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XXVI.
C'era una volta un pover'omo, che aveva tre figliole. La minore, essendo la più bella e la più manierata e dolce di carattere, era di molto odiata dalle altre due sorelle, ma in quella vece il padre gli voleva un gran bene. Or'avvenne, che in un vicino paese, appunto nel mese di gennaio, vi fosse una fiera; alla quale andando il pover'omo per provvigioni a campare la famiglia, ciascuna delle figliole gli domandò che gli portasse qualche regaluccio: la Rosina volle un vestito, la Marietta uno scialle, e la Zelinda si contentò di una rosa[2]. Il giorno dopo a bruzzolo, il pover'omo si messe in viaggio. E arrivato in sulla fiera, comprate che ebbe le provvigioni, gli fu facile trovare il vestito per la Rosina e lo scialle per la Marietta; ma non gli riescì, per quanto s'affannasse a cercarne, trovar la rosa per la Zelinda. Pure, voglioso di accontentare quella sua cara figliola, si rimesse in viaggio alla ventura lì pe' dintorni, e, cammina cammina, giunse ad un bel giardino; e siccome n'era il cancello aperto, e' vi entrò diviato. Il giardino era carico gremito d'ogni sorta di fiori, e in un cantuccio sorgeva su un[3] cespuglio di vaghe rose sbocciate e di colore smagliante. Non pareva che ci fosse nel giardino anima viva, cui domandare una rosa in compra o in regalo; sicchè il pover'omo, allungata la mano al cespuglio, staccò una rosa per la sua Zelinda. Misericordia! chè appena colto il fiore, di dentro al cespuglio, con gran fracasso e fiamme, sbucò uno spaventevole Mostro in forma di dragone[4], che fischiando a tutto potere, disse: - «Temerario, che ha' tu fatto? Bisognerà che tu moja subito, giacchè avesti l'ardire di toccare e sciupinare la mia pianta di rose.» - Il pover'omo, morto più che mezzo dalla paura, si messe a piangere, a raccomandarsi in ginocchioni, chiedendo perdono dello sbaglio commesso, e si diè a fare racconto del perchè cogliesse la rosa. E poi diceva: - «Lasciatemi andare. Ho famiglia; e, se non ci son'io, l'è finita per lei e va in perdizione.» - Ma il Mostro inferocito gli rispose: - «Uno ha da morire. O portami quella che volle la rosa; o, se nò, t'ammazzo in sul momento.» - Invano il pover'omo pregò e ripregò: il Mostro non gli diede agio di partire, se non dopo che il pover'omo gli ebbe promesso con giuramento di ritornare colla figliola. Figurarsi con che core il pover'omo rientrò in casa sua! Diede i regali alle figliole; ma con un viso tanto stravolto, che quelle gli domandarono con premura se gli fosse accaduta qualche disgrazia. Dàgli e ridàgli, finalmente il pover'omo piangendo gli raccontò la storia del suo viaggio e a che patto era potuto ritornare; e disse: - Bisognerà che io o la Zelinda si sia mangiati dal Mostro.» - Allora sì che le altre due sorelle scaricarono il sacco contro Zelinda: - «Bada lì» - dicevano - «la smorfiosa, la capricciosa! Lei, lei anderà dal Mostro, che ha voluto la rosa. Il babbo ha da rimanere con noi.» - E la Zelinda: - «È giusto che paghi chi ha fatto il danno. Anderò io. Sì, babbo, menatemi al giardino e sia pure la volontà di dio!» - Dopo varî contrasti e battibecchi, si decise che la Zelinda anderebbe nel giardino del Mostro e ci sarebbe lasciata sola. E così fu; chè, postisi in cammino l'indomani lei col padre, in sull'imbrunire giunsero al giardino. Entro a quel luogo ameno non ci veddero, secondo il solito, anima viva; ma osservarono un gran palazzo signorile illuminato e colle porte spalancate. Si introdussero i due viaggiatori nell'atrio; e subito quattro statue di marmo si mossero da' loro piedistalli per fargli lume su per le scale sino ad una sala, dove nel mezzo era una mensa apparecchiata d'ogni ben di dio. I due, sentendosi affamati, si sederono; e satolli, le medesime statue, presi i lumi, gli condussero in due belle camere, dove andati a letto dormirono saporitamente tutta la notte. Al levar del sole, Zelinda e il padre suo pur essi si levarono; e vennero serviti della colazione da mani invisibili. Poi, scesi in giardino, si diedero assieme a cercare del Mostro; e, giunti davanti al cespuglio delle rose, eccotelo sbucar fori in tutta la sua bruttezza e terribilità. La Zelinda dalla paura diventò bianca e gli tremavano le gambe. Disse il Mostro al pover'omo, dopo avere guardata fissa la Zelinda con due occhiacci infocati: - «Sta bene: tu hai mantenuta la promessa. Ora vattene, vecchio; e lascia quì sola la ragazza.» - Il pover'omo si sentiva morire dalla paura; e non meno dolorosa se ne stava la Zelinda. Ma, per preghiere, che facessero, il Mostro rimase duro come un sasso; sicchè bisognò, che il pover'omo se ne andasse, abbandonando la figlia, la sua cara Zelinda, alla discrezione del Mostro. Quando il Mostro fu solo colla Zelinda, principiò a farle carezze e moine; e tanto s'adoperò, che gli riuscì rendersi amabile a lei. Non la lasciava mancar di nulla. E tutti i giorni, discorrendo con lei nel giardino, gli domandava: - «Che mi vuo' bene? Vuo' tu diventarmi sposa?» - Ma la ragazza rispondeva: - «Signore, vi vo' bene sì, ma non diventerò mai vostra sposa.» - E il Mostro si addimostrava molto addolorato; e raddoppiava carezze e buoni garbi; e, sospirando a modo suo, diceva: - «Eppure, se tu mi sposassi, accaderebbe una cosa di molto maravigliosa. Ma non te la posso dire, fino a che tu non voglia essere la mia sposa.» - La Zelinda, sebbene non si trovasse lì malcontenta, pure di sposare il Mostro non se la sentiva punto, perchè troppo brutto e bestiale; quindi alle richieste del Mostro aveva sempre pronta la medesima risposta. Un giorno, il Mostro la chiamò in fretta e gli disse: - «Senti, Zelinda, se tu non acconsenti a sposarmi, è decretato, che moja tuo padre: già sta male e in fine di vita e non lo potrai più rivedere. Guarda, se dico il vero.» - E, cavato fori uno specchio incantato, il Mostro fece vedere a Zelinda il padre moribondo sul letto nella camera di casa sua[5]. Allora Zelinda, tutta disperata e fori di sè dal dolore, gridò: - «Che viva il babbo e lo possa riabbracciare. Sì, vi prometto, che sarò in ogni modo vostra sposa fedele e subito.» - Non ebbe a mala pena la Zelinda profferite quelle parole, in un tratto il Mostro si trasmutò in un bellissimo giovane. La ragazza ne rimase sbalordita; e il giovane, presala per mano, gli disse: - «Cara Zelinda, sappi, che io sono il figliolo del Re delle Pomarance[6]. Una vecchia strega, toccandomi, mi ridusse a Mostro; e mi condannò a stare in quel cespuglio di rose in questa figura, sino a tanto, che una bella fanciulla non acconsentisse diventare mia sposa. Per grazia tua, Zelinda, eccomi ritornato come avanti. Ora andiamo da tuo padre, che è già rinsanichito; e dopo faremo il matrimonio, ottenuto il consentimento dal Re delle Pomarance.» - Zelinda e il giovane a cavallo si partirono dal giardino; e, quand'ebbero riveduto il padre di Zelinda, tutti assieme andarono nel Regno delle Pomarance, dove il Re, alla vista del figliolo, mancò poco non cascasse morto dall'allegrezza. Il giovane disse al Re quel, che gli era intravvenuto. Ma, alla novella dello sposalizio fissato fra il figliolo e la Zelinda, il Re si turbò fortemente; e fece protesto, che, per quant'obblighi avesse alla ragazza per la liberazione del figliolo, a quella richiesta non poteva acconsentire, perchè da molto tempo innanzi aveva impegnata la sua parola di Re, che il suo figliolo si maritasse alla figlia del Re di Prussia. E non ci fu versi di tramutarlo da quel deliberato, per preghiere e pianti degli innamorati. Per cui, non vedendo altro rimedio, il giovane e Zelinda fissarono scappare assieme di notte tempo. E, travestiti da pitocchi, a piedi uscirono fori dal palazzo alla chetichella; e si posero in cammino per la campagna. Zelinda e il suo sposo, dopo avere viaggiato un giorno intero così alla ventura, in sull'abbujare entrarono in una selva e vi si smarrirono. Gira di quà, gira di là, non trovavano la via ad uscirne; ed erano sul punto di sgomentarsi e darsi ormai per perduti e per morti, quando lontan lontano scorsero un lumicino.