurì', mm ha fatto male.» - «Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quant'è bella 'a fata Orlanna! quant'è bella 'a fata Orlanna!» - Fece chesto tutt' 'a nottata. 'U cammariere, ca 'scette fora: - «Prencepe, vuje sentite 'na bella storia 'a notte !» - «E che diceceno?» - «Majestà, 'a lampa parla co' 'a Prencipessa; 'a Prencipessa parla co' agliaro149 e sse vota: Quant'è bella 'a fata Orlanna!» - Sse votaje 'u Prencepe: - «'Stanotte nce vaco i'.» - Quanno fuje 'â notte, sse mmettette sott' 'ô lietto d' 'a mogliera. Tornaje a fa' 'a stessa storia 'a lampa: - «Signurì', voglio bere.» - «Agliarè', bevere 'â lampa.» - «Signurì', mm'ha fatto male.» - «Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quanto è bella 'a fata Orlanna!» - Tutta 'a nottata deceva: - «Quanto è bella 'a fata Orlanna!» - Responnette 'o Prencepe: - «Benedetta 'a fata Orlanna!» - «Eh tanto nce volea, pe' di' 'na parola?» - sse votaje 'a Prencepessa. Ss'abbracciajeno e sse vasajeno e sse cuccajeno tutt'e doje. E stiettere cuntente e felice. Loro stanno a Roma e nuje stammo ccà.

 

Chi ha cuntate, 'nu piatto 'i rucate,

[Chi ha scritte, 'nu piatto 'e turnise;]

E chi ha 'ntiso, 'u penziero nce ha miso.

 

[3] Su un. Cacofonia orribile, alla quale potrebbesi ovviare, od intercalando un r eufonico o dicendo su d'un; e voglio avvertire, che forse in questa locuzione, il d non è preposizione, anzi puramente incremento eufonico e che quindi sarebbe per avventura da scrivere sud un. Lo Ariosto, Canto II. Stanza XLI. del Furioso, bene ha detto:

 

Che nel mezzo, su un sasso, avea un castello

Forte e ben posto e a meraviglia bello.

 

Ma il non esserci dieresi fra l'u accentata della preposizione e quella dell'articolo e l'impossibilità di pronunziare in una sillaba due u distinte ed entrambe accentuate giunta, ci avverte doversi dire e scrivere su 'n, aferizzando l'articolo indeterminato qui, come in mille altri luoghi.

 

[4] Questo Mostro, che sta fra' rosai, in un roseto e tanto geloso delle sue rose, mi ricorda lo Scimmione d'un Esempio milanese, che si racconta a' bimbi, per impaurirli dall'andar soli a ruzzare lontano di casa.

 

L'ESEMPI DEL SCIMBIOTT E DI ROS.

 

Ona volta gh'era on sciôr e ona sciora; e eren in campagna e gh'aveven ona tosa. E sta tosa l'andava fœura de la porta; e soa mader ghe diseva: - «Vœui no, che te vaghet fœura de la porta ti de per ti.» - «No, no, vòo apenna chì de fœura.» - E on , cerchen la tosa de chì, cerchen de , poden mai trovalla. Ven la sira, sta tosetta la ven minga a . La soa mamma la manda attorno, dappertutt, per cercalla, e nissun le trœuva. La soa mamma, la mattinna, la va in strada; e tutt quij, che la incontra, la ghe dimanda, se aveven veduu ona tosetta. E ona donna, la ghe dis: - «Sì, l'ho veduda mi, che l'andava denter de quij restej, , indove gh'è quel giardin.» - Allora lee, la mamma, la corr e la va denter in sto giardin; la gira dappertutt e la trovà nissun. Gh'era on bel palazz, di magnifich sâl, tanti corridor. In fin la incontra on scimbiott gross e la ghe dis: - «Voj ti! Ier è vegnùu chì la mia tosa, denter chì in sto giardin. Dimm in dove l'è; o se de no, mi te dòo fœugh al to palazz.» - E lu, el resta ; e el ghe fa segn, che lu, el sa nient. E lee, la ghe torna a : - «Damm la mia tosa; se no, mi te mazzi.» - Lu, el ghe fa segn de spettà; e lee, la ghe dis: - «Se te vegnet no, guarda, che mi ghe dòo el fœugh a la toa casa.» - Finalmente el ven, el ghe fa segn de andagh adrèe a lu. Lee, la ghe va adree; la ved, che el va in giardin; e , gh'era tanti scepp de rôs, tanti piant d'ogni qualitàa. E la ved, che el gh'aveva in man ona verga. El va , el tocca on scepp de sti rôs, e ven fœura la soa tosa de lee. E lee allora la dis: - «Tocca anca quell scepp » - E l'andava adrèe a vun a vun a faghi toccà tutt: - «se no, te mazzi e te doo el fœugh al palazz.» - El fatt l'è, ch'hin vegnuu fœura ona gran quantità de mas'cett, de tosannett: eren tutt incantàa, deventaven tutt de sti scepp de rôs. E lee, la ghe diseva: - «De chi l'è, che sìi vialter?» - E allora tutti ghe diseven: - «Sêmm del tal, sêmm del tal alter.» - E, sti fiœu, i ha mandàa tutti a i so famigli. E l'era sto scimbiott, che fava raccolta de fiœu e fava diventà tutti in rôs.

