Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
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• 9 settembre – mercoledì.

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9 settembremercoledì.

Non resistendo all'insonnio, stanotte sono uscito. Eran sonate le due dopo la mezza notte. Ho percorso i viali e mi son ritrovato sul Lungarno, alla Pescaia di San Niccolò. Dal ponte alle Grazie son venuto in via dei Benci, sotto il palazzo. Non appariva nessun lume alle finestre. Il silenzio era perfetto. Nessun indizio, né dalla parte del Corso né dalla parte del Borgo.

Che facevi? Avevi una tregua nel tuo martirio?

In un baleno ho riveduto il tuo viso pallido sotto il velo nero, il tuo viso di quella sera lontanissima quando io ti aspettai presso il ponte con la carrozza chiusa – nell'inverno del 1907. Te ne ricordi? Non t'avevo mai veduta così bella. Allora i tuoi baci cominciavano a bruciare, e già tutte le mie vene ti appartenevano.

Son tornato a casa con una vettura ch'era in piazza della Signoria. Trascinavo il cuore sul lastrico. Le stelle brillavano straordinariamente.

Ripensavo l'ebrezza di quella notte di pioggia, quando pareva che si fossero aperte tutte le cataratte del cielo, e iouscito dalle tue braccia – mi ritrovavo su la via scrosciante, poco prima dell'alba, caldo del tuo respiro e felice della mia audacia.

Nel rientrare, ho riavuto il brivido funebre. La scala era buia e sinistra, ma per me risonava dei colpi dati alla porta dallo sconosciuto...

Ecco il dottor Nesti, il mio solo amico in questa sciagura. Lo conosco da ventiquattr'ore, e già v'è tra noi un legame saldissimo. Sento, com'egli appare, come la sua mano è nella mia, che posso confidare in lui. Mi piace la sua forza tranquilla, la sua bontà maschia. Ed egli medesimo sente, sotto il mio dolore, una energia indomabile.

Ti difenderemo, ti proteggeremo, ti salveremo.

Il padre è arrivato. Il dottore ha potuto ottenere ch'egli non faccia alcuna allusione al passato e non abbia alcuna attitudine di sdegno verso la figlia. La povera creatura, vedendolo, ha dato in grandi smanie ma non ha osato neppure d'avvicinarsi a lui. Ella ripete di continuo: «Povero babbo! T'ho rovinato. Diventerai povero. Non avrai più nulla, non avremo più nulla. Sono stata la tua rovina...»

L'idea del veleno persiste e l'ostilità verso il dottore si fa più aperta. Ella grida: «Ah perché anche Lei m'è diventato nemico? Non ha più il viso d'una volta, che mi rallegrava. Perché ha mutato viso? Poteva salvarmi, e non ha voluto. Mi restano poche ore, mi restano poche ore. Poteva levarmi il veleno, e non ha voluto. Tutto è inutile. Debbo morire...»

E rifiuta il cibo. E, nelle sue parole oscure, mostra di credere che io e il dottore ci siamo collegati per perderla. L'accusa verso di me è omai chiarissima. L'agitazione cresce, non ha un minuto di tregua.

Il padre sembra non consideri se non il vantaggio ch'egli può trarre da questo accesso di demenza, nel dissidio col genero. Egli pensa che sia possibile far risalire gli effetti della follìa all'epoca in cui la figlia commise gli atti che determinarono la catastrofe. Ha l'aspetto di un uomo che studii il lato pratico della cosa – irresponsabilità della figlia, riconciliazione di lei col marito, – e la maniera di evitare fastidii gravi.

Egli comunica immediatamente al dottore la intenzione di chiudere la malata in una casa di salute