[7] A tentoni si diressero laggiù, finchè giunsero alla porta di una spelonca e picchiarono colle nocche delle dita. Dopo qualche momento, s'affaccia a un finestrino una donna, che aveva due zanne di porco sporgenti fori delle labbra, che con una vociaccia sgangherata gridò: - «Chi siete? che volete a quest'ora?» - Disse il figliolo del Re delle Pomarance: - «Siam due poverelli, marito e moglie; e ci siam smarriti in questa selva. Dateci in carità ricovero per la notte e un pò di pane, che siam stanchi.» - «Oh! meschini!» - sclamò la donna dalle zanne, - «dove siete mai capitati! Questa è la casa dell'Orco; e io sono la sua moglie. Scappate, ma presto, chè a momenti torna. E se vi sente e vi trova, per voi l'è finita; vi divora tutti e due vivi in un ammenne.» - « O dove volete, che si vada?» - disse il giovane: - «Guardate di rimpiattarci in qualche logo riposto, e domani a giorno ce n'anderemo senza farci sentire.» - E l'Orchessa: - «Ma che vi pare! Alla porta, dal di dentro, c'è quì una gabbia d'oro, tutta grema zeppa di sonaglioli; e ci sta un uccellino, che fa la spia e svolazza; e nella stalla c'è un cavallo con una sonagliera, che fa altrettanto. Se entra qualche cristiano in casa, l'Orco lo risà subito, perchè le bestie collo scampanellìo e il diavoleto de' canti, de' nitriti, dell'ali e delle zampe[8] glielo ridicono. E allora l'Orco cerca dappertutto; e per chi trova, non c'è scampo.» - «Tant'è,» - riprese il giovane, - «morti per morti, apriteci e lasciateci venire dentro, accada quel, che vole accadere.» - L'Orchessa, capito, che que' due non se ne volevano partire, e bramosa di fargli un po' di bene, s'avviò per la scala ad aprirgli; e in quel mentre, che tirava catenacci su catenacci e bracciali e saliscendoli e catene, con che era assicurata la porta, una vecchina tutta grinzosa apparì di fori a Zelinda e al suo sposo e presto presto gli disse: - «Pigliate questo cotone, questi confetti e queste focacce. Quando sarete dentro, tappate col cotone tutti i sonaglioli della gabbia e del cavallo, e staranno cheti. Poi, quando l'Orco è a letto e dorme, scappate via e rubate la gabbia coll'uccellino. Quando sarete in mezzo la selva, ammazzate l'uccellino e apritegli il capo. Nel capo e' ci ha un ovo. Rompetelo con una pietra; chè, rotto l'ovo, l'Orco morirà, essendo lì nell'ovo l'incantesimo della sua vita.[9]» - Ciò detto, disparve. Intanto la porta era aperta; e l'Orchessa, introdotti gli smarriti, li condusse in cucina, li rifocillò alla meglio e poi li messe a dormire nella mangiatoia del cavallo e li ricoprì colla paglia e col fieno per nasconderli all'Orco. Que' meschini pensavano di fare quel, che gli aveva detto la vecchina grinzosa, quando eccoti l'Orco: e l'uccellino a cantare e scotere la gabbia; e il cavallo a nitrire e a saltare tentennando la sonagliera. L'Orco, insospettito, tanto più che aveva naso fine, si diè a fiutare quà e là, borbottando fra le zanne:
«Sento puzzo di cristianucci:
«O ce n'è, o ce n'è stati,
«O ce n'è de' rimpiattati.» -
Poi, rivoltosi alla moglie, disse: - «Moglie, c'è carne umana, non è vero? Dove l'ha' tu riposta?» - E l'Orchessa, facendo l'indiana: - «Ma che? Stasera tu ha' bevuto, marito, tu ha' i frazî nel naso. Va' vai a letto.» - L'Orco non era punto persuaso e storse il grugno alle parole dell'Orchessa. Stette in fra le due e poi disse: - «Sono stracco e non vo' mettermi in sul ricercare adesso. Domani poi frugherò bene la casa; e, se trovo carne umana, mi servirà per colazione.» - L'Orco se n'andiede a letto e di lì a un po' russava da sentirlo un miglio lontano. Pian pianino si alzarono il figliolo del Re delle Pomarance e Zelinda; e, gettate le focacce al cavallo e i confetti all'uccellino, perchè stessero zitti, col cotone tapparono tutti i sonaglioli della gabbia e del cavallo. Poi, senza pensare ad altro, vogliolosi com'erano di scappare, aperta la porta non senza fatica e agguantata la gabbia, via a corsa per la selva. Quando la gabbia fu fori della soglia della porta, l'Orco si svegliò con una scossa e urlò: - «Mi portan via la vita» - e, saltato il letto, corse dietro a' fuggiaschi. E, siccome aveva le gambe lunghe e l'odorato bono, presto li raggiunse; sicchè quelli impauriti abbandonarono la gabbia. L'Orco allora si contentò di ripigliare la gabbia e si sentì ritornare le forze, che cominciavano a scemargli; e, rinvenuto alla spelonca, la serrò con gran cura. Intanto i fuggiaschi s'eran messi a sedere ansimando per la corsa fatta. Ed eccoti la solita vecchia grinzosa, tra il losco e il brusco, gli riapparì e gli disse: - «Oh matterelli, che non avete saputo fare l'interesse vostro! Se l'Orco era morto, tutti i suoi tesori (e sono di molti) diventavano cosa vostra. Andiamo! ritornate stasera dall'Orco e fate quel, che non avete fatto.» - Que' due si sentivano poco vogliosi di ritentare la prova. Ma la vecchina gliene disse tante, che alla sera ripicchiarono alla porta della spelonca; e, dopo le solite cerimonie dell'Orchessa, che non gli riconobbe per que' della sera prima, gli entraron dentro. Ma, per tornare un passo addietro, bisogna sapere, che la vecchina aveva dato al figliolo del Re delle Pomarance una boccettina, dove stava racchiuso un liquore, che, odorato da chi la teneva in mano, rendeva ottuso il naso dell'Orco. Messi nel solito posto i due sposi, sentirono tornar l'Orco, che fiutava e borbottava la medesima canzone di prima; poi disse alla moglie: - «Questa volta, moglie, non sarò tanto mammalucco. Dammi un lume. Vo' cercare bene prima di andare a letto. E, se c'è cristiani, me li pappo in due bocconi.» - Gira e rigira, l'Orco venne alla stalla; ma il giovane annusò la boccetta, sicchè l'Orco perdette la bussola; e, non iscoprendo nulla, credette meglio andare a letto. Quando fu addormentato e russava, i due sposi, impiegate le stesse diligenze della notte avanti, tolser la gabbia dal chiodo e via per la selva; e l'Orco dietro sbraitando. Ma il giovane, cavato fuori l'uccellino, gli sfrantumò il capo con un sasso, per cui l'Orco cascò in terra morto steccolito intra fine fatta. Il che accaduto, Zelinda e il suo compagno ritornarono alla spelonca; e, caricato sul cavallo dell'Orco tutto il tesoro, presero la strada del Regno delle Pomarance. Quì giunti, si presentarono al Re, che molto lieto li ricevè; e, mirato le grandi ricchezze acquistate, consentì allo sposalizio di Zelinda con il suo figliolo. E gli sposi vissero a lungo assieme e allegramente; e lì nel Regno
Ed a me nulla mi diedero.