 

[5] Nel XII canto dell'Adone, Venere, pregando il giovane di allontanarsi per iscansar l'ira di Marte, gli dona un anello potente contra ogni incanto.

 

Di più la gemma, ch'è legata in esso,

È d'un diamante prezioso e fino;

Quasi piccolo specchio, ivi commesso

Fu da Mercurio, artefice divino.

Qualor colà fia, che t'affisi, espresso

Il mio volto vedrai come vicino;

Saprai come mi porto o con cui sono,

Dove sto, ciò che fo, ciò che ragiono.

 

 Non è picciol conforto al mal, che sente

De l'amata bellezza un cor lontano,

Avere almen l'immagine presente,

Ch'Amor scolpita in esso ha di sua mano.

Qui vo pregarti a rimirar sovente,

Che non vi mirerai, credimi, invano.

Qui meco ognor, ne' duri esìli tuoi,

E consigliare e consolar ti puoi.

 

Vedi la decima delle note apposte più su alla fiaba intitolata l'Uccellino, che parla.

 

[6] Pomarance è un paese di Toscana: Celio Malespini parla molto di un improvvisatore e cortigiano di quel luogo. Fu anche, se non erro, patria d'un pittore piuttosto celebre. Qui però, Re delle Pomarance dev'essere uno scambio pel solito Re di Portogallo. Ne' dialetti meridionali, le melarance dolci si addimandano portogalli, le amare cetrangole, quindi si spiega agevolmente lo equivoco.

 

[7] Da questo punto in poi la nostra fiaba di Zelinda e il Mostro comincia ad aver somiglianza non più tanto con la favola di Psiche, anzi con un'altra tradizione popolare, della quale ecco una lezione milanese:

 

EL TREDESÌN150.

 

