Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
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• 8 settembre 1908. Natività di Nostra Donna. – Martedì.

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8 settembre 1908. Natività di Nostra Donna. – Martedì.

Scrivo per veder chiaro in me e intorno a me. Sembra che il sole si sia oscurato e che la mia notte insonne continui senza fine. Accendo una lampada perché io vegga, perché i tuoi cari occhi veggano quando si risveglieranno. Ti rimanga almeno la testimonianza del mio amore vigilante e fedele. Se tu sei senza riposo, io sono senza riposo. Non ho dato tregua neppure per un attimo al mio dolore irrequieto. Respiro la tua follìa: la mia anima è dilatata nel terrore come i tuoi occhi; guarda il buio, teme i fantasmi e le macchie.

Dianzi il dottore con brevi parole crude ha creato dentro di me il tuo viso nuovo, il tuo viso consunto e convulso, pallido e livido, e le tue labbra disseccate e le tue gengive sanguinanti.

Ah, perché le mie braccia non furono per te una cintura di ferro e di diamante, l'altra sera, la sera di sabato, quando ti assopisti; e perché non si chiusero, e perché non ti ritennero, e perché non ti nascosero e ti difesero contro l'agguato della sorte – che si preparava?

Te ne ricordi? No, tu non ti ricordi più di nessuna cosa dolce. Respiri nell'aridità.

Venisti verso sera. Sembravi meno agitata. Il tuo piccolo viso dimagrito doleva a me, nel mio petto, come una piaga profonda. Sentivo l'amore ardere e spegnersi in te, a volta a volta, riardere e rispegnersi; come una fiamma sotto un vento nemico. Ti spiavo dissimulando l'angoscia. Eri sospettosa. Talvolta guardavi intorno come stupefatta. Nulla intorno era mutato. Avevo ornato la casa di fiori, se bene già il rombo degli eventi oscuri empisse le stanze voluttuose. Avevo obbedito alla mia superstizione d'amante... Ah, non te ne ricorderai quando sarai risvegliata?

Non un sol giorno, in quasi due anni di passione e di piacere, non un solo dei nostri giorni fu senza fiori e senza eleganza e senza bellezza. Quando arrivasti per la prima volta laggiù, nel rifugio che fu chiamato il piccolo giardino, le rose e le violette facevano un profumo ch'era misurato dal tuo pallore e dal tuo languore. Quando arrivasti per l'ultima volta qui, nel rifugio che fu chiamato il chiostro verde, le rose e le tuberose dicevano quel che tu sapevi: la potenza intatta del mio amore e del mio desiderio, la persistenza del mio sogno e della mia poesia.

Perché non cacciasti da te i rimorsi vani, i rimpianti tardivi, le paure puerili, e non ti abbandonasti interamente alla passione cieca e trionfale che sola poteva salvarti trascinandoti di da tutte le cose piccole e vili?

Com'eri stanca! Mangiavi interrottamente, qualche volta con una voracità subitanea, qualche volta con una ripugnanza penosa. Eri estenuata e smorta. Avevi su la fronte una scalfittura rossa; un'altra scalfittura sul collo, sotto l'orecchio destro; il naso affilato, la bocca arsiccia, il mento più esile che mai. Ti guardavo, non so perché, con un'attenzione infaticabile.

Dicevi, di tratto in tratto: «Stasera bisogna che vada via presto. Bisogna che rientri presto a casa. Potrei rimaner chiusa fuori. Oggi è sabato. Non avrei dovuto uscire. Troverò chiusa la porta. Rimarrò su la strada. Non mi lasceranno più rientrare. Certo mi spiano. Certo ora sanno che io son qui. Non farò più in tempo. Mi lasceranno fuori...»

Le tue parole divenivano a poco a poco incoerenti. La paura ti dissolveva i pensieri. Cercavo di placare la tua inquietudine irragionevole; ti pregavo di restare. Morivo di tenerezza e d'angoscia guardando il tuo piccolo viso stanco, le tue palpebre gonfie d'insonnio.

E ti dicevo: «Rimani, rimani! Riposati accanto a me. Non te n'andare. Io ti veglie. Io ti proteggerò. Ti pentirai di tutto fuorché d'esser venuta a me, liberamente, fieramente. Ti amo. Non ho nessun pensiero che non sia tuo; non ho nel sangue nessun desiderio che non sia per te. Lo sai. Non vedo nella mia vita altra compagna. Non vedo altra gioia. Te l'ho già detto più d'una volta, in questi giorni di tempesta: l'aiuto non ti verrà se non dal tuo amico. Rimani. Riposati. Non temere di nulla. Dormi stanotte sul mio cuore».

Pareva che tu piegassi, tanto eri stanca. Avevi un bisogno disperato di chiudere gli occhi e di obliare tutto nel sonno.

Poi ti scotevi e dicevi: «No, bisogna che io vada, bisogna che io rientri presto questa sera. Ho fatto male a uscire. Chiuderanno la porta. Mi lasceranno su la strada».

E io dicevo: «Che importa? Omai la tua casa è quella dove io vivo, è quella dove il mio amore abita. Vieni. Distenditi. Riposati».

Ti trassi nella stanza verde che sul giardino murato, in quella stanza dove ti spogliavi e dove ti rivestivi nei grandi giorni del piacere. Cadesti su i cuscini. Ti presi fra le mie braccia. T'addormentasti sotto i miei baci leggeri. Fino alla morte vedrò quel tuo viso trascolorato, sentirò nel fondo dell'anima quella dolcezza del tuo sonno che interrompeva un travaglio così crudele!