[1] Più comunemente: Belinda e il Mostro; ed anche Rosina e il mostro. Raccolta dall'Avv. Prof. Gherardo Nerucci. Il Liebrecht annota: - «Der Haupttheil dea Märchens (bis zur Verwandlung des Ungeheuers in einen schönen Jüngling) entspricht dem Märchen aus dem Schwalmgegend, angeführt von Grimm. Kinder-Märchen III, 152 zu N.° LXXXVIII. Das singende, springende Löweneckerchen.» - La connessione della prima parte di questa fiaba col mito della Psiche è evidente e salta agli occhi. Cf. con lo esempio milanese, che segue.
Ona volta gh'era on papà112. El gh'aveva tre tosànn113 e l'era molto114 pover e l'andava à cercà la caritàa, per portà a cà de mangià a sti sò tosànn. E on dì, gh'han ditt de portagh a cà on pòo d'aj115. L'è andaa fœura de cà, l'è passàa d'on sit, l'ha vist on bell giardin, e l'è andàa dent116. L'ha vist, che gh'era on bell scepp117 d'aj; e l'è andàa là e n'ha cattàa on poo. In del strappàll, l'è borlàa per terra e l'ha ditt: - «O daj118!» - E gh'è compars come on'ombria. E st'ombrion l'ha ditt: - «Còsse te set vegnuu a fa cont st'aj?» - E lu, l'ha ditt, che l'è per portà a cà ai sò tosànn, che gh'han ditt lor de andà a cattall. E lu, l'ombrion, el gh'ha ditt: - «Ben! o ti te menet chì diman a st'ora vunna di tò tosànn, o la tòa vitta l'è andada.» - E lu, sto pover-òmm, l'è andàa a cà tutt stremìi119 a piang. I so tosann gh'han ditt: cosa l'era, che lu el gh'aveva? E lu l'ha ditt quell, che gh'era success. Donca120 i tosànn, la maggior l'ha vorùu minga andà, la segónda nanca121, e la minor l'ha ditt: - «Ghe andaròo mi!» - e l'è andada lee in sto sit cont el pà122. E quand el pader l'è stàa là con la sòa tosa, l'ha fàa a la stessa manera, che l'aveva fàa, quand l'ha strappàa l'aj. E allora l'è compars l'ombrion e l'ha ditt: - «Lassala chì, che la toa tosa l'è in bon man e la patirà minga.» - L'ha menada giò d'ona scaletta; e quand l'è stada giò, l'ha veduu on magnifich sit, inscì bell, ch'el pareva on palazz. E no ghe mancava nient, qualunque cossa, che lee la podeva desiderà. Solament, che la gh'aveva semper st'ombrion denanz ai œucc123, e la podeva mai pizzà el ciàr124 de sera; el gh'aveva proibìi lu, ch'el voreva minga, che de nott se pizzass el ciàr. E, quand el dormiva, lee, le sentiva a ronfà125 come ona persona. E la ghe voreva molto ben: la s'era tant affezionada, che la ghe voreva molto ben. La gh'ha cercàa el permess d'andà a cà a trovà i sò sorej126 e el sò pà. E lu ghe l'ha daa el permess domà127 per vintiquattr'or128. E lee, la gh'ha promess, che la saria vegnuda prima anca di ventiquattr'or. L'è andada a cà, l'ha trovàa i sò sorej e el sò pà; e la gh'ha cuntàa, che la stava inscì ben, che ghe mancava nagott129. La gh'aveva el dispiasè, che la podeva minga pizzà el ciar, e che la nott la sentiva l'ombrion a ronfà come ona personna. Lor, i sorej, gh'han daa de podè pizzà el ciar; candela e zolfanej130, per pizzà el ciar quand lu, l'ombrion, el dormiva. I sorej voreven tegnilla là; e lee, la gh'ha ditt: - «No, poss no, perchè gh'hoo promess, che saria andada prima di vintiquattr'or.» - L'è andada; e lu, l'era là a ricevela. E l'è staa content, perchè l'è andada anmò131 prima de quel, che lu, el gh'aveva ditt. La sera, quand hin andàa a dormì, lee, l'ha lassàa indormentà; e pœu l'ha pizzàa el ciar. E l'ha vedùu, che l'era on bellissem gioven. El gh'aveva al coll on cordon cont attach132 ona ciavetta133. Ghe l'ha tiràda via e l'è andada a provà in di stanz, che gh'era intorna al só palazz, per vedè, dove l'è, che l'andava ben sta ciav. L'ha trovàa, che in sta stanza gh'era denter tanti donn, che lavoraven e che diseven:
Fee fass, patton134 e pattej135
E pœu l'ha saràa su e via l'è andada. Gh'è vegnuu a la contra lu, l'ombrion, in forma d'on bel gioven136. El gh'ha ditt: - «Adess, pòdem pu stà insemma!» - E lee l'ha ditt: - «Insegnem, dove hoo de andà; che mi ghe andaròo, dove te vœut.» - Lu, el gh'ha ditt: - «Va a la cort del Re, che mi soo, che lu l'aloggia i forestee137, quej, che desideren de andà là. Che tutt i nott vegnaròo mi a trovatt.» - Lee, l'è andada; e là l'han aloggiada. La prima nott, che l'ombrion l'è andàa a trovalla, gh'è ona lampeda là sul scalon; e, quand l'era là, el ghe diseva:
Lampada d'argento, stoppino d'oro,
La mia signorina riposa ancora?
La tua signorina riposa ancora.
Con fasce d'oro ti fascerà138.
Quando i galli più non cantano,
Sino a giorno starò qui.
On servitor, l'ha sentìi sta robba, ona nott e dò. E l'è andàa a dighel al Re, che sentiven de nott quest, che vegniva a dì sta robba. E lu, el Re, l'è andaa e l'ha voruu sentì lu; e di fatt l'è andaa e l'ha sentìi sta robba. L'ha pessegàa139 a mandà a fa mazzà tutt i gall e a fa sonà pu i campann. Quand gh'è staa pu campann, che sonass, nè gaj, che cantass, quella nott l'ombrion l'è andàa e l'ha tornàa a dì anmò alla lampeda l'istess, che el ghe diseva i alter volt:
Già le galle140 più non cantano,
Sino a giorno starò qui.
