Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Canto novo
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Canto novo

Canto del sole

III4.

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III4.

O libri, il sole classicoApolline

Febo — un sorriso innumerevole

diffonde su l’acque, e m’accende

una fiamma di gioia nel cuore.

Addio, di libri varie lunghissime

coorti! addio, oscuro esercito

di libri ne l’algide notti

popolanti di larve la stanza!

Paternamente auspice Orazio

con noi vegliava; ma non un’anfora

di cecubo vecchio ne infuse

vigor novo di dattili al verso.

Su da la tazza spandeva l’indica

bevanda effluvi: le strofi saffiche

in murmure grave ed eguale

ondeggiavano come le frondi,

lente di sogni a la stanca anima

suaditrici… Oh come Lilia

marmorea splendea ne la fredda

purità de’ grandi occhi stellanti!

come da un freddo serto di lauri

la fronte china sentìami attorcere!

Chi venne, o volumi, chi venne

a turbar le vigilie pacate?

Venne una bianca figlia di Fiesole,

alta e sottile, qual già gli artefici

la sculsero in dolci alabastri

e la pinsero in tavole d’oro.

Venne, e di strani legami d’edera

ella, de’ lunghi capelli avvinsemi;

tremando la bocca mi porse

ove bevvi un licore vitale

che ora per ogni vena mi circola,

come la linfa nova ne l’arbore,

così ch’io mi credo per ogni

vena tutto dal cor rifiorire.

Da l’imo core mi rigermogliano

impazienti le strofe. Oh limpida

ebrezza diffusa pecieli

ove il sogno di Dante s’aperse!

Puri ne l’albe i sogni erravano

di Beatrice; l’èsili vergini

di Frate Giovanni e di Mino

sorridevan ne’ vesperi biondi;

talor com’echi si ridestavano

la ballatella di Guido, il languido

sonetto di Cino, l’ottava

melodiosa del Poliziano.

«Io guardo» forse gemea ne l’aure

quel di Pistoia gentile spirito

«io guardo» gemea «per li prati

ogni fior bianco per rimembranza…»

Chiara e silente l’acqua de l’Affrico

tra l’erba nova scorrea: le vetrici

sottili su gli argini verdi

senza un susurro tremule, in fila;

senza una voce in fila tremuli

i pioppi al cielo di perla ergeano

i rami, alte verghe d’argento

su cui brillavan smeraldi vivi.

E noi passammo per man tenendoci

su l’erba nova, lungh’essi gli argini

solinghi; il bel colle salimmo,

e c’indugiammo nei noti luoghi.

Oh dolce sosta tra i cinerei

olivi! Un vento spirava tepido,

ma lungi apparivan nevate

le prime vette del Casentino.

La città bella in sua mirabile

conca splendeva come in un calice

profondo una gemma; e a’ nostri occhi

la sua bellezza parve un segreto

quando da l’ombra come da un talamo

la rimirammo inconsapevoli

con occhi velati dal lungo

languor de’ baci, dal lento oblìo.

Baci ora ardenti ne la memoria!

Pur (ti sovviene?) faceano i passeri

un lieto presagio, a Montughi,

in su’ cipressi co’ lor clamori.

Ed augurando non accennavano

i pioppi verso di me su ’l rapido

convoglio fuggente ad occaso

la verdissima terra toscana?

Ma quando, pioppi tremuli, arridere

quando vedrete tra ’l vel cinereo

del fumo il bel volto di lei

viaggiante al mio cielo sannite?

Allor su l’alta mia prua ne’ vesperi

splenderà ella simile a un’aurea

Speranza, e le rosse mie vele

saran gonfie di gioia su ’l mare.

Allor con ala più salda e libera

le strofe, erotte su da’ precordii,

allor cogabbiani selvaggi

voleranno pel mare pel mare.


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