Ti risvegliasti dopo alcuni minuti, ti sollevasti, ripetesti ostinatamente: «Stasera bisogna ch'io rientri».

Pregai, supplicai; ti ripresi fra le mie braccia, ti riadagiai sul mio petto. Il sonno ti riavvolse. Avrei voluto esprimere da tutto il mio essere un potere narcotico perché tu rimanessi profondata nel sonno fino al mattino. Speravo che la mia volontà divenisse magnetica e ti vincesse. Sentivo la forza di rimanere immobile per tutta la notte a sostenerti e a vegliarti. Nessun vóto mai – te lo giuro – fu più ardente di quel vóto pel tuo sonno.

Ahimè, ti risvegliasti, ti riscotesti, ti risollevasti. Ripetesti: «Bisogna che io vada. È tardi

Non valsero le supplicazioni, non valsero le preghiere carezzevoli né le parole dure. Il pànico ti possedeva. Omai non avevi dinanzi a te se non la minaccia della porta chiusa, del lastrico brutale. L'amore t'aveva abbandonata. Soltanto l'amore poteva salvarti.

E l'ira gonfiava il mio dolore, dinanzi alla tua cecità.

Come udisti fermarsi su la via la vettura chiamata dal servo, fosti ancóra presa dall'esitazione, ondeggiasti ancóra.

«Rimango

Omai non v'era pericolo alcuno nel rimanere. Io era certo che omai nessun altro atto di ostilità e di sorpresa fosse da temere, perché omai inutile o superfluo.

«Rimango? No, vado. È meglio che vada».

L'eterno ondeggiamento ti teneva su la soglia, mentre l'uscio era già aperto.

Io non potevo più parlare, non avevo più alcuna potenza. Sentivo che non v'era più nulla di saldo in te. Sentivo che l'amore – in te – non era il più forte. Sapevo che, se ti avessi trattenuta, se ti avessi costretta, tu mi avresti rinfacciata la costrizione, ti saresti rivoltata contro di me.

Non mi avevi già rinnegato? Nella mattina di Compiobbi non m'avevi già detto che l'amore non era in te abbastanza forte per passar sopra tutto? Non m'avevi accertato, con mille segni, che il rammarico delle cose perdute sopraffaceva nel tuo cuore la fede e la tenerezza pel tuo amico? La mia porta aperta – e di che grande animo! – non t'avrebbe consolata del trovar chiusa la porta familiare di da cui erano le cose consacrate dalla legge, dal costume, dal pregiudizio e dalla consuetudine.

Allora il soffio dello spavento passò per la porta aperta dietro di te, mentre il tuo gesto disperato empiva il vano. Una tristezza di agonia strinse tutte le fibre della mia vita e le torse. Il presentimento rese lugubre la scala deserta. Tu ti volgesti, passasti la soglia, seguisti il servo che ti conduceva alla vettura.

Attimo d'ansia mortale! La porta era aperta tuttavia, e per l'andito palpitavano le ombre spaventose agitate dalla fiammella accesa in cima alla scala.

Attesa d'un attimo, lunga come un'esistenza d'affanni! Sperai che tu tornassi indietro, che tu ti pentissi, che tu finalmente gittassi nella notte il dado della tua sorte. Ahimè, ahimè, udii il passo del cavallo, il rumore della vettura che si allontanava... Tutto era perduto?

Uscii nell'andito, ma non gridai. Ero scorato. Sentivo, con una certezza terribile, che l'amore in te non poteva più rispondermi, che ogni sforzo era vano.

La scala era lugubre, silenziosa, preparata a ricevere un qualche evento atrocissimo. Ebbi un brivido lungo. Non so quanto tempo passasse.

La chiamata del telefono mi riscosse. Ancóra la tua voce, ancóra la tua perplessità, ancóra la tua anima ondeggiante e straziata.

«Vuoi che torni? Vuoi che venga?»

Eri rientrata nella tua casa dove nulla accadeva, dove tutto era immobile. Eri sola. Non uscisti, non venisti. Sapevi che, se tu fossi venuta, se tu avessi detta una parola, io non sarei partito la mattina per la mia corsa. Non parlasti più. Rimanesti quasi tutta la notte sopra una sedia, esitante, soffrendo di non esser venuta e incapace di vincere la paura folle.

Tutta la notte anch'io vegliai in un cruccio immobile, su quel gran letto verde che sa i nostri delirii e i nostri sonni, voluttuosi come gli amplessi, e i nostri risvegli balzanti di desiderio sempre novello.

Chiedevo a me stesso: «Perché?» Ripetevo l'interrogazione senza risposta, già tante volte ripetuta dinanzi alle tue ingiustizie feroci e ai tuoi mutamenti incomprensibili: «Perché? Perché?»

Perché eravamo tanto infelici, tanto miserabili, tanto disperati, mentre avremmo potuto riposarci su lo stesso guanciale stretti dal vincolo che ci era parso eterno? Nulla per noi era perduto, se l'amore era intatto.

Intatto era il mio, anzi divenuto eroico, afforzato dalle ultime prove, escito dalla notte di Giovi più ardito e più giovine, pronto a tutti i rischi, non d'altro desideroso se non di dare, di dare, di dare sempre.