Ona151 volta152 gh'era on pover-òmm. El gh'aveva trèdes fiœu, e el saveva minga come fa per dagh de mangià. On , el ghe dis a sti fiœu: - «Andèm in campagna, in d'on quaj sit, a vedè, se podem trovà quajghedun153 de podè damm on poo de pan, on quajcoss154 de podè mangià.» - Reussissen a vess in d'ona campagna: , ghon sit cont155 ona córt, e van denter. Gh'e ona donna; e el Tredesìn el ghe dis, se la gh'aveva de dagh quajcoss, ch'el gh'aveva tredes fiœu. E lee la ghe dis: - «Pover-òmm, adess, me rincress, poss dav nient, perchè bisogna, che ve sconda; perchè, se ven a el me marì, che l'è el mago156, l'è bon de mèttes adrée à mangià i voster fiœu. Donca, prima besogna, che ve metta in cantinna; e che daga de mangià a lu. E pœu dopo gh'el diròo, che157 ve faròo vegnì de sora e ghe daroo de mangià anca ai voster fiœu.» - Difatti, el mago, el ven a . El ven a e el dis: - «Truss trusc158, odor de cristianusc159.» - «Tœu el mangià, perchè chi ghnissun de mangià.» - Quand l'ha avùu ben mangiàa, lée la ghe dis allora160: - «Sì caro ti; hoo scondùu in cantinna on pover-òmm con trèdes fiœu. Te vedet, di fiœu ghe n'emm anca nun. Sicchè, te vedet, donca, besogna dagh de mangià a quij pover fiœu .» - S'ciao, je fa vegnì de sora, e ghe dan de mangià a sti fiœu. E lu, el dis: - «Ben, adess, metti a dormì tucc. E mettegh in còo, ai noster de nun, la barretta bianca; e ai de lu, ona scuffia rossa.» - E s'ciao, vann à dormì. Lu, el Tredesein, el lassa indormentà tutt i fiœu; e pœu adasi adasi el va, el ghe tira via la scuffia di so fiœu161 e ghe l'ha missa in testa a i fiœu del mago; e quella, che gh'aveva i fiœu del mago, ghe l'ha missa in testa a i so de lu. E lu, el mago, la mattinna el se desseda, el leva , el va, el ciappa tutt quij della scuffia rossa e je mazza tucc e pœu via el va. E allora el Tredesìn, che stava a guardà, che lu, el se l'è immaginàa, che ghe stava denter quajcoss, che lu (el mago) el voreva fa quel tradiment, el ciappa i fiœu, je fa vestì e pœu via el scappa. La mièe del mago, la va per fa levà su i fiœu, la je trœuva, ch'eren tutti mazzàa. Ven a el mago; la ghe dis: - «Cosse t' fàa, ti? t' mazzàa tutti i noster fiœu.» - Allora el mago el dis: - «Ah quel baloss162 de quel Tredesìn! l'ha capíi, che mi voreva mazzàgh i fiœu! e lu, l'ha scambiàa i scuffi e mi ho mazzáa i .» - S'ciao, el Tredesìn, el va, el saveva minga come podè fa per viv con tutti sti fiœu. Ven, che on servitor del Re l'ha sentùu sta robba, che era success de sto Tredesìn; e lu ghe le conta al Re, per vedè s'el podeva dagh quaijcossa a sto pover-òmm, ch'el podeva minga mantegnì i so fiœu. E lu, el Re, el dìs: - «Sent, digh inscì: se l'è bon de andà del mago a robà quel pappagall, ch'el gh'ha lu, che mi ghe darò ona gran sòmma.» - E lu, el Tredeseìn, el dis: - «Ma com'hoo de falla ? Basta, provaròo d'andà , quand el ghminga in càsa lu, che forsi con soa mièe poderoo robaghel.» - Difatti, el va; la gh'era, lee. L'eva cont in man el pappagall per portaghel via, quand càpita el mago. El mago, el ghe dis: - «Ah, te set chì adess? Te ne m' fàa già vœunna; adess te see chì per famm quella di 163.» - El l'ha ligàa, e pœu el dis a la soa mièe: - «Guarda chì, adess andaròo a tœu l'acqua rasa, che vœuj dagh el fœugh. Ti intrettant ciappa sto bell legn chì, e la folc; e s'cèppa sto legn. Che inscì, quand vegni a , metti su quij legn e l'acqua rasa e el brusi.» - Lee, sta povera donna, la ghe dava per s'ceppà sto legn; ma la stentava a s'ceppall, perchè l'era tant dur. El Tredesìn, allora, el ghe dis: - «Povera donna, deslighem on moment e tel s'ceppi ; e s'ciao! dopo, te tornet a ligamm, e inscì el marì el ven a ca e el trœuva bell'e s'ceppàa la legna.» - Lee, le disliga; e lu, appena desligàa, corr, va a tœu el pappagall e via el scappa. Ven a casa el mago per dagh el fœugh, el trœuva, che ghpu el Tredesìn, pappagall. Allora, el se mett a batt la mièe, perchè l'ha desligàa e l'ha lassàa andà via; e el fa ona barruffa del diavol. Intrattant, lu, el Tredesìn, el va a portagh el pappagall al Re. El Re, el ghe on gran bell regal, che l'era content comè164. El dis: - «Adess, te devet famen on alter. Mi desideri, che te vaghet a robagh quella coverta, che lu el gh'ha in sul lett, che l'è tutta pienna de campanitt165.» - «Cara lu, com'hoo de , a andà a tœu ona coverta, tutta pienna de campanitt?» - «E pur, te devet fa el possibel166 de andalla a tœu.» - Tredesìn, el va. El va intrettant, che soa mièe (del Mago) l'era de bass a i robb; e lu, el va de sora adasi adasi cont del bombas; e l'è stàa a imbottì tutt sti campanitt per non , che sonassen; e pœu el s'è scondùu167. A la sîra, el mago, el va in lett; lu, el Tredesìn, el le lassa indormentà ben ben; e pœu el comincia a poch a poch a tirà in giò, a tirà in giò. Lu, el mago, el se desseda168; el dis: - «Cosse l'è169 inscì, che sent la coverta a tirà giò?» - E lu, el Tredesìn, el fa: - «Gnau, gnau!» - el fa mostra de vess on gatt. El le lassa indormentà ben ben e pœu a poch a poch l'è reussì a tiraghela giò. E pœu via l'è andàa con la soa coverta. El mago, la mattinna, el cerca la coverta e la trœuva no, el la trœuva in nissun sit. Cerca e cerca, no ghvers de trovalla in nissun sit: - «Ah, quel balòss de quel Tredesìn, ch'el m'ha fàa quella di trè170. S'el me po reussì a vegnì in man.... domà, che poda reussì a aveghel in di man, mi già el mazzi, perchè el me n'ha faa tropp.» - Lu, el Tredesìn, el va del Re. El Re, el ghe dis: - «Bravo, ma te see propi bravo, te ghe see reussì. Adess te do ona gran somma, che pœu ti te staree ben. Adess te devet famen on'altra: allora te set on sciòr171. T' de famen on'altra, e allore te deventet on scior. Te devet in manera, de consegnamm a mi el mago.» - «Com'hoo mai de ? Ch'el mago adess, s'el me ciappa, el me mazza! Basta, faroo de tutt, per fagh anca questa.» - El pensa, el se vestiss172 tutt divers de quell del sòlit173, el mett ona barba finta e pœu el va . El ghe dis a soa mièe - «Voj!174 ghminga in el voster marì?» - «Si, ch'el gh'è; adess vòo a ciamall subet.» - E el Tredesìn, el ghe dis: - «Mi sont vegnùu chì de lu, perchè gh'hoo bisogn on piasè175. L'ha de savé, che mi hoo mazzàa vun, che ghe disen el Tredesìn, e hoo de fagh la cassa e gh'hòo minga de ass176 de faghela. Sont vegnùu de lu a vedè, s'el vœur mingà damm di ass.» - El mago, el dis: - «Bravo, t' fàa ben de mazzall: te doo subet i ass. Ven chì, ven chì! Te juttaròo177 anca mi a falla, la cassa, per mett denter quel birbòn. Va !...» - El ghe da di ass; e lu, el s'è miss adree, el Tredesìn, a la cassa. E lu, el mago, l'è semper stàa a guardagh adoss. L'ha preparada in manera de vess pront a podella sarà178. Quand l'ha finida: - «Adess mo sont infesciàa179, perchè sòo minga la grandezza, per vedè se l'andarà ben. Me par, ch'el sia grand compagn de lu180, el Tredesìn. Ch'el prœuva on poo a andà denter lu, che inscì vedaroo, perchè l'è grand come lu. Se la ghe va ben a lu, l'andarà ben anca al Tredesìn.» - «Ben, spetta, adess vòo denter subet. Guarda, guarda, se la va ben.» - Quand l'è stàa denter, el Tredesìn, el mett su el coverc181, e tich tach in d'on moment l'è stàa piccada giò182 la cassa. Però, el gh'aveva faa di bus183 in de la cassa per podè fiadà, perchè lu l'aveva de consegnall viv al Re. El gh'aveva visin di amis, per juttall a portà sta cassa. Lór hin184 stàa pront; e hin andàa e l'han portada a la cort del Re. Ghe l'han consegnada al Re: e el Re, l'è stàa tutt content a vedè, che l'è reussìi a consegnagh el mago bell e viv. El gh'ha daa ona gran somma, che l'è stada assèe de el scior per tutt el temp de la soa vita