E la mattinna141, a l'ora solita, che ghe portaven el cafè142 a sta tosa, van denter; e veden, che gh'è là on alter scior insemma. E lu, sto scior, l'ha cercàa, se se podeva parlà al Re. El Re, che l'era quel, ch'el desiderava, quand l'ha vedùu, l'ha riconossùu, che l'era sò fiœu, che l'era staa instriaa. E allora lu l'ha ditt: - «Quella l'è la mia deliberatrice; se no gh'era questa, mi podeva minga vess deliberàa; pérchè mi, el mè instriament l'aveva de bisogn de trovà vunna, che me voress ben, anca che mi fuss mostruôs.» - E so pader, el gh'ha ditt: - «Ben, e ti te la sposaret; e la sarà toa sposa.» - E s'ciao143.
L'è passàa on carr d'oli144 d'oliva,
La panzanega145 l'è bell'è finida.
[2] Il padre, che, partendo, chiede alle figliuole cosa vogliano in dono, si ritrova nella Gatta Cennerentola del Basile. Dove il padre dimentica il dono per la migliore ed il suo bastimento viene arremorato. Episodio mancante nella nostra lezione della fiaba presente. - «Soccesse, ch'avenno lo Prencepe da ire 'Nsardegna pe' cose necessarie a lo stato sujo, dommannaje ped'una a 'Mperia, Calamita, Sciorella, Diamante, Colommina, Pascarella, (ch'erano le seje figliastre) che cosa volesseno, che le portasse a lo retuorno. E chi le cercaie vestite da sforgiare; chi galanterie pe' lo capo; chi cuonce pe' la facce; chi jocarielle pe' passare lo tiempo; e chi 'na cosa, e chi 'n'autra. E ped utimo, quase pe' dellieggio, disse a la figlia: E tu che vorrisse? Ed essa: Nient'autro, se non che mme raccommanne a la Palomma de le Fate, decennole, che mme manneno quarcosa. E si te lo scuorde, non puozze ire, nè 'nnanze, nè arreto. Tiene a mente chello che te dico, arma toja, maneca toja. Jette lo Prencepe, fece li fatte suoje 'Nsardegna, accattaje quanto l'avevano cercato le figliastre, e Zezolla le 'scìe de mente. Ma 'mmarcatose 'ncoppa a 'no vasciello, e facenno vela, non fu possibile mai, che la Nave sse arrassasse da lo puorto; e pareva, che fosse 'mpedecata da la remmora. Lo patrone de lo Vasciello, ch'era quase desperato, sse pose pe' stracquo a dormire, e vedde 'nsuonno 'na Fata, che le disse: Saje, pecchè non potite scazzellare la nave da lo puorto? Perchè lo Prencepe, che bene co' buje, ha mancato de prommessa a la figlia, allecordannose de tutte, fora che de lo sango propio. Sse 'sceta lo patrone, conta lo suonno a lo Prencepe, lo quale, confuso de lo mancamiento, ch'aveva fatto, jeze a la Grotta de le Fate, e, arraccommannatole la figlia, disse, che le mannassero quarcosa.» - Un simile arremoramento ritrovo in una fiaba, che ho raccolta in Napoli da una crestaina e che il Liebrecht chiama ein ganz eigenthümliches neapolitanisches Märchen:
Nce steva 'na vota 'nu mercante. Nu' teneva figlie; era sulo isso e 'a mogliera. Aveva a piglià' 'a mercanzia, aveva a partì'. Sse vota 'nfaccia 'ô marito, 'a mogliera: - «Chiss'è 'n aniello; mettitello 'ô rito. Mm'haje a portà' 'na pupa granne quant'a mme, che fa qualunque atteggio, che cose, che ss'assetta. Sì te scuorde, 'st'aniello sse fa 'rosso 'ô dito; e 'u vapore non va avante nè arreto.» - Comme 'nfatte accussì fuje. Sse dimenticaje 'a pupa, sse mmise 'ncoppa 'ô vapore, e 'u vapore no' volea camminà'. 'U pilota sse votaje: - «Signure, v'avite dimenticato quarche cosa?» - a tutt' 'e signure, che nce stevano. - «Nossignore, niente.» - All'urdemo d' 'o vapore steva chisto mercante: - «Signò'; v'avisseve dimenticato quaccosa, pecchè 'u vapore non po' camminnà'?» - Isso sse guardaje 'â mano e decette: - «Sì, mm'haggio scordata 'na cosa; 'a pupa de moglierema.» - Calaje, prese 'a pupa, e sse mmise dinto 'ô vapore; e cammenaje. Arrivaje a Napole, portaje 'a pupa 'â mogliera, tutta ben vestita, tutta elegante: pareva 'na bellissima giovane. 'A mogliera, tutta contenta, che parlava, che discorreva co' 'sta pupa, che lavoravano vicino 'ô balcone tutt'e doje. 'Nfaccefronte steva 'u figlio d' 'u Rre: ss'annamoraje 'e 'sta pupa e nce cascaje 'mmalato d' 'a passione. 'A Recina, che vedeva 'stu figlio 'mmalato, diceva: - «Figlio mmio, che è stato? ch'haje? Dill'a mammà. Oggi o domane, nuje morimmo e tu regne: e poi chi regna, se tu pigliE 'na malattia e more?» - Sse votaje: - «Mammà, haggio presa 'sta malattia, pecchè 'na figlia, 'a figlia d' 'o mercante, che sta derimpetto, tanto che è bella, che mme fa 'nnamorare.» - Dice 'a Recina: - «Sì, figlio mmio, io t' 'a faccio sposà'. Doppo ch'è 'na figlia de 'mmonnezzaro, t' 'a faccio sposà'» - «Sì, mamma mmia, faciarrisseve 'na cosa bona. Mo' mannammo a chiammà' 'ô mercante.» - Mannajeno 'o servo a casa d' 'o mercante: - «Sua Maestà ve vole a palazzo!» - «E che bo'?» - «Dèbbo parlareve147.» - 'U mercante va a palazzo; dice: - «Maestà, cosa comanna?» - «Tu tiene 'na figlia?» - «Maestà, no.» - «Comme dice, che no? 'U figlio mmio è caruto ammalato p' 'a passione, che ha pigliate p' 'a figlia toja.» - «Majestà, io ve dico, che chella è 'na pupa, non è mai cristiana.» - «Io no' boglio sape' chiacchiere! Se no' mme presente a figliata 'ntermine de quinnece ghiuorne, 'a cape toja sott' 'â chillottina.» - 'A chillottina no' sapete che è? È la forca. Ca sse 'mpenneva, se non portava 'a figlia doppo quinnece ghiuorne. Annaje a casa chiancenno 'sto mercante. Le decette 'a mogliera: - «Che è stato, che t'ha detto lo Re a palazzo, ca tu chiance?» - «No' nzaje, che mme succede? 