Non potevo né chiudere gli occhi al sonnochiuderli alla verità orribile. La vedevo disegnata nettamente.

Nella mattina di Compiobbi tu ti disperavi di non poter recuperare la lettera lasciata per tuo marito prima di partire dai Palazzetti. In quella lettera, scritta nello sgomento, tu gli dicevi: «Mentre sto per abbandonare tutte le cose che furono un tempo la mia vita e il mio bene, sento che non ho un grande amore nel cuore. Sento, nello strappo doloroso, che il mio cuore si rivolta contro colui che è causa di questa ruina».

Forse gli dicevi anche, più crudamente (e mi parve di udirlo nella tua confessione confusa) forse gli dicevi: «Sento, ora sento che lo odio».

Mi rinnegavi, rinnegavi il tuo amore!

Nella mattina di Compiobbi la rinnegazione ti parve infame; e tu tentasti di toglierle ogni valore affermando che l'anima tua era rimasta estranea all'atto. Laggiù dinanzi a quella piccola stazione triste, sotto il sole, in mezzo alla polvere, sotto gli occhi della gente assembrata, mi gridasti: «Ti amo, ti amo, più che mai e assai più, assai più, d'un amore immenso

Come fui dolce per te, come fui fraterno!

E tu gridavi: «Meglio finire, meglio finire! Finire

Dissimulavo l'angoscia nel consolarti; perché sentivo che il tuo amore era crollato e che tu non avevi mentito nella lettera implorante ma mentivi in quel punto, a te stessa e al tuo amico, forse inconsapevolmente.

Infatti, nella stanza di quella casa sconosciuta, quando l'orgasmo cadde, quando fosti riconfortata, parlasti un altro linguaggio.

La verità era dunque fissa nella notte, davanti ai miei occhi dolenti. E la pena divenne tanto intollerabile che mi levai come vidi il primo albore alla finestra; e mi preparai rapidamente alla corsa pel bisogno di essere altrove, di fuggire i fantasmi, di respirare con violenza il mattino.

Se non fossi partito, la sorte sarebbe stata diversa?

Non so. Una fatalità inesorabile ha costretto gli eventi, in queste ultime ore; un dio malvagio li ha precipitati alla catastrofe. Io stesso ho vissuto come in un sogno ansioso, respirando a fatica sotto un'oppressione tragica.

Il viaggio fu lugubre. Le montagne erano fasciate di nuvole. Soffiava per tutto l'Appennino un vento gelido. Due volte fermai la macchina per tornare indietro. Due volte vinsi il presentimento che mi mordeva.

«Che vale? Non mi ama più, non mi ama più».

Pensavo che, nell'assenza di un giorno, tu avresti potuto guardare più intensamente dentro di te per escire alfine dalla tua incertezza affannosa. Sperai in un tuo grido di richiamo, in una resurrezione subitanea dell'amore e della speranza.

A Bologna il rumore e la vista della gente mi sbigottirono. Non feci altro che telegrafarti parole di passione e di consolazione; non feci altro che rammaricarmi, non feci altro che maledire il momento della partenza, mostrarmi impazientissimo verso le persone che avevano necessità di parlarmi, inquieto e febbrile come se tu mi avessi infuso il tuo male.

Chi ha mai posseduto una creatura umana come tu mi possedevi? Non v'era un atomo che non ti appartenesse, in tutto il mio essere.

Stentavo a udire la tua voce, a traverso il telefono, perché il rombo del mio cuore empiva la cabina ottusa. Ma odo ancóra il tuo accento, quando dicesti:

– Come sei buono, mio Gabri, mio Gabri! –

Ebbi poco dopo il telegramma, l'ultimo, che m'è caro come l'ultimo sospiro, d'una morente. Fu fatto il sei di settembre, domenica, alle ore 14,30. È segnato con la parola segreta e divina:

«Muoio di dolore e di amore. Vieni vieni vieni per pie.

Alis».

Il primo impeto fu di correre sùbito a Firenze. La macchina non era pronta: aveva un guasto al magnete. Bisognava ripararla. Dalle quattro alla sera ti mandai altri tre telegrammi, tutti di passione e di consolazione, perché tu fidassi in me, perché tu mi attendessi.

La mattina dopo, ti chiamai ancóra una volta al telefono. Un amico che mi accompagnava, Pascal, quello che tu conoscesti a Roma nei giorni vittoriosi della Nave (te ne ricordi?), si sbigottì vedendomi escire dalla cabina pallidissimo. Tutta l'anima mia tremava di terrore. Ti avevo chiesto se tu avessi ricevuto i telegrammi. Tu mi rispondesti che non li avevi letti, che li avevi strappati senza leggerli, che avevi udito nella notte una vettura passare... A traverso la distanza il soffio della follìa mi ventò sul viso e m'agghiacciò.

Ti domandai:

– Perché non li hai letti?

Rispondesti:

– Non so, non so... Ho la testa così debole! La testa mi va via...

Ti domandai:

– Per odio contro di me?

Rispondesti:

– No, no... Che ho fatto? Perché l'ho fatto? Sei stato a Roma?

Io dissi, stretto dall'orrore:

– A Roma? Non sai che sono qui? Aspettami. Parto sùbito. Non vuoi vedermi?

E tu:

– Come potrei vederti? Sono stata tanto lontana, tanto lontana... Dove sono? Non so nemmeno dove sono...