 

[8] Sarebbe stato più proprio il dire dello starnazzare e dello scalpitare; ma qui le membra vengono adoperate invece de' romori, che si formano con esse.

 

[9] Cf. con la fiaba I di questa raccolta, intitolata l'Orco. Anche l'anima dell'Orco protagonista è in un guscio d'uovo, che la beneficata da lui si fa mostrare con lusinghe e schiaccia con astuzia. Appo la Gonzenbach, nella fiaba Vom Joseph, der auszog sein Glück zu suchen, bisogna ammazzare un drago setticipite; spaccargli la settima testa, dalla quale vola via un corvo; pigliar questo prontamente, ucciderlo, e cavarne l'uovo, che ha in corpo, e colpire con quest'uovo il gigante giusto in mezzo la fronte: allora il gigante muore. Vedi anche in un'altra185 fiaba appo la stessa raccoglitrice (Die Geschichte von dem Kaufmannssohne Peppino) un tratto analogo. In un conto pomiglianese (Viola) l'Orco dice: - «Pe' mm'accirere a mme, ss'ha da ì' a tale e a tale parte. Llà nce stà 'nu puorcospino. Chillo, quanno stà cu' l'uocchie apierte, dorme; e quanno sta cu' l'uocchie 'nghiuse, sta 'scetate. E quanno rorme ss'accire; sse piglia chill'uovo che tene 'nguorpo, mme sse sbatte 'nfronte, e i' moro.» - Di questi incantesimi riposti in un uovo, mi piace accennar qui ancora quello, che si legge nella Leggenda di Virgilio Mago. (Vedi: Antiche Leggende e Tradizioni, che illustrano la Divina Commedia, precedute da alcune osservazioni di P. Villari. Pisa, tipografia Nistri, 1865): - «Era nel tempo de Vergilio preditto, edificato uno castello dintro mari, sopra uno scoglio propinquo a la cità de Napoli, lo quale oge appare et ei chiamato castello marino o vero de mari. In de la opera del quale castello, Virgilio delettandosi, con soi arti consacrao uno ovo, lo primo che fece una gallina, lo quale ovo pose dintro una carrafa, per lo più stretto forame de la carrafa preditta, la quale carrafa la pose dintro a una cabia, dintro a una piccola camera, sotto lo preditto castello alogare fece. La quale camera secreta e ben rechiusa, con gran sollicitudine et diligencia guardata fo, et da quello lo ditto castello pigliò lo nomo: imperciò che al presente èi chiamato castello dell'Ovo, che primo chiamato era castello de mari, como è ditto de sopra. E li antiqui Napolitani teneano claramente, che da lo preditto pendeano li fati et la fortuna de lo ditto castello, e che durare dovea tanto, quanto l'ovo se conserva sano et salvo et cusì ben guardato.» -

 

 

 





111 Ombrion, manca nel Cherubini, dove c'è solo Òmbra ed Òmbria per ombra, spettro (da non confondersi con Òmbra ed Ombria, ombra ed ombria. Avé paura de la so ombrìa). Rispond a Lo Catenaccio, trattenimento IX della giornata II del Pentamerone. - «Lucia va ped acqua a 'na fontana e trova 'no schiavo, che la mette a 'no bellissimo palazzo, dov'è trattata da Regìna; ma, da le sore 'mmidiose consigliata a bedere co' chi dormisse la notte, trovatolo 'no bello giovane, ne perde la grazia ed è cacciata; ma dopò essere juta sperta e demerta grossa pena 'na maniata d'anne, arreva 'ncasa de lo 'nnamorato, dove, fatto 'no figlio mascolo, dopò varie socciesse fatto pace, le deventa mogliera.» - Si tratta sempre del mito di Psiche.