'U figlio d' 'o Rre è caruto 'mmalato pe' chella pupa, che tu tiene!» - sse votaje 'nfacci' 'â mogliera. Sse votaje 'a mogliera: - «È caruto ammalato? non ha visto, ca è 'na pupa?» - «No' 'u crerette: e dice, ca mm'è figlia; e ca se no nce presento 'â figlia mmia 'ntermine de quinnece ghiuorne, 'a cape mmia sott' 'â chillottina.» - «Be', pigliatella» - sse votaje 'a mogliera - «e portatella a 'na parte de campagna. Vire, che può ffà'.» - Mente, ca 'a menava, tutto sbegottito, trovaje a 'nu viecchio: - «Mercante, cosa vai facenno?» - Sse votaje, decette: - «Eh, vicchiariello mmio, che t'haggio a dì'?» - Sse votaje 'u viecchio: - «Io so tutto.» - Dice 'u mercante: - «Eh già, che sapite tutto, trovate 'nu 'rremedio p' 'a vita mmia.» - Dice: - «Appunto. A tale e tale paese, cammina, nc'è' 'na fata, ca sse chiamma 'a fata Orlanna. Tene 'nu palazzo, ca no' nce sta guardaporto e no' nce sta scalinata. Chisto è 'nu violino, chesta è 'na scalella de seta. Quanno arrive a chillo palazzo, tu miettete a sonà'. Ss'affaccia 'a fata co' tutte 'e dodece damicelle. Chessa te po' dare 'ô 'rremedio, 'a fata Orlanna.» - 'U mercante cammenaje, cammenaje; e trovaje 'ô palazzo, ca no' nce steva guardaporto e no' nce steva scalinata. Sse mette a sona' 'ô violino. Ss'affaccia 'a fata co' tutte 'e dodece damicelle. E decettero: - «Che buo', che nce chiamme?» - «Ah! fata Orlanna, dateme 'nu 'rremedio.» - «E che 'rremedio vuoje?» - Dice: - «Tengo chesta pupa, ca 'u figlio d' 'u Rre è caruto 'mmalato, sse n'è 'nnamorato. Io comme faccio?» - Faceva: - «'Ntermine de quinnece ghiuorne, se non 'a presento, 'a cape mmia sarrà tagliata.» - Decette 'a fata Orlanna: - «Mitte chesta scalella vecino 'ô muro. Damme chesta pupa. Aspetta doje ore e poi te 'a donco.» - Aspettaje doje ore e ss'affacciaje 'a fata: - «T'ecchete a figliata. Chesta parla a tutte, parla 'ô Re, 'â Recina; ma 'ô Prencepe no' nce parla. Statte buono, addio.» - Sse n'entraje 'â parte de dinto 'a fata Orlanna, e 'u mercante sse n'annaje co' 'a figlia. Annaje a casa e nce 'a portaje 'â mogliera. Dicette 'a pupa: - «Mammà, comme state?» - «Sì, figlia mmia, sto bona. E tu, addò' sì' stata?» - «So' ghiuta 'â villeggiatura co' papà e mo' so' venuta.» - 'Ntermine de quinnece ghiuorne, 'u mercante 'a vestette tutt'elegante e 'a portaje a palazzo. 'U Re, conforme 'a vidde, sse vota co' 'a Recina: - «Have ragione, figlio mmio, ch'è 'na bella giovane!» - Essa sse mese dent'a' galleria a parlà' co' 'u Rre e 'a Rrecina; e co' 'u Prencepe no' parlava. 'U Prencepe morteficato: - «Co' papà parle, co' mammà parle; e co' mme no! Comme va 'st'affare? Forze sarrà 'a soggezione, ca non mme parla.» - Ss''a sposaje; e neppure nce parlaje. Tanto che fuje costretto 'u Prencepe, ca sse spartettero senza nisciuna cosa. 'U Prencepe steva a 'na parte e essa a 'n'auta, in doje appartamienti. Isso sse mettette a fa' l'ammore co' 'n'auta Prencipessa. Pigliaje, mente 'na mattina, ca steva mancianno chesta 'nnammorata, chiammaje 'u cammariere: - «Viene cca, 'u prencepe sta a tavola?» - «Altezza, sì.» - «Aspetta!» - Sse taglia 'e doje mane e 'e menaje dinto 'ô furno. Asciette 'nu ruoto co' diece cape de sacicce. - «Portancelle 'ô Prencepe.» - «Prencepe, ve manna chesto 'a Prencipessa.» - Dice: - «E comme so' fatte?» - «Prencepe, ss'ha tagliate 'e doje mane, 'e ha menate dint' 'ô furno;» - sse votaje 'u cammariere: - «Mm'ha fatto stravedè'.» - Dice 'u cammariere, ca ss'era maravigliato. Dice: - «Basta, manciammole.» - Sse votaje 'u Prencepe. A 'nnammorata sse votaje: - «'U faccio anch'io.» - Sse taglia 'e doje mane, 'e mena dentr' 'ô forno, e sse bruciajeno e morette. - «Oh che mm'ha fatto! mme n'ha fatto morì' a una!» - dicette 'u Prencepe. 'Ncapo 'e tiempo assaje, sse mise a fa' l'ammore co' 'n'auta. Quanno fuje 'a primma jornata, che annaje a tavola cu' essa, 'a Prencipessa chiamma 'n auto cammariere: - «Cammariè', addò' vaje?» - «Majestà, vaco a tavola d' 'o Prencepe, che sta mancianno.» - «Aspetta!» - Sse taglia 'e doje vracce, 'e mena dint' 'ô furno. Esce 'nu ruoto co' doje sanguinacce. Dice: - «Portancello 'ô Prencepe, a tavola.» - «Prencepe!....» - «Vattenne, ca no' boglio sèntere chiacchiere.» - «Ma sentiteme, lassateme conta'!» - «Ebbe', conta.» - «'A Prencipessa mm'ha chiammato: 'U Prencepe sta a tavola?==Prencipessa sì. Ss'ha tagliate 'e doje braccia soje e 'i ha mmenate dint' 'ô furno. N'ascette 'nu ruoto co' doje sanguinacce; e v'ha mannate 'sti doje sanguinacce. Majestà, ma chella mm'ha fatto remannè' accussì! Tene anche 'e vraccia 'n'auta vota.» - «Eh basta! manciammole! So' bone!» - Sse votaje 'a Prencipessa, l'auta 'nnamorata: - «Eh lu farrò anch'io! boglio vede'!» - Vedè', essa pure! All'urdemo d' 'a tavola, sse taglia 'e vracce e 'e mena dint' 'ô furno. Sse bruciajeno e morette. Diceva 'o Prencepe: - «Ah mme n'ha fatto morì 'n'auta!» - 'Ncapo 'e tiempo, sse mise a fa' l'ammore co' 'n'auta. 'U primmo juorno, che annaje a tavola co' essa, 'a mogliera chiammaje 'ô cammariere. Dice: - «Majestà, cosa volite?» - «'U Prencepe sta a tavola?» - «Majestà sì.» - «Aspetta!» - Sse taglia 'e doje gamme e 'e mena dint' 'ô furno. Esce 'no bello ruoto, granne, co' doje prosutte 'mbottite. - «Portancelle a tavola.» - «Majestà, nu' sapite....» - «Vattenne, ca no' boglio sèntere niente!» - «Majestà, lassateme contà! vuje mo' mme ne cacciate!....» - «Ebbè, conta, co'.» - «So' passato 'â parte d' 'a Prencipessa e mm'ha chiammato: 'U Prencepe sta a tavola?==Maestà sì.==E aspetta. Ss'ha tagliate 'e doje gamme, e 'e ha misse dint' 'ô forno e mm'ha date doje pregiutte.» - «Embè, manciammole.» - secutaje. Quanno fuje 'nfine d' 'a tavola, sse votaje a 'nnammorata: - «Che nce' vo'? 