Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
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56. IV Elegia campestre

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56. IV
Elegia campestre

[DA A. TIBULLO]

Altri dovizie immense con l’oro flavente s’ammassi,

e campi innumeri tenga solcati a ’l sole:

a lui tormenti l’alma terror de ’l vicino nemico;

squilli di marzie tube rompano i sonni a lui.

Purché di tenue vampa mi brillil domestico lare,

me a queta vita la povertà conduca.

Oh alfine, alfine io posso viver contento de ’l poco,

dato sempre a ’l vïaggiar sì lungo;

ma sotto l’ombre verdi sfuggendo a gli estivi calori,

ma presso un rivo d’acque leni-fluenti via.

Non pur talora mi spiaccia tenere il bidente

o con lo stimolo spingere i tardi bovi;

non mi rincresca l’agnella ed il parto sperduto

di madre immemore pur ricondurre a casa,

e a ’l tenue gregge voi, ladri, voi, lupi, indulgete:

da grossa mandra giusto è carpir la preda.

Qual villico industre, le tenere viti ed i pomi

pianterò io stesso ne la stagion matura.

Né la Speme fallisca, ma sempre gran copia di frutti

ne conceda, e di pingui mosti ricolmo il tino.

Perché io la venero, e il ceppo negletto ne’ campi

e l’erma ne ’l trivio di grati fiori onoro.

O bionda Cerere, a te da le nostre campagne

di spiche un serto fuori de ’l tempio penda;

custode rubente, ne gli ùberi orti s’innalzi

Prïàpo co’ la falce ad atterrir gli uccelli;

e tutti i doni che l’anno novello m’edùca,

gustati, io li pongonanzi a ’l campestre Nume.

Voi pure, un tempo di campo felici custodi,

voi pur recate i vostri doni, o Lari.

Allora una vitella lustrava infiniti giovenchi:

ora un’agna è vittima grande pel picciol suolo.

Per voi cadrà un’agna; e intorno la rustica gente,

Oh viva! — acclami. — Mèssi e buon vino date! —

Io qui col mio pastore purifico ogni anno i maggesi,

sparger di latte io soglio la veneranda Pale.

Deh! assistete, o Iddii, né i doni di povera mensa,

né gli umili vasi, propizii Iddii, spregiate!…

Il vecchio villano pel primo le tazze ed i vasi

da facile argilla pur lavorando trasse.

Non io le dovizie de ’padri, ed i frutti vi chiedo,

i frutti che la mèsse recava a l’antico avo.

Tenue mèsse a me basta; mi basta posare su ’l letto

e ristorar le membra su ’l consueto toro.

Oh com’è dolce udire i fischi de’ vènti giacendo,

e stringere la bella teneramente a ’l seno,

o, quando l’Austro porta d’inverno le gelide pioggie,

a crosci monotoni dolci sonni dormire!…

Questo a me caglia: sia ricco a ragione colui

che le furie de ’l mare soffre e gli orrendi nembi.

Piuttosto tutti gli ori periscano e tutte le gemme

che me lontano qualche fanciulla pianga.

S’addice a te, Messala, per terra e per mare far guerre

perché la magion tua s’orni di spoglie ostili.

Me tengono avvinti i lacci di bella fanciulla,

e siedo, qual portiere, ’nanzi le porte dure.

Non io la lode curo, mia Delia: mentre son teco

mi chiamin pur codardo, pigro mi dican pure.

Deh! ch’io te veda ne l’ultimo istante di vita,

te ch’io morendo stringa con la languente mano!…

Tu piangerai; e a me steso in funebre rogo

misti a tristi lagrime darai gli estremi baci.

Sì, piangerai: non sono di ferro cerchiati i precordii,

ne ’l tenero cuore non v’ha la selce dura.

Da quell’esequie non giovin, non vergine pia

potrà col ciglio asciutto a la magion redire.

Rispetta i Mani allora; ma indulgi a ’l tuo crine disciolto,

a le tenere gote, o Delia bella, indulgi!…

Mesciam gli amori intanto, finché ce ’l permettano i fati;

avvolta di tenebra presto verrà la Morte;

presto verrà Vecchiezza, né i fervidi incendii d’amore

né le molli lusinghe saran d’un bianco crine.

Or Venere imperi su noi co’ suoi risi lucenti,

ora che a romper usci ed a rissar siam pronti.

Qui io soldato e duce!… Voi, trombe ed insegne, correte

lungi, a gli avidi uomini, su, portate ferite,

ricchezze portate. Io lieto d’un umile gruzzo

disprezzerò i ricchi, disprezzerò la fame.



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