112 Papà, paperin, babbo, papà. Il signor Reali postilla: - «Il modo più comune, se non il solo, che si usa per cominciar la narrazione, è: Gh'era ona volta, e non: Ona volta gh'era. È una formola quasi sacramentale, come l'in diebus illis, che non si può indifferentemente mutare nell'in illis diebus.» - La novellaja avrà narrato male, ma diceva com'ho scritto.



113 Tósa, sing. tosànn, plur. fanciulla, ragazza, tosa. Il diminutivo tosètta, fa al plur. tosarètt. Vedi pag. 42 e 301 nelle postille.



114 Parola che non è nel dialetto.



115 Aj; aglio. Coronna d'aj, resta d'aglio. Coo, capo. Gesa, spicchio. Coa o sgaùsc, coda.



116 Dent o denter. Andà dent, entrare.



117 Scepp, fra gli altri significati ha quello di cespo, cesto, cumulo di molti figliuoli sur una sola radice di frutti o d'erba; lo stesso che ceppaia, ceppata (sceppâda) negli alberi. Da non confondersi con s'ceppàa, fesso, screpolato; s'ceppa, schiappa, ecc.



118 Dàj, esclamazione, dagli! Ma qui v'è un bisticcio con d'aj.



119 Stremìi, impaurito, sbigottito. stremì, impaurire. Stremiss, rimescolarsi, sentirsi rimescolare. Stremizzi, rimescolamento. Tœu on stremizzi, rimescolarsi.



120 Donca e donc. Ergo donca, trii conchin fan ona conca: modo scherzevole di conchiudere.



121 Nanca, gnanca e gnanch.



122 e pàder, padre.



123 Oeucc, occhio, plur. simile al sing.



124 Pizzà, appicciare, accendere. Smorzà on mocchett per pizzà ona torcia. El ciàr, il lume.



125 Ronfà, roncà, russare, ronfiare, ronfare; (de' gatti) tornire.



126 Sing. sorella; plur. sorell, e sorej.



127 Domà e nomà, solo, soltanto, solamente.



128 Òra, sing. Or, plur.



129 Nagott e nagotta, nulla; da ne gutta quidem, probabilmente.



130 Il Cherubini nota come bella parola contadinesca Solfanèll o Zolfinèll, invece del cittadinesco Zoffreghètt o Zoffreghìn.



131 Anmò, ancamò; ancora, anche; tuttora, tuttavia.



132 Attacch, accanto, allato, presso, vicino, accosto.



133 Ciavetta, chiavetta, specialmente quella dell'oriolo, diminutivo di ciav.



134 Fee, fate. Fass s. masch. plur. fasce. Patton, qui è sinonimo di pattonin, pezza a più doppî o imbottita, che si sottopone per pulizia a' bambini lattanti fra le pezze line e quelle di frustagno.



135 Pattell (e più comunemente al plurale pattij), pezze, que' pannilini onde avvolgonsi i fanciulli in fasce.



136 Giuven e Gioven.



137 Forestée. Avendo Pietro Giordani stampato, in un articolo della Biblioteca Italiana, fra le altre cose, che, nella moderna Italia, forestiere, come nell'antichissima Roma, vuol dire inimico, Carlo Porta gli rispose col seguente sonetto:

 

Quand i nost vicciurritt e fiaccaree

Menen intorna on Milanes a spass,

Ghe diraven, a chi gh'el domandass,

Che menem in caroccia on Forestee.

 

Quand i nost sciori inviden on vivee

Di amis Milanes a refisiass,

Hin solet digh al cœugh, de regolass,

Che gh'han di Forestee, tant che sia assee;

 

E lu, ch'el stà chi inscì a s'ceppà i radis,

L'ha el coragg de stampann in sul muson,

Che in Milan Forestee el vœur nemis?

 

Ah! on'altra vœulta innanz trà secch secch

De stí goffad con tanta presùnzion,

Ch'el consulta el cervell, minga i busecch.



138 Gonzenbach. (Op. cit.) XLIII. Die Geschichte vom Principe Scursuní:

 

Dormi, dormi e fa la ninna!

Si to nanna lu saprà,

Fasci d'oru ti farà.

 

Del resto quella novella della Gonzenbach si ravvicina più al nostro Re Porco.



139 Pessegà, spessegà, affrettasi, sollecitarsi; spicciarsi dicono continuamente nel mezzogiorno. Spessecare è nelle Vite de' Santi Padri, per lo essere sollecito nell'agire delle formiche. Il Firenzuola ha detto spessicare.



