Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Primo vere
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59. VII A Torquato

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59. VII
A Torquato

[DA ORAZIO]

Fuggiron le nevi: già l’erbe rïedono a i prati

e a gli alberi le chiome;

cangia tenor la terra, e i fiumi dimessi ne’ letti

placidi fluiscono.

La Grazia con le ninfe e le due sorelle osa ignuda

guidare a danza i cori…

Non sperar cose eterne: l’annata e il almo t’avverte

cui l’ore rapiscono.

Dómano l’aure il Verno; abbatte la State il bel Maggio,

arde, e languida cede

a ’l pomifero Autunno spargente da ’l corno i bei frutti;

poi la bruma ripiomba.

Le celeri lune riparano a’ danni de ’l cielo;

ma noi po’ che cademmo

dove il buon padre Enea, dove l’aureo Tullo, dove Anco,

noi siam ombra e polvere.

Chi sa se i Superi aggiungano un giorno di vita

a quei che contiam oggi?…

Tutto fia salvo da l’avida man de l’erede

quel che doni a’ gaudii.

Quando la Morte nera ti tocchi, e sentenza solenne

Minosse pronunzii,

non pietate, o Torquato, non dolce facondia, non stirpe

te strapperà a l’Erebo.

Cintia intanto a l’atre paludi ritoglie

il pudico Ippolito;

forte è Teseo a infrangere i ceppi infernali

pel caro Pirìtoo.



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