Vamba
Ciondolino
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SECONDO VOLUME

XXXII. I misteri che si ascondono nel bocciolo di una rosa.

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XXXII. I misteri che si ascondono nel bocciolo di una rosa.

 

Bisogna convenire di una cosa.

Se Ciondolino primo, imperatore delle formiche fusche in particolare, e pretendente al dominio di tutte le formiche in generale, non aveva potuto conseguire il suo scopo ambizioso, non mancava per questo di una intelligenza e di una prontezza di prim'ordine.

Egli, trovandosi a un tratto appiccicato sulla lingua dell'uccello, chiuso nel becco di questo terribile devastatore di formicai, ebbe un'idea luminosa.

Si rannicchiò quanto più poté dentro la sua corazza in modo che il mostro sentendosi nel becco un seme di canapa, si affrettò a sputarlo senza sospettare che contenesse una formica, e si contentò di tre vittime invece di quattro.

Gigino cascò in terra, e questa volta benedisse la sua caduta.

Egli vide il Torcicollo volar via dimenando la testa com'è suo costume, ed esclamò in tono tragico:

- Vile sterminatore del nostro popolo generoso, possano quelle tre povere formiche gialle rimanerti indigeste per tutta la vita! -

Quindi si volse intorno a sé stesso e dette un'occhiata in giro per orientarsi.

Dov'era? sapeva che non doveva trovarsi molto distante dal villaggio delle formiche messicane; sapeva che queste non dovevano abitare molto lontano dalla quercia ondulata che serviva loro per la raccolta di miele; e sapeva anche che la quercia ondulata era vicina alla sua villa, dalla quale era stato rapito così bruscamente e alla quale desiderava molto di ritornare.

Ma con tutte queste bellissime cognizioni, non riusciva a scoprire da che parte doveva dirigersi per arrivare al suo scopo.

Così Gigino camminava a caso un po' in qua e un po' in , quando, giunto sotto un'alta pianta di rose selvatiche, pensò di salirvi sopra, sperando, da una posizione elevata, di potersi raccapezzare.

Egli saliva, saliva, dando ogni tanto uno sguardo attorno, senza giungere a scoprir nulla: arrivò così alla rosa più alta del rosaio, sulle cui foglie si fermò, vinto da un dolcissimo profumo, che gli penetrava nell'anima come un conforto.

- Che odore delizioso! -

Improvvisamente la sua attenzione fu attratta da una scena interessantissima che avveniva all'interno della rosa, dove una magnifica ape, mentr'egli si abbandonava alla sua beatitudine, stava lavorando con vero fervore.

Essa leccava con una grande voluttà i pètali del fiore, ficcando la testa giù nel calice profumato, poi ne raccoglieva il polline, ronzando ogni tanto allegramente questo ritornello:

- ZON, ZON... ti porto i baci

 Del fiore a te fedele;

 ZON ZON... Dammi il tuo miele.

 Dice che tu gli piaci

 E che piacerti spera.

 ZON, ZON... Dammi la cera. -

A questa lieta canzone pareva che la rosa fremesse tutta di tenerezza e porgesse quasi con trasporto i suoi pètali all'industre insetto dorato.

Quando questo ebbe fatto una bella provvista, risalì dal calice, e fermatosi in cima al fiore si dedicò con la massima cura a un'operazione che empì di maraviglia la formica spettatrice.

L'ape con una sveltezza straordinaria toglieva con le prime due gambe il pòlline raccolto tra i fitti peli del corpo, lo passava quindi nelle due gambe di mezzo e da queste infine lo ammassava tutto sulle gambe di dietro, due gambe che erano un vero miracolo di costruzione, tutte pelose, munite in fondo di una specie di piccola pala, create apposta, insomma, per ammucchiare e trasportare tutta la raccolta di pòlline fatta dal grazioso animaletto.

Gigino, pieno di ammirazione, non poté a meno di esclamare:

- Ma sa che lei, signora ape, ha due gambe maravigliose? -

L'ape si volse bruscamente e, scorgendo la formica, disse con alterigia:

- Che cosa fai tu qui? -

A questa scappata Gigino sentì ribollirsi un po' il sangue, e lasciando da parte i complimenti, rispose secco secco:

- Io fo quel che mi pare. E tu?

- Io - rispose l'ape alteramente - fo qualche cosa di più: fo il mio dovere. E mi maraviglio molto che una formica ardisca di profanare i fiori che sono il nostro regno. -

Gigino, a tali parole, non poté più stare alle mosse e incominciò a gridare stizzito:

- Il tuo regno? O sta' a vedere, ora, che vorrai proibire a tutti gli altri insetti di venire a odorare le rose! Profanare i fiori?... Questa poi è bellina davvero! Come! Io me ne sto qui, senza dar noia a nessuno e profano i fiori! E tu? Tu che vieni qui per leccare, succhiare e portar via tutta la roba che hai in corpo e riunita sulle gambe di dietro, che cosa fai, di grazia? -

L'ape, durante questa sfuriata, aveva tirato fuori parecchie volte il suo pungiglione dando dei segni poco rassicuranti: ma, alla fine, parve decisa a rintuzzare la sua collera e si contentò di osservare semplicemente:

- Non ho mai trovato, in tutta la mia vita, una formica grulla come te. -

E prima che il nostro amico avesse tempo di risponderle, riprese:

- È inutile chiacchierare, te lo dimostro subito. Lo sai veramente, tu, che cosa è un fiore? La conosci la sua vita intima? Lo sai che esso respira, dorme, soffre, gioisce, ama, vive come noi? -

Gigino, veramente, nella sua vita di formica aveva scoperto qualche cosa che nella sua vita di bambino non aveva mai osservato: certi fremiti delle erbe sulle quali passava, certi indizi non visibili agli occhi di un uomo abituati alle cose grandi, ma visibili agli occhi di un insetto avvezzi alle cose infinitamente piccine, lo avevano sorpreso.

Ma con le piante aveva avuto poco che fare, e non aveva badato tanto per il sottile a quelle manifestazioni di vita che esse gli avevano dato: onde le parole dell'ape furono per lui una rivelazione.

- Lo vedi? - rispose questa - tu resti più grullo di prima. Tu non sai che, come li hai avuti tu, anche i fiori hanno il loro babbo e la loro mamma, e che questi fiori babbi e questi fiori mamme si vogliono bene e vogliono dar vita a tanti fiori figliuoli, belli e odorosi come loro. Ma i fiori stanno fermi, si amano, vorrebbero dirsi tante belle cose, ma non possono. Chi porta dall'uno all'altro gli amorosi pensieri fatti di profumo e le dolci ambasciate fatte di nèttare e i castissimi baci fatti di pòlline? Siamo noi insetti alati, siamo noi api, che li conosciamo tutti, che sappiamo tutti i loro segreti, che facciamo volentieri da messaggere tra i fiori innamorati. Ed essi, felici, in cambio di questo amichevole servigio, ci aprono i loro calici, ci accolgono nel loro seno, ci dànno il loro miele e la loro cera che noi portiamo alla nostra famiglia. -

E l'ape si mise a ronzare daccapo il suo ritornello, mentre la rosa pareva fremere di piacere:

- ZON, ZON... ti porto i baci

 Del fiore a te fedele;

 ZON ZON... Dammi il tuo miele.

 Dice che tu gli piaci

 E che piacerti spera.

 ZON, ZON... Dammi la cera. -

 

 

 


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