140 Sic, ma è sproposito evidente della novellatrice lombarda, che non può far testo nelle frasi italiane.



141 Matinna o Mattinna.



142 Usanza moderna, che è stata recentemente interpolata nella fiaba.



143 Ciao, ciavo, s'ciao, schiavo, come formola di congedo e d'addio.



144 Oli e presso il volgo æuli ed æuri.



145 Panzànega. Fiaba, fola, panzana, favola, pantraccola. Il Cherubini riporta così questa chiusa comunissima:

 

E pœu gh'han miss la saa, l'asès e l'oli d'oliva;

E la panzanega l'è bella e finida.

 

Risponde al modo toscano:

 

Stretta la foglia sia, larga la via.

Dite la vostra, che ho detta la mia;

 

nel quale è da notarsi, che spesso (e così l'ha scritto Nicomedo Tabacchi, ossia Domenico Batacchi, nel canto IX del Zibaldone) il primo verso suona:

 

Il fosso sta fra il campo e fra la via;

 

e talvolta semplicemente:

 

In santa pace pia.

 

 



146 Cf. Pitré. (Op. cit.) LXIIII. La fata muta; e soprattutto la variante castelterminese intitolata La figlia di la balena. V'è un giovane innamorato di una piavola, nella Novella in versi di Giosuè Matteini da Pistoja, intitolata La Bambola e l'Amante notturno. Vedi Favole | e | novelle | di | Giosuè Matteini | di | Pistoja || Ride si sapis | Mart. || In Pistoia MDCCLXXXVIII | Nella stamperia d'Atto Bracali | con approvazione.



147 Affettazione di linguaggio aulico.



148 L'accento circonflesso indica il prolungamento della pronunzia, cagionato dallo assorbimento dell'articolo: mm' sta qui per me lo ha.



149 Anche qui l'articolo è soppresso, lasciando allungate l'o di co' ed il primo a di agliaro.



150 Tredesin, qual soprannome nel senso di padre di tredici figliuoli, manca nel Cherubini (o decimoterzogenito, come nelle migliori lezioni di questa fiaba); dove è solo registrato nel senso del tredici di marzo: - «Credesi, che in questo si piantasse in Milano la fede cristiana e vi s'inalberasse la croce per la prima volta. Nel secolo scorso, celebravasi la festa relativa nella Chiesa di San Dionigi, scomparsa sul finire del secolo stesso, e a tale festa concorreva tutta Milano a foggia di corso. Oggidì si festeggia per lo stesso oggetto nella Chiesa del Paradiso a Porta Vigentina. Corre opinione, che la pioggia, la neve, il vento e il sole abbiano ogni anno alternativo dominio su questa giornata, e per verità l'opinione è avvalorata dal fatto quasi sempre. Il Balestrieri (Rime III, 29 e segg.) ha una poesia sul Tredesìn.» - Cf. Basile, Pentamerone, III, 7. Corvetto. - «Corvetto, pe' le bertolose qualetate ssoje 'mmediato da li cortesciane de lo Re, è mannato a deverze pericole; e, 'sciutone co' grann'onore, pe' maggiore crepantiglia de li nemmice ssuoje, l'è data la 'Nfanta pe' mogliera.» - Gonzenbach (Op. cit.) LXXXIII. Die Geschichte von Caruseddu. XXX. Die Geschichte von Ciccu. Pitrè (Op. cit.) XXXIII. Tridicinu (Borgetto) XXXV. Lu cuntu di 'na Riggina (Salaparuta). Il Liebrecht annota: - «Gehört zu Grimm KM N.° CXXVI Ferenand getrü und Ferenand ungetrü. Vergleiche Gött. Gelehrt. Ans. MDCCCLXXI. Seite 1517 zu Die Waise. Ueber den Zug mit den vertauschten Muetzen, sieh Reinhold Köhler zu Gonzenbach Sicilianische Märchen II, 255 (zu N.° 83). Füge hinzu Bechstein, Deutsche Märchen, Der Kleine Däumling (Seite 134, siebente Auflage.) Arnason, Islonskar Thiodsögur, etc. II, 443 Sagan af Thorsteini. Hahn, Neugriech. Märchen N.° 3 Var. 1-3 (II. 178 ff.) Der Zug ist schon alt und findet sich bereits bei Hygin. (fab. IV). Athamas, in Thessalia Rex, cum Inonem uxorem, ex qua duos filios susceperat, perisse putaret, duxit Nymphæ filiam Themistonem uxorem: ex ea geminos filios procreavit. Postea rescut Inonem in Parnaso esse atque bacchationis causa eo pervenisse. Misit qui eam adducerent; quam adductam celavit. Resciit Themisto eam inventam esse; sed, quæ esset, nesciebat. Cœpit velle filios ejus necare. Rei consciam, quam captivam esse credebat, ipsam Inonem sumpsit; et ei dixit, ut filios suos candidis vestimentis operiret, Inonis filios nigris. Ino suis candidis, Themistonis pullis operuit. Tunc Themisto decepta, suos filios occidit. Id ubi resciit, ipsa se necavit.» -