'U faccio pur'i'.» - Sse taglia 'e doie gamme; 'e menaie dint' 'ô forno. Sse bruciajeno 'e gamme e morette. Dice 'u Prencepe: - «Ahie! mm'hâ148 fatto co' tre!» - Sse votaje 'u Prencepe: - «Sfortunato mme! No' haggio a fà l'ammore co' nisciuna cchiù.» - Quann'a la notte, ca steva curcata 'a Prencipessa, int' 'a nottata 'a lampa deceva: - «Signurì, voglio bere.» - «Agliariè', dancelle a bevere 'â lampa.» - «Signurì, mm'ha fatto male.» - «Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quant'è bella 'a fata Orlanna! Quant'è bella 'a fata Orlanna! Quant'è bella 'a fata Orlanna!» - Faceva accossì tutt' 'a nottata 'nsino a ghiuorno. Erano tutte cose affatate: 'a lampa, l'agliariello. 'U Prencepe, che senteva, sse votaje 'na mattina 'nfaccia a 'nu cammariere: - «Tu, stasera, haje da entrà' dint' 'â cammera d' 'a Prencipessa. Nce haje da stà tutt' 'a nottata sott' 'ô lietto. Haje da vedè, cosa fa tutt' 'a nottata.» - 'U cammariere trase sott' 'ô lietto. Quanne fuje 'a notte, cominciaje 'na vota 'a lampa: - «Signurì', voglio bere.» - «Agliariè', dall'a bere 'â lampa.» - «Signurì', mm ha fatto male.» - «Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quant'è bella 'a fata Orlanna! quant'è bella 'a fata Orlanna!» - Fece chesto tutt' 'a nottata. 'U cammariere, ca 'scette fora: - «Prencepe, vuje sentite 'na bella storia 'a notte là!» - «E che diceceno?» - «Majestà, 'a lampa parla co' 'a Prencipessa; 'a Prencipessa parla co' agliaro149 e sse vota: Quant'è bella 'a fata Orlanna!» - Sse votaje 'u Prencepe: - «'Stanotte nce vaco i'.» - Quanno fuje 'â notte, sse mmettette sott' 'ô lietto d' 'a mogliera. Tornaje a fa' 'a stessa storia 'a lampa: - «Signurì', voglio bere.» - «Agliarè', dà bevere 'â lampa.» - «Signurì', mm'ha fatto male.» - «Agliariè', perchè haje fatto male 'â lampa? Quanto è bella 'a fata Orlanna!» - Tutta 'a nottata deceva: - «Quanto è bella 'a fata Orlanna!» - Responnette 'o Prencepe: - «Benedetta 'a fata Orlanna!» - «Eh tanto nce volea, pe' di' 'na parola?» - sse votaje 'a Prencepessa. Ss'abbracciajeno e sse vasajeno e sse cuccajeno tutt'e doje. E stiettere cuntente e felice. Loro stanno a Roma e nuje stammo ccà.
Chi ha cuntate, 'nu piatto 'i rucate,
[Chi ha scritte, 'nu piatto 'e turnise;]
E chi ha 'ntiso, 'u penziero nce ha miso.
[3] Su un. Cacofonia orribile, alla quale potrebbesi ovviare, od intercalando un r eufonico o dicendo su d'un; e voglio avvertire, che forse in questa locuzione, il d non è preposizione, anzi puramente incremento eufonico e che quindi sarebbe per avventura da scrivere sud un. Lo Ariosto, Canto II. Stanza XLI. del Furioso, bene ha detto:
Che nel mezzo, su un sasso, avea un castello
Forte e ben posto e a meraviglia bello.
Ma il non esserci dieresi fra l'u accentata della preposizione e quella dell'articolo e l'impossibilità di pronunziare in una sillaba due u distinte ed entrambe accentuate giunta, ci avverte doversi dire e scrivere su 'n, aferizzando l'articolo indeterminato qui, come in mille altri luoghi.
[4] Questo Mostro, che sta fra' rosai, in un roseto e tanto geloso delle sue rose, mi ricorda lo Scimmione d'un Esempio milanese, che si racconta a' bimbi, per impaurirli dall'andar soli a ruzzare lontano di casa.
L'ESEMPI DEL SCIMBIOTT E DI ROS.
Ona volta gh'era on sciôr e ona sciora; e eren in campagna e gh'aveven ona tosa. E sta tosa l'andava fœura de la porta; e soa mader ghe diseva: - «Vœui no, che te vaghet fœura de la porta ti de per ti.» - «No, no, vòo apenna chì de fœura.» - E on dì, cerchen la tosa de chì, cerchen de lì, poden mai trovalla. Ven la sira, sta tosetta la ven minga a cà. La soa mamma la manda attorno, dappertutt, per cercalla, e nissun le trœuva. La soa mamma, la mattinna, la va in strada; e tutt quij, che la incontra, la ghe dimanda, se aveven veduu ona tosetta. E ona donna, la ghe dis: - «Sì, l'ho veduda mi, che l'andava denter de quij restej, là, indove gh'è quel giardin.» - Allora lee, la mamma, la corr e la va denter in sto giardin; la gira dappertutt e la pò trovà nissun. Gh'era on bel palazz, di magnifich sâl, tanti corridor. In fin la incontra on scimbiott gross e la ghe dis: - «Voj ti! Ier è vegnùu chì la mia tosa, denter chì in sto giardin. Dimm in dove l'è; o se de no, mi te dòo fœugh al to palazz.» - E lu, el resta là; e el ghe fa segn, che lu, el sa nient. E lee, la ghe torna a dì: - «Damm la mia tosa; se no, mi te mazzi.» - Lu, el ghe fa segn de spettà; e lee, la ghe dis: - «Se te vegnet no, guarda, che mi ghe dòo el fœugh a la toa casa.» - Finalmente el ven, el ghe fa segn de andagh adrèe a lu. Lee, la ghe va adree; la ved, che el va in giardin; e là, gh'era tanti scepp de rôs, tanti piant d'ogni qualitàa. E la ved, che el gh'aveva in man ona verga. El va là, el tocca on scepp de sti rôs, e ven fœura la soa tosa de lee. E lee allora la dis: - «Tocca anca quell scepp lì» - E l'andava adrèe a vun a vun a faghi toccà tutt: - «se no, te mazzi e te doo el fœugh al palazz.» - El fatt l'è, ch'hin vegnuu fœura ona gran quantità de mas'cett, de tosannett: eren tutt incantàa, deventaven tutt de sti scepp de rôs. E lee, la ghe diseva: - «De chi l'è, che sìi vialter?» - E allora tutti ghe diseven: - «Sêmm del tal, sêmm del tal alter.» - E, sti fiœu, i ha mandàa tutti a i so famigli. E l'era sto scimbiott, che fava raccolta de fiœu e fava diventà tutti in rôs.
[5] Nel XII canto dell'Adone, Venere, pregando il giovane di allontanarsi per iscansar l'ira di Marte, gli dona un anello potente contra ogni incanto.
Di più la gemma, ch'è legata in esso,
È d'un diamante prezioso e fino;
Quasi piccolo specchio, ivi commesso
Fu da Mercurio, artefice divino.
Qualor colà fia, che t'affisi, espresso
Il mio volto vedrai come vicino;
Saprai come mi porto o con cui sono,
Dove sto, ciò che fo, ciò che ragiono.
Non è picciol conforto al mal, che sente
De l'amata bellezza un cor lontano,
Avere almen l'immagine presente,
Ch'Amor scolpita in esso ha di sua mano.
Qui vo pregarti a rimirar sovente,
Che non vi mirerai, credimi, invano.