Ti chiesi:

– Sei uscita? Quando?

Rispondesti:

– No, mai. Non sono uscita mai.

Ti gridai:

Parto sùbito. Fra tre ore sono con te. –

Non udii altro, perché la comunicazione fu interrotta.

Da quel momento l'ambascia non ebbe tregua. Non respiravo più; mi pareva che non avrei potuto più respirare se non su la tua bocca riarsa dalla voce della follìa.

Sospingevo la macchina con la mia volontà protesa, su per l'erta. A ogni rallentamento mi mancava il cuore. Eravamo a pochi chilometri da Covigliaio, verso le tre. E, come nella mattina di Compiobbi, la malvagia sorte arrestò d'un tratto la corsa. Sentii che il motore non pulsava più; e mi parve che cessasse anche il mio palpito.

Eravamo fermi su la strada. Ogni tentativo fu vano. Passò per caso una vettura di posta: mi feci portare sino a Covigliaio per chiedere soccorso. Erano già le cinque; e la mia ansie cresceva intollerabilmente. Tornai indietro con un meccanico addetto all'albergo. Dopo un'ora di lavoro, la macchina ricominciò a camminare. Fatto un chilometro appena, si fermò novamente. Mi prese una disperazione frenetica.

La strada era solitaria. Il tempo era lento. Il giorno si consumava. Una grande serenità era nel cielo e su la montagna. Tutte le cime si doravano, e le ombre si facevano quasi rosee. La luna trasparente saliva nell'oro. O bellezza di settembre! Bellezza della vita! Felicità dell'estrema estate!

Tu dov'eri? Che facevi? M'aspettavi? La mia passione empiva l'universo: poteva inebriarti e inebriarmi assai più che nelle più alte ore del passato. E perché dunque il presentimento poneva in me quell'orribile tremito? Tu dov'eri?

Lo spettacolo della montagna diveniva d'attimo in attimo più dolce: aveva qualcosa di carnale, qualcosa di femineo, una mollezza di corpi ignudi in lunghe vesti diafane, forme di fuoco roseo a traverso tuniche violette e azzurrine...

Come ti dirò il volo del mio desiderio verso di te? Soffrivo della tua anima fino a quel punto; e in quel punto soffrivo della tua carne. Come nella mattina di Compiobbi, il mio più puro dolore cercava la tua bocca.

Pensavo: «Comunque, arriverò. La chiamerò. Verrà nel chiostro verde. Farò il miracolo. La strapperò a tutti i fantasmi spaventosi. La prenderò nelle mie braccia. L'addormenterò con le mie carezze. La terrò tutta la notte contro il mio petto».

Rivedevo il tuo piccolo viso di sabato, il tuo viso stanco e smorto. Riavevo nel sangue la voluttà che ti avevo chiesta sul divano e che tu mi avevi data come in sogno...

E il tempo passava, e la luce diminuiva; e gli sforzi per sanare la macchina ferita erano vanissimi.

Dov'eri tu? Mancava mezz'ora alle sette.

Dopo lo seppi. Eri su la scalinata di San Firenze, con atti e con gesti di folle: entravi nella chiesa.

Come avrei potuto giungere alla città? Omai la speranza di riattivare il motore era perduta. Stavo in ascolto, per scoprire se qualche automobile si avvicinasse, quando in fatti udii il romore singolare.

Ero salvo! Riconobbi la vettura di un amico, di Romeo Gallenga, carica di gente. Gli chiesi aiuto. Da prima il suo meccanico si unì al mio per far qualche altro tentativo. Ma, come cadeva la sera e la mia ansie era divenuta insostenibile, pregai l'amico di portarmi a Firenze comunque. Mi feci posto alla meglio; e ripartimmo lasciando su la strada la macchina ferita, con Silvio e con Edoardo ai quali promisi di mandare il soccorso da Covigliaio.

Filammo su Firenze, senza altri indugi. Faceva freddo. Eravamo tutti stretti l'un contro l'altro e silenziosi.

Non so perché sentivo che ogni minuto aveva un'importanza incalcolabile e che correvo verso un destino inevitabile. Sì, ogni minuto aveva il suo peso; e nei pressi di Pratolino ne perdemmo dieci per accendere i fanali! Quei dieci minuti di sosta mutarono la sorte. Se io fossi giunto dinanzi alla mia porta dieci minuti prima, ti avrei trovata, ti avrei difesa, ti avrei ricoverata, forse ti avrei salvata.

Erano circa le otto e mezzo quando giunsi. Come non avevo nulla con me, discesi sùbito, ringraziai, apersi l'uscio, feci per entrare; ma il domestico di Miss Blunt venne giù per le scale in atto di dirmi qualcosa. Su la soglia, a bassa voce, mi disse:

Dianzi, potevano essere circa le otto, abbiamo sentito suonare il Suo campanello e battere alla Sua porta ripetutamente. Poco dopo, un uomo è salito su per le scale e con malo modo ha incominciato a battere alla nostra porta, gridando: «Aprite! Aprite! Siamo agenti di polizia. Questa donna non appartiene a questa casa? Aprite, o gettiamo giù l'uscio». E seguitava a picchiare coi pugni e coi calci brutalmente. La signorina Blunt sbigottita non voleva che io aprissi. Allora mi sono affacciato al finestrino, e ho veduto giù per le scale appoggiata alla ringhiera una signora che m'è parso di riconoscere per quella che è solita venire qui da Lei. Un altro uomo era accanto alla signora che sembrava impietrita. Al mio diniego, la guardia insisteva. Persuaso finalmente che noi non volevamo aprire e che la signora non apparteneva alla nostra casa, egli è disceso con l'altro e ha ricominciato lo strepito qui alla Sua porta. Ho udito confusamente la signora disperarsi e dire con la voce soffocata: «Lasciatemi stare! Lasciatemi stare!» Non potevo far nulla per soccorrerla, perché Miss Blunt m'impediva di uscire. Ma, nell'affacciarmi per un attimo alla finestra, ho veduto la signora salire in una vettura pubblica che aspettava su la via e andarsene accompagnata dai due uomini seduti l'uno a fianco e l'altro di fronte. Nell'oscurità non ho potuto scorgere il numero della vettura; ma un momento prima che la signora montasse, avevo chiesto al vetturino: «Dove avete presa quella signora?» e m'è parso ch'egli m'abbia risposto: «In piazza d'Azeglio». Saranno dieci minuti, appena, che ho visto la vettura scomparire dalla parte della piazza Donatello. S'Ella fosse arrivata dieci minuti prima, l'avrebbe trovata ancóra qui! –

È vana cosa tentar di esprimere quel che accadde in me, a questo racconto. Non ti parlo dell'anima mia, ma ti parlo soltanto dei fatti esterni.

Il primo impeto fu di correre su la strada. Ma, dopo pochi passi, riconobbi l'inutilità dell'inseguimento senza tracce. Rientrai. Mi precipitai al telefono e chiesi il tuo numero. Nessuno rispondeva!

Era necessario ch'io avessi un compagno per fare più efficacemente le ricerche e per evitare lo scandalo. Se fossi andato io di persona in Questura, tutto il campo si sarebbe messo a rumore.

Il mio cervello si confondeva nelle più strane imaginazioni. Che mai poteva essere accaduto? Tuo marito aveva fatto quel che tu temevi? aveva posto due guardie in agguato, le quali ti avevano sorpresa nell'atto di entrare? Ma perché le guardie avrebbero con tanta insistenza preteso di entrare nella casa di Miss Blunt? Tuo marito conosceva benissimo che il mio appartamento era al piano terreno. In ogni modo, le guardie avrebbero dovuto attendere il mio ritorno per sorprenderci entrambi.

O forse, per qualche malvagio sopruso, la minacciata denunzia aveva ottenuto che tu fossi arrestata?

Atrocità incredibile.

O forse si trattava di un ricatto tentato da due sconosciuti che, per compierlo, simulavano di essere agenti di polizia?

E dove dunque ti portavano? Che facevano di te?

Orrore! Orrore!

Telefonai a Francesco. Per fortuna mi rispose sùbito la sua stessa voce. Indovinando la mia agitazione, venne senza indugio a raggiungermi.

Credo che il mio viso dovesse mostrare un'angoscia mortale, perché vidi in quello dell'amico al primo sguardo un grande sbigottimento.

Gli raccontai tutto, ansante.

Ora, per un caso singolarissimo, egli affacciandosi a una finestra del Palazzo Gondi, poco dopo le sei, t'aveva veduta su per la scalinata di San Firenze. Eri, in apparenza, agitatissima. Facevi gesti di esitazione, come se fossi nel dubbio di entrar nella chiesa o nella piccola porta che conduce alla cappella e all'abitazione dei sacerdoti. Finalmente eri scomparsa nella piccola porta, ed egli non ti aveva veduta più uscire.

– Bisogna trovarla! Bisogna sapere! – dicevo io disperandomi sotto i lampi sinistri di tutte le imaginazioni.

Uscimmo. Andammo verso la Questura. Io rimasi in una via prossima ad attendere, mentre Francesco entrò per fare le prime ricerche nell'ipotesi che i due uomini fossero veramente due guardie e potessero averti condotta nel luogo orrendo...

Neppure quell'attesa, nella via deserta, ove il passo di qualche uomo mi schiacciava il cuore, neppure quell'attesa mi varrà per la gloria del mio amore?

Francesco tornò. La Questura ignorava tutto. Nessun ordine era stato dato. Nessun rapporto era pervenuto. Inoltre era da escludersi che quelle due persone fossero agenti veri, considerato il contegno brutale d'una di loro. Gli agenti, per penetrare in una casa chiusa, adoperano altri metodi: non la violenza ma la scaltrezza. Ad ogni modo, l'ispettore Adorni prometteva di mettersi sùbito all'opera per chiarire il mistero.

Mancava un quarto alle undici. Ero disperato e non riuscivo a contenermi. Che fare? Che pensare?

Si trattava forse d'un sequestro di persona? Compiuto da chi? per conto di chi?

Povera, povera piccola! Dove ti avevano trascinata? E senza aiuto, e senza il tuo amico, e nella notte lugubre!

Corsi in via dei Benci, sonai il campanello. Per qualche tempo, nessuno rispose. Persistetti, risoluto a qualunque audacia. Finalmente nella finestra del mezzanino, sopra la porta, apparve il vecchio stalliere balbettando:

– Non c'è nessuno.

– La signora non è rientrata?

– Non c'è nessuno.

– Ma la signora oggi c'era.

Ora non c'è.