151 On, masch., ona, femm. sono articoli. Vun od un, masch. vunna e veunna, femm. sono numerali.



152 Volta ed anche voulta, che comincia a schifarsi da' ben parlanti. Il dialetto milanese è andato e va continuamente ringentilendosi; e certo non è più vero a' giorni nostri ciò, che diceva il Bandello da Castelnuovo Scrivia, quando (parte I. novella IX) dopo aver lodato la bellezza ed i costumi delle milanesi, e' soggiunge:  - «Et a me (per dirne ciò, ch'io ne sento) pare, che niente manchi loro a farle del tutto compite, se non che la natura le ha negato uno idioma conveniente a la beltà, a i costumi et a le gentilezze loro. Chè in effetto il parlar milanese ha una certa pronuncia, che mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende. Tuttavia elle non mancano con l'industria al naturale difetto supplire, per ciò che poche ce ne sono, che non si sforzino con la lezione dei buoni libri volgari e con il praticare con buoni parlatori farsi dotte; e, limando la lingua, apparare uno accomodato e conveniente linguaggio, il quale molto più amabili le rende a chi pratica con loro.» - Non mancano negli scrittori d'altre parti d'Italia frizzi innumerevoli contro i dialetti lombardi. Mi limiterò a trascrivere quel, che un seicentista, vescovo di Bisceglie, ha scritto in vernacolo napoletano: - «'Na vota, cammenanno 'no cierto Felosefo de Posilleco pe' la Lombardia, pecchè parlava napulitano chiantuto e majateco, tutte sse ne redevano. Isso po', pe' farele toccà' la coda co' li mano, decette ad uno, ca faceva lo protonquanqua: - Vedimmo 'no poco, de 'razia, si songo meglio li parole voste o li noste. Nuje decimmo Capo; e buje, comme decite?==Nuje decimmo Co, - respose l'auto. Ed isso: - Nuje decimmo Casa; e buje?==, - responnette l'auto. - Nuje decimmo Io; e buje?==Mi, - 'llebrecaje lo lommardo. Ora lo Felosofo decette accossì: alla 'mpressa le parole mmeje a lengua toja: Io, Casa, Capo. - E lo lommardo subbeto: - Mi, Ca, Co.==E si te cacò, - decette lo Napulitano, - te lo' meretaste, pocca sse dice a lo pajese, ca non è mmio: lengua, ca no' la 'ntienne, e tu la caca. Ora vide chi parla a lo sproposeto nuje o buje? E, pe' dicere lo vero, no' pareno pataccune chelle belle parole accussì grosse e chiatte, ca non ce ne manca 'na lettera? Non saje chello, ca se conta, de 'no poverommo de li nuoste, lo quale, partuto da Napole, addove lo pane sse chiamma pane, arrevaje a 'n auto pajése e trovaje, ca se diceva Pan; passaje cchiù 'nnanze e sse chiammava PA; tanno decette a lo compagno: tornammoncenne, ca se cchiù 'nnanze iammo, non trovarrimmo cchiù pane e nce morarrimmo de famme.» -



153 Quajghedùn, quejghedùn o quaidun.



154 Nel Cherubini c'è solo quaicòssa. Ma io sono ben certo di avere udito non una volta, da una novellatrice, quaicòss, con l'articolo maschile on. De podè mangià; il podè è superfluo, pleonastico; ma così suole accader parlando, che uno ripeta gli ausiliarî e li reduplichi.



155 Il t di cont è eufonico, e si mette solo quando la parola seguente comincia per vocale.



156 Mago, Orco: manca nel Cherubini.



157 Questo che è un mero sproposito della Novellaja, è puramente riempitivo e pleonastico.



158 Truss Trusc, mucci mucci; manca nel Cherubini.



159 Cristianusc, per cristianucci, forse, e senza forse, non esiste se non in questa sola frase.



160 La costruzione più comune sarebbe: Lee allora la ghe dis.



161 Più correttamente si direbbe: el tira via la scuffia di so fiœu; o meglio: el ghe tira via le scuffi ai so fiœu. Così pure in vece di ghe l'ha missa, sarebbe più grammaticale ghe le mett; e, più giù, in vece di se l'è immaginaa, dovrebbe dirsi se l'era immaginaa, l'imperfetto invece del presente.



162 Balòss, barone, furfante, paltoniere. Così chiamansi per antonomasia nel basso Milanese que' vagabondi, che si presentano sul far della notte alle cascine, chiedendo alloggio e vitto, certi d'ottenerlo; pel timore, che incutono facilmente a' cascinai, abitanti in luoghi pericolosi, perchè isolati. In tutta Italia e specialmente nel mezzogiorno, chi s'è dato in campagna, trova sempre ricovero e vitto nelle masserie isolate, i cui proprietarî ed abitatori troppo avrebber da temere della loro vendetta, se osassero dare un rifiuto; e quindi son costretti ad essere manutengoli involontarî.



163 , due, femminile; al maschile si dice duu. Quella di , quella di trèdes e modi simili, la seconda, la decimaterza, eccetera. Fághela de , ficcarla di boléa, fare una burla di pepe ad alcuno.