Qui meco ognor, ne' duri esìli tuoi,
E consigliare e consolar ti puoi.
Vedi la decima delle note apposte più su alla fiaba intitolata l'Uccellino, che parla.
[6] Pomarance è un paese di Toscana: Celio Malespini parla molto di un improvvisatore e cortigiano di quel luogo. Fu anche, se non erro, patria d'un pittore piuttosto celebre. Qui però, Re delle Pomarance dev'essere uno scambio pel solito Re di Portogallo. Ne' dialetti meridionali, le melarance dolci si addimandano portogalli, le amare cetrangole, quindi si spiega agevolmente lo equivoco.
[7] Da questo punto in poi la nostra fiaba di Zelinda e il Mostro comincia ad aver somiglianza non più tanto con la favola di Psiche, anzi con un'altra tradizione popolare, della quale ecco una lezione milanese:
Ona151 volta152 gh'era on pover-òmm. El gh'aveva trèdes fiœu, e el saveva minga come fa per dagh de mangià. On dì, el ghe dis a sti fiœu: - «Andèm in campagna, in d'on quaj sit, a vedè, se podem trovà quajghedun153 de podè damm on poo de pan, on quajcoss154 de podè mangià.» - Reussissen a vess in d'ona campagna: là, gh'è on sit cont155 ona córt, e van denter. Gh'e là ona donna; e el Tredesìn el ghe dis, se la gh'aveva de dagh quajcoss, ch'el gh'aveva tredes fiœu. E lee la ghe dis: - «Pover-òmm, adess, me rincress, poss dav nient, perchè bisogna, che ve sconda; perchè, se ven a cà el me marì, che l'è el mago156, l'è bon de mèttes adrée à mangià i voster fiœu. Donca, prima besogna, che ve metta in cantinna; e che daga de mangià a lu. E pœu dopo gh'el diròo, che157 ve faròo vegnì de sora e ghe daroo de mangià anca ai voster fiœu.» - Difatti, el mago, el ven a cà. El ven a cà e el dis: - «Truss trusc158, odor de cristianusc159.» - «Tœu el mangià, perchè chi gh'è nissun de mangià.» - Quand l'ha avùu ben mangiàa, lée la ghe dis allora160: - «Sì caro ti; hoo scondùu in cantinna on pover-òmm con trèdes fiœu. Te vedet, di fiœu ghe n'emm anca nun. Sicchè, te vedet, donca, besogna dagh de mangià a quij pover fiœu lì.» - S'ciao, je fa vegnì de sora, e ghe dan de mangià a sti fiœu. E lu, el dis: - «Ben, adess, metti a dormì tucc. E mettegh in còo, ai noster de nun, la barretta bianca; e ai só de lu, ona scuffia rossa.» - E s'ciao, vann à dormì. Lu, el Tredesein, el lassa indormentà tutt i fiœu; e pœu adasi adasi el va, el ghe tira via la scuffia di so fiœu161 e ghe l'ha missa in testa a i fiœu del mago; e quella, che gh'aveva i fiœu del mago, ghe l'ha missa in testa a i so de lu. E lu, el mago, la mattinna el se desseda, el leva sû, el va, el ciappa tutt quij della scuffia rossa e je mazza tucc e pœu via el va. E allora el Tredesìn, che stava lì a guardà, che lu, el se l'è immaginàa, che ghe stava denter quajcoss, che lu (el mago) el voreva fa quel tradiment, el ciappa i sò fiœu, je fa vestì e pœu via el scappa. La mièe del mago, la va per fa levà su i sò fiœu, la je trœuva, ch'eren tutti mazzàa. Ven a cà el mago; la ghe dis: - «Cosse t'hé fàa, ti? t'hé mazzàa tutti i noster fiœu.» - Allora el mago el dis: - «Ah quel baloss162 de quel Tredesìn! l'ha capíi, che mi voreva mazzàgh i fiœu! e lu, l'ha scambiàa i scuffi e mi ho mazzáa i mè.» - S'ciao, el Tredesìn, el va, el saveva minga come podè fa per viv con tutti sti fiœu. Ven, che on servitor del Re l'ha sentùu sta robba, che era success de sto Tredesìn; e lu ghe le conta al Re, per vedè s'el podeva dagh quaijcossa a sto pover-òmm, ch'el podeva minga mantegnì i so fiœu. E lu, el Re, el dìs: - «Sent, digh inscì: se l'è bon de andà là del mago a robà quel pappagall, ch'el gh'ha lu, che mi ghe darò ona gran sòmma.» - E lu, el Tredeseìn, el dis: - «Ma com'hoo de falla mì? Basta, provaròo d'andà là, quand el gh'è minga in càsa lu, che forsi con soa mièe poderoo robaghel.» - Difatti, el va; la gh'era, lee. L'eva lì cont in man el pappagall per portaghel via, quand càpita el mago. El mago, el ghe dis: - «Ah, te set chì adess? Te ne m'hê fàa già vœunna; adess te see chì per famm quella di dò163.» - El l'ha ligàa, e pœu el dis a la soa mièe: - «Guarda chì, adess andaròo a tœu l'acqua rasa, che vœuj dagh el fœugh. Ti intrettant ciappa sto bell legn chì, e la folc; e s'cèppa sto legn. Che inscì, quand vegni a cà, metti su quij legn lì e l'acqua rasa e el brusi.» - Lee, sta povera donna, la ghe dava per s'ceppà sto legn; ma la stentava a s'ceppall, perchè l'era tant dur. El Tredesìn, allora, el ghe dis: - «Povera donna, deslighem on moment e tel s'ceppi mì; e s'ciao! dopo, te tornet a ligamm, e inscì el tò marì el ven a ca e el trœuva bell'e s'ceppàa la legna.» - Lee, le disliga; e lu, appena desligàa, corr, va a tœu el pappagall e via el scappa. Ven a casa el mago per dagh el fœugh, el trœuva, che gh'è pu nè el Tredesìn, nè pappagall. Allora, el se mett a batt la mièe, perchè l'ha desligàa e l'ha lassàa andà via; e el fa ona barruffa del diavol. Intrattant, lu, el Tredesìn, el va a portagh el sò pappagall al Re. El Re, el ghe dà on gran bell regal, che l'era content comè164. El dis: - «Adess, te devet famen on alter. Mi desideri, che te vaghet là a robagh quella coverta, che lu el gh'ha in sul lett, che l'è tutta pienna de campanitt165.» - «Cara lu, com'hoo de fà mì, a andà a tœu ona coverta, tutta pienna de campanitt?» - «E pur, te devet fa el possibel166 de andalla a tœu.» - Tredesìn, el va. El va là intrettant, che soa mièe (del Mago) l'era de bass a fà i sò robb; e lu, el va de sora adasi adasi cont del bombas; e l'è stàa là a imbottì tutt sti campanitt per non fà, che sonassen; e pœu el s'è scondùu167. A la sîra, el mago, el va in lett; lu, el Tredesìn, el le lassa indormentà ben ben; e pœu el comincia a poch a poch a tirà in giò, a tirà in giò. Lu, el mago, el se desseda168; el dis: - «Cosse l'è169 inscì, che sent la coverta a tirà giò?» - E lu, el Tredesìn, el fa: - «Gnau, gnau!» - el fa mostra de vess on gatt. El le lassa indormentà ben ben e pœu a poch a poch l'è reussì a tiraghela giò. E pœu via l'è andàa con la soa coverta. El mago, la mattinna, el cerca la coverta e la trœuva no, el la trœuva in nissun sit. Cerca e cerca, no gh'è vers de trovalla in nissun sit: - «Ah, quel balòss de quel Tredesìn, ch'el m'ha