– Dov'è andata?

– Non si sa.

– E il portiere?

– Non c'è nessuno.

Tutto il palazzo era buio. Dal Borgo Santa Croce vidi che la finestra della tua stanza da letto era buia. Non si udiva alcun rumore, alcuna voce. La porta era incrollabile.

Raggiunsi Francesco, e di nuovo lo mandai in Questura. L'ispettore aveva chiesto informazioni telefoniche a tutti i posti, inutilmente.

Tornammo qui, in via Pier Capponi; svegliammo il domestico, lo interrogammo ancóra. Dalle risposte, un dubbio crudelissimo cominciò a straziarmi.

Telefonai di nuovo chiedendo il tuo numero. Nessuno rispondeva. Mi pareva di udire squillare il campanello nel buio del palazzo abbandonato.

E tu dov'eri? dov'eri? dov'eri?

Impossibile coricarmi, aspettare il giorno nell'immobilità. Uscii di nuovo. Francesco fu costretto da me a tornare in Questura, con la speranza di qualche notizia improvvisa. Io tornai in via dei Benci e girai lungamente nelle vie sottostanti, spiando le finestre, interrogando il lugubre silenzio, trasalendo a ogni rumore di vetture.

Di dopo che Francesco m'ebbe riferito che nessuna ricerca era possibile nella notteandai vagando in quella piazza d'Azeglio nominata dal domestico. Ma la vettura era giunta qui con te sola o con le due guardie? Il domestico non aveva saputo dirlo. I due o tre vetturini assonnati, che stavano su la piazza, non seppero dirmi nulla.

Tornato qui (era l'alba), stanco e convulso, telefonai di mezz'ora in mezz'ora; e sempre senza risposta.

Dov'eri? Dov'eri?

Francesco mi aveva promesso di tornare in Questura la mattina per tempo.

Infatti, il povero amico è venuto stamani e – prima d'ogni altra cosa – mi ha detto:

– È in casa, è da ieri sera in casa sua. –

Senza udire altro, mi son precipitato a telefonare ancóra. Nessuna risposta!

Francesco ha soggiunto:

– L'ispettore stamani, appena aperto il portone, ha interrogato il portiere e lo ha costretto a dire la verità. La contessa fu ricondotta iersera verso le dieci da due uomini, dei quali uno si dichia agente di polizia e, nel riconsegnare la signora, stese un verbale. Nessun rapporto però è giunto e non si sa ancóra quel che sia accaduto. Fra poco verrà qui un delegato per raccogliere la deposizione del domestico. –

Povera, povera piccola! Non ho pensato se non alla tua sofferenza, al tuo spavento, al tuo male. E mi sono sùbito ricordato del dottor Nesti. Ho telefonato a lui. Non era in casa!

Il delegato è sopraggiunto: una figura ambigua, olivastra, untuosa, con occhi fuggevoli, quasi tremante dinanzi a me. Il domestico ha ripetuto il racconto; ma abbiamo scoperto che, prima che il domestico accorresse, un'altra persona della servitù ebbe con la guardia il primo scambio di parole.

Si riuniscono le testimonianze.

E allora l'avventura si fa più orribile.

La vettura pubblica giunse qui con le tre persone. Uno dei due uomini – un giovine magro con un vestito grigio a righedopo aver sonato e picchiato alla mia porta, salì e cominciò a strepitare dinanzi alla porta di Miss Blunt. Dal suo contegno appariva ch'egli avesse sorpresa in una piazza quella sconosciuta e fosse stato tratto in errore nel far giudizio di lei. Chiestole l'indirizzo, egli l'aveva condotta qui credendo che questa casa fosse una specie di ritrovo galante. S'adirava e strepitava perché credeva che la padrona si rifiutasse di aprire per evitar perquisizioni pericolose.

Il delegato ha detto:

– Certo ora la cosa si chiarisce. È probabile che si tratti veramente di una guardia. La guardia deve aver incontrato la signora, e, vedendo la strana agitazione, ha commesso l'errore... Faremo le ricerche. Sapremo tutta la verità. –

Poteva il destino pesare più brutalmente su la povera creatura? Quale invenzione più atroce eguaglia questa realtà?

Il colpo di grazia per abbattere quella ragione vacillante poteva esser dato con più ferocia? Quale malignità infernale ha accumulato tante sfortune?

Tra le ingiurie grossolane del marito la più ingiusta e plebea l'aveva colpita a dentro. S'era ingigantita ed impressa come un marchio nel suo spirito debole. Le denunzie anonime col veleno di una suggestione vile e bugiarda le avevano insinuato un'inquietudine allucinata. Nello smarrimento e nello spavento, ella aveva perduto ogni sicurezza, sotto l'ostinazione dei vituperii.

Ed ecco, un caso sinistro compie su lei l'infamia! Nel terrore dell'equivoco e della demenza, ella l'indirizzo della mia casa sperando di trovare il rifugio e la difesa. La porta è chiusa. La porta è battuta da pugni e da calci.

La scalailluminata da quella fiammella giallastra che vedrò per tutta la vita come la cosa più lugubre della terra – la scala risuona di grida ignobili.

Il poliziotto intima alla padrona di riprendere la donna!

E io giungo pochi minuti dopo. I minuti di Pratolino, la sosta per accendere i fanali! Congiura di tutti gli eventi implacabile.