164 Comè; molto, assai, quanto mai. L'è grand comè, è grande assai. Vuol pur dire come, siccome.



165 Campanitt, campanelli. In questo senso proprio non è nel Cherubini, anzi solo come nome di fiori, bucaneve; come nome d'istrumento musicale, padiglione chinese; e come appellativo di que' ferri posti nelle macine, acciò quando non è più grano fra quelle, risonando su di esse, diano avviso al mugnaio di rifornirle di grano.



166 Il Cherubini nota possibel come voce contadinesca.



167 Avendo detto el va de sora, sarebbe più grammaticalmente corretto, se la novellaja avesse proseguito: el va de sora adasi adasi, cont del bombas l'imbotiss su pian pianin tutt i campanitt per non fa, che sonen, e pœu el se scond.



168 Dessedà, svegliare, excitare; 'scetà 'de' Napoletani.



169 Còsse si dice spesso familiarmente invece di cossa. Cosse fet ? che musi tu? Còsse l'è? Cos'è? che c'è? chèd è? Coss è? solo, vale: cosa? che? Còsse, vale anche: quanto.



170 Trii, masch. tre, femm. - «Al maschile s'usa tre solo nel modo aritmetico La regola del tre; ed è cosa curiosissima, che in questo solo noi abbandoniamo quel nostro trii maschile, che i tedeschi ci vengono a chiedere per questo solo caso, onde poter nominare la loro Regel de tri;» - Così il Cherubini; al quale mi permetterei d'osservare, che onde in italiano non può regger l'infinito nel senso di per. - Quella di tre, la terza.



171 Sciòr, signore. Sont un sciòr, significa pure: sono a cavallo.



172 Se vestìss, si veste.



173 Sòlit o sòlet. Quell del solit, il solito suo.



174 Vòj, Olà, ehi, A te, A te dico. Vòj oh! Ehi, ehi! Vòj ti, a te!



175 Piasè; e piacèri solo nella frase avegh tant per i minuti piacèri.



176 Assa, sing. un'asse; ass, plur. le assi; ass, sing. asso.



177 Juttà, ajutare, aitare.



178 Sarà, serrare, chiudere; rammarginare, cicatrizzare, saldare; (de' cavalli) pareggiare il dente; salare.



179 Infesciâ. Impicciare, imbrogliare, imbarazzare; (ghpœu on'altra robba, che m'infescia: qui poi è un'altra cosa che mi rompe); disajutare, esser di disajuto; inzafardare, imbrattare.



180 Grand compagn de lu, grande quanto Lei, della sua taglia. Lorenzo Da Ponte, nelle sue Memorie, parla de' biasimi di malevoli al suo Burbero di buon cuore: - «Casti si trovò imbarazzato e non osò dir male apertamente d'una opera, che tutti lodavano. Prese una via di mezzo: lodò, ma v'aggiunse tanti ma, che la lode stessa finiva in biasimo. Ma in fondo, diceva egli, non è che una traduzione: bisogna vedere come andrà la faccenda in un'opera originale. Ma è peccato, ch'egli negliga tanto la lingua: taglia, per esempio, non vuol dire statura; nella quale significazione io aveva adoperata quella parola. Mi trovai accidentalmente dietro alle sue spalle, quand'egli, in tuon derisorio, e più col naso che con la strozza disugolata, gorgogliava questo verso a un cantante: La taglia è come questa. Passai allora dalle sue spalle al suo petto, e in suono anch'io di strozza disugolata e nasale, gli ripetei questo verso del Berni: Gigante non fu mai di maggior taglia. Guardommi, arrossì, ma ebbe la onestà di dire: per dio, ha ragione. - Signor Abate, gli dissi io allora, chi non può criticar in un dramma che qualche parola, ne fa un grandissimo elogio. Io non ho mai criticato i gallicismi del Teodoro. Non gli diedi tempo di rispondermi e me ne andai. Quel cantante rise; ed il signor Abate rimase mutolo per più di dieci minuti. Così mi disse poi quel cantante, Stefano Mandini.» - Il verso del Bernia (citato del resto inesattamente dal Da Ponte), si trova nella IV stanza del XXXIX canto dell'Orlando Innamorato

 

Fra quelle due castella il fiume corre:

L'arco del ponte sopra lui voltava.

E d'ogni lato aveva un'alta torre:

Nel mezzo d'essa Balisarda stava.

Alla persona sua non puossi apporre,

E meno al guarnimento, che l'armava.

Gigante non fu mai di miglior taglia,

Di piastre tutto coperto e di maglia.



181 Coverc, coperchio. El diavol el fa i caldar, ma minga i coverc. Parlando di pentole, caldai, ecc. il milanese chiama test il coperchio di ferro, coverc quello di rame o di terra cotta, spazzœu, quello di legno.



182 Piccà giò, ficcar giù, spiega il Cherubini; è chiaro, che qui vale inchiodare.



183 Bùs, buso, bugio, buco, pertugio. di bùs, sforacchiare; bùs, far colpo.



184 Hin, sono. Mi sont, ti te set, lu l'è, nun sem, vu sìe, lor hin. (Vedi 1a postilla a pag. 110).



185 Nell'originale "un altra"



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