fàa quella di trè170. S'el me po reussì a vegnì in man.... domà, che poda reussì a aveghel in di man, mi già el mazzi, perchè el me n'ha faa tropp.» - Lu, el Tredesìn, el va del Re. El Re, el ghe dis: - «Bravo, ma te see propi bravo, te ghe see reussì. Adess te do ona gran somma, che pœu ti te staree ben. Adess te devet famen on'altra: allora te set on sciòr171. T'hê de famen on'altra, e allore te deventet on scior. Te devet fà in manera, de consegnamm a mi el mago.» - «Com'hoo mai de fà? Ch'el mago adess, s'el me ciappa, el me mazza! Basta, faroo de tutt, per fagh anca questa.» - El pensa, el se vestiss172 tutt divers de quell del sò sòlit173, el mett ona barba finta e pœu el va là. El ghe dis a soa mièe - «Voj!174 gh'è minga in cà el voster marì?» - «Si, ch'el gh'è; adess vòo a ciamall subet.» - E el Tredesìn, el ghe dis: - «Mi sont vegnùu chì de lu, perchè gh'hoo bisogn on piasè175. L'ha de savé, che mi hoo mazzàa vun, che ghe disen el Tredesìn, e hoo de fagh la cassa e gh'hòo minga de ass176 de faghela. Sont vegnùu de lu a vedè, s'el vœur mingà damm di ass.» - El mago, el dis: - «Bravo, t'hè fàa ben de mazzall: te doo subet i ass. Ven chì, ven chì! Te juttaròo177 anca mi a falla, la cassa, per mett denter quel birbòn. Va là!...» - El ghe da di ass; e lu, el s'è miss adree, el Tredesìn, a fà la cassa. E lu, el mago, l'è semper stàa lí a guardagh adoss. L'ha preparada in manera de vess pront a podella sarà178. Quand l'ha finida: - «Adess mo sont infesciàa179, perchè sòo minga la grandezza, per vedè se l'andarà ben. Me par, ch'el sia grand compagn de lu180, el Tredesìn. Ch'el prœuva on poo a andà denter lu, che inscì vedaroo, perchè l'è grand come lu. Se la ghe va ben a lu, l'andarà ben anca al Tredesìn.» - «Ben, spetta, adess vòo denter subet. Guarda, guarda, se la va ben.» - Quand l'è stàa denter, el Tredesìn, el mett su el coverc181, e tich tach in d'on moment l'è stàa piccada giò182 la cassa. Però, el gh'aveva faa di bus183 in de la cassa per podè fiadà, perchè lu l'aveva de consegnall viv al Re. El gh'aveva visin di sò amis, per juttall a portà sta cassa. Lór hin184 stàa là pront; e hin andàa e l'han portada là a la cort del Re. Ghe l'han consegnada al Re: e el Re, l'è stàa tutt content a vedè, che l'è reussìi a consegnagh el mago bell e viv. El gh'ha daa ona gran somma, che l'è stada assèe de fà el scior per tutt el temp de la soa vita.»
[8] Sarebbe stato più proprio il dire dello starnazzare e dello scalpitare; ma qui le membra vengono adoperate invece de' romori, che si formano con esse.
[9] Cf. con la fiaba I di questa raccolta, intitolata l'Orco. Anche lì l'anima dell'Orco protagonista è in un guscio d'uovo, che la beneficata da lui si fa mostrare con lusinghe e schiaccia con astuzia. Appo la Gonzenbach, nella fiaba Vom Joseph, der auszog sein Glück zu suchen, bisogna ammazzare un drago setticipite; spaccargli la settima testa, dalla quale vola via un corvo; pigliar questo prontamente, ucciderlo, e cavarne l'uovo, che ha in corpo, e colpire con quest'uovo il gigante giusto in mezzo la fronte: allora il gigante muore. Vedi anche in un'altra185 fiaba appo la stessa raccoglitrice (Die Geschichte von dem Kaufmannssohne Peppino) un tratto analogo. In un conto pomiglianese (Viola) l'Orco dice: - «Pe' mm'accirere a mme, ss'ha da ì' a tale e a tale parte. Llà nce stà 'nu puorcospino. Chillo, quanno stà cu' l'uocchie apierte, dorme; e quanno sta cu' l'uocchie 'nghiuse, sta 'scetate. E quanno rorme ss'accire; sse piglia chill'uovo che tene 'nguorpo, mme sse sbatte 'nfronte, e i' moro.» - Di questi incantesimi riposti in un uovo, mi piace accennar qui ancora quello, che si legge nella Leggenda di Virgilio Mago. (Vedi: Antiche Leggende e Tradizioni, che illustrano la Divina Commedia, precedute da alcune osservazioni di P. Villari. Pisa, tipografia Nistri, 1865): - «Era nel tempo de Vergilio preditto, edificato uno castello dintro mari, sopra uno scoglio propinquo a la cità de Napoli, lo quale oge appare et ei chiamato castello marino o vero de mari. In de la opera del quale castello, Virgilio delettandosi, con soi arti consacrao uno ovo, lo primo che fece una gallina, lo quale ovo pose dintro una carrafa, per lo più stretto forame de la carrafa preditta, la quale carrafa la pose dintro a una cabia, dintro a una piccola camera, sotto lo preditto castello alogare fece. La quale camera secreta e ben rechiusa, con gran sollicitudine et diligencia guardata fo, et da quello lo ditto castello pigliò lo nomo: imperciò che al presente èi chiamato castello dell'Ovo, che primo chiamato era castello de mari, como è ditto de sopra. E li antiqui Napolitani teneano claramente, che da lo preditto pendeano li fati et la fortuna de lo ditto castello, e che durare dovea tanto, quanto l'ovo se conserva sano et salvo et cusì ben guardato.» -
Quand i nost vicciurritt e fiaccaree
Menen intorna on Milanes a spass,
Ghe diraven, a chi gh'el domandass,
Che menem in caroccia on Forestee.
Quand i nost sciori inviden on vivee
Di sò amis Milanes a refisiass,
Hin solet digh al cœugh, de regolass,
Che gh'han di Forestee, tant che sia assee;
E lu, ch'el stà chi inscì a s'ceppà i radis,
L'ha el coragg de stampann in sul muson,
Che in Milan Forestee el vœur dì nemis?
Ah! on'altra vœulta innanz trà lì secch secch
De stí goffad con tanta presùnzion,
Ch'el consulta el cervell, minga i busecch.
Del resto quella novella della Gonzenbach si ravvicina più al nostro Re Porco.
E pœu gh'han miss sù la saa, l'asès e l'oli d'oliva;
E la panzanega l'è bella e finida.
Stretta la foglia sia, larga la via.
Dite la vostra, che ho detta la mia;
nel quale è da notarsi, che spesso (e così l'ha scritto Nicomedo Tabacchi, ossia Domenico Batacchi, nel canto IX del Zibaldone) il primo verso suona:
Il fosso sta fra il campo e fra la via;
e talvolta semplicemente:
Fra quelle due castella il fiume corre:
L'arco del ponte sopra lui voltava.
E d'ogni lato aveva un'alta torre:
Nel mezzo d'essa Balisarda stava.
Alla persona sua non puossi apporre,
E meno al guarnimento, che l'armava.
Gigante non fu mai di miglior taglia,
Di piastre tutto coperto e di maglia.