E, dal momento in cui la vettura col triste carico si mosse, dove fu condotta la povera creatura, dove fu trascinata, sino al momento in cui forse disse il suo vero nome e diede l'indirizzo della casa vera e vi fu deposta?

Il dottore ha telefonato. È venuto sùbito.

Lo vedo per la prima volta, per la prima volta gli stringo la mano. Sento che ho un amico in lui. Sento in lui qualcosa di saldo, di leale, di generoso: una bontà lucida e virile, una energia misurata, una intelligenza vigile.

Ignora tutto quel che è accaduto. Non è stato ancor chiamato in via dei Benci. Gli parlo con la più profonda confidenza. Egli comprende. Si dispone al soccorso. Va, per tornare. Lo attendo.

Il supplizio dell'attesa mi è familiare, ma questo supera ogni altro. È incredibile la quantità di forza che la Natura ha messa nel mio cuore. Non è mai esausta!

Dopo due ore, il dottore torna. Ha trovato la povera creatura non nell'appartamento coniugale ma in una miserabile stanzetta del mezzanino dov'ella s'era rifugiata iersera, dopo gli orrori, risoluta a rimanervi.

«Non posso più rientrare nelle mie stanze. Le guardie mi arrestano, mi portano in prigione. Le guardie mi arrestano...»

Il delirio è violento. Ella crede di essere avvelenata, avvelenata con l'arsenico, a piccole dosi. Da chi? Deve morire fra poche ore, e non le rimane il tempo di pentirsi. Ha rovinato sé stessa e tutti i suoi. Non le rimane più nessuno, non le rimane più nulla...

Il dottore le dice: «Non Le rimane il Suo amico?» E nomina il mio nome. «Il Suo amico è tutto per Lei, pronto a tutto».

Ella chiede: «Come lo sa

Il dottore risponde: «Egli me lo ha detto, pochi minuti fa».

Un lampo fugacissimo negli occhi sbarrati e vitrei. E il delirio la trascina alla morte.

«Debbo morire, debbo morire. Sono avvelenata. Non vede

Si preme la bocca con un fazzoletto; e in realtà le gengive sono biancastre e sanguinano intorno ai denti, le labbra sono arse e screpolate, tutti i muscoli del viso sono convulsi.

Nel dottore balena il dubbio che veramente ella abbia potuto ingoiare una dose d'arsenico. Per un atto imperioso simula di apprestarsi a lavarle lo stomaco con la sonda. Allora ella grida che non s'è avvelenata, ma che qualcuno l'ha avvelenata a poco a poco, di giorno in giorno, con una polverina bianca...

«L'arsenico non è bianco

Alle interrogazioni del dottore, ella non dice chi l'abbia avvelenata. Divaga. Si dispera su la sua ruina. Grida e si agita.

Nessuna parola chiara su quel che accadde iersera. Sembra ch'ella non se ne ricordi. Nessuna allusione a me. Sembra che una grande parte del suo mondo interiore sia abolita. La prossima morte di veleno e la ruina totale della famiglia sono le due idee che alimentano il suo delirio.

È , nella stanzetta meschina, attorniata dalle donnicciuole, con le vesti in disordine, col viso orribilmente pallido e stravolto, senza che io possa correre a lei, aiutarla, consolarla, portarmela via lontano!

Una delle donnicciuole ha telegrafato al padre e al fratello. Del marito non si ha notizia.

Che cosa potrà salvarla? Quale sarà il rimedio del suo male? D'un tratto, ho io perduto ogni potere su la misera? Con qual mezzo potremo noi ridarle il senso della realtà, della sua vera vita?

È necessario ch'ella abbia una prova indubitabile della mia devozione, della mia vigilanza, della mia infinita tenerezza. È necessario ch'ella sappia ch'io sono per lei, tutto per lei, ora e sempre.

Il dottore, con una nobiltà ammirevole, consente di portarle una mia lettera breve e chiara. La mano mi trema. In ogni parola vorrei porre la somma del mio amore e della mia pie; a ogni parola vorrei dare la virtù del miracolo. Mai volontà di salvazione fu più intensa.

Il dottore parte. Esco anch'io e vado in via dei Benci. Alcune finestre del mezzanino sono aperte. Non s'odegridogemito. Il vecchio portiere paralitico mi risponde a fatica. Si aspetta per la sera l'arrivo del padre.

Con una trafittura indicibile, guardando il cancello chiuso nell'androne, ripenso la sera di aprile – la sera dell'undici di aprile: – la rapida stretta, il palpito soffocante, il bacio che m'insangui il labbro, la frenesia del desiderio...

Il dottore torna. È quasi sera. L'agitazione della malata è cresciuta. Egli è riuscito a farle ingoiare una soluzione di bromuro dicendole che è il contravveleno. L'idea dell'avvelenamento persiste, con l'idea della morte prossima. Ella rifiuta ogni cibo, inutile poiché ella è per morire.

Quando il dottore le la lettera, ella l'apre e la legge senza commozione. Rimane silenziosa.

«Ebbene?»

Non risponde. Sembra che io sia morto in lei.

Ella restituisce la lettera.

«Che debbo farne?» egli le chiede. «Debbo bruciarla

Ella lo guarda con uno strano sguardo di diffidenza e di sospetto.

Il dottore brucia il foglio, senza ch'ella faccia un gesto o dica una parola.

Poi ricomincia l'agitazione delirante, in cui si disegna un sentimento di ostilità contro il dottore che potrebbe salvarla dalla morte e non vuole.

Il dottore crede di comprendere che ella alluda a me quando parla di qualcuno che l'ha avvelenata lentamente, nascostamente, con un poco di polvere bianca...

Non v'è limite all'angoscia umana? Non credevo di aver toccato i confini di tutti i dolori?

Cade la sera. Riaccompagnando il dottore alla porta, ho veduto la fiammella del gas accesa sul pianerottolo. Quella scala è certo il luogo più triste del mondo. È sinistra come se rimanessero le macchie del sangue versato, indelebili. Non potrò più uscire, non potrò più rientrare, senza che mi si faccia incontro un fantasma spaventoso.

O amica, amica mia, o Giusini dolce, o creatura di tutte le carezze, perché ti uccidono così? perché ti fanno soffrire quest'agonia?

Che farò io per te? Come ti aiuterò?

L'anima mia ha gridato verso di te, e non hai risposto. I tuoi occhi hanno letto le parole scritte col mio più puro sangue, e non hanno pianto.

Io sono solo, tu sei sola.

Io mi ritrovo nella casa del nostro amore, dove tutte le cose vivono della tua vita, vivono della tua bellezza, come se fossero simili ai tuoi capelli, alle tue braccia, al tuo petto, alle tue ginocchia, alle tue spalle, alla tua nuca. Se io mi muovo, mi sembra che io ti senta, che io ti tocchi, che io abbia da te nel cuore quei sordi tonfi per cui l'approssimarsi della voluttà somiglia all'approssimarsi della morte.

Quale sarà la mia notte? Quale la tua?

Come potrò io chiudere gli occhi pensando che dovrò risvegliarmi?

O risvegli di quei due ultimi giorni d'aprile! Risvegli di maggio, quando il mondo pareva crollato, quando parevano crollate tutte le cose belle! Mi pareva di essere al fondo di una palude e di fare uno sforzo angoscioso per risalire verso la luce; e la luce aveva il colore del fango.

Ma il risveglio di domani, se la stanchezza mi peserà su le palpebre, il risveglio di domani sarà peggiore di quelli che pur mi parvero i più cupi di mia vita.

Sono entrato nella nostra camera, nella camera verde che tu dicevi sottomarina, dove noi ci amammo e gioimmo veramente come in un antro salso e udimmo cantare d'ebrezza le sirene dei nostri sensi.

Ho riveduto il libro bianco sul leggìo, Il libro segreto di Amaranta, dove tu desideravi che io scrivessi i poemi della mia passione. Come t'era caro questo volume rilegato in pergamena pieghevole e segnato dai nastri color d'oro ovintessuta la rosa a quattro foglie!

Quasi ogni giorno mi rammentavi la promessa; mi dicevi: «Hai incominciato? Quando comincerai

Torrenti di poesia passavano in me e mi travolgevano l'anima. Però non potevo io esprimere il mio delirio. Troppa fame di te, troppa sete di te mi consumavano.

Ti ricordi di queste parole?

«... quando la pena si bagna di lacrime

e diventa il piacere;

quando la morte s'invermiglia di sangue

e diventa la vita...»

«La mia vita è amara dell'amor tuo, Amaranta».

Tutti i profumi si dissolvevano alla gran fiamma.

Eccolo, il libro bianco.

«A Blank Book.

at The Doves Bindery.

Hammersmith 1893».

Rimasto vergine per tanti anni; vergine fino a oggi, se non nella prima pagina ovscritto:

Il libro segreto di Amaranta.

E sotto vi sono le parole tolte agli Amori di Leucippe.

«Ella disse: Che cosa fai? Anco tu all'incontro incanti me? L'incantagione, diss'io, è che amo, e che cerco di medicare il mio dolore».

E, più sotto, le altre parole:

«... e la fontana del piacere

vien dall'anima».

Una rosa bianca è fra le pagine, una di quelle rose che ogni giorno tu trovavi sul guanciale o su i cuscini e ponevi nei tuoi capelli: bianca come te, ma forse men dolce.

O tristezza, tristezza! Era destinato che io non scrivessi nel libro scelto per te or è quindici anni (1893: che anno fu questo nella tua vita?); era destinato che io scrivessi in quest'altro libro di follìa e di dolore, di disperazione e d'amore.

Leggerai tu queste pagine, un giorno?

Le bagnerai tu delle tue lacrime? Conoscerai l'orribile sogno che io sto sognando, che tu stai sognando?

T'ho io perduta? o ti riconquisterò con la potenza del mio amore?

Con quale anima ti risveglierai?

Ecco, , il nostro letto ove dei nostri due corpi facemmo un solo essere meraviglioso, ove della morte facemmo veramente la vita e del pianto facemmo la voluttà e del grido facemmo la melodia. Qual febbre fu più lunga e più profonda della nostra?

Ieri, a quest'ora, Amaranta, la creatura di neve, vagava per le strade fra due uomini ignobili. Stasera si dibatte ed urla in una povera stanza soffocante, tra donnicciuole curiose che cianciano. La bocca che nella notte di Giovi diede il più ardente di tutti i baci a colui che partiva verso il buio e verso il pericolo, la stessa bocca è arsa dal sapore del veleno imaginario e s'illividisce e si torce simulando lo spasimo dell'agonia.

E l'alba è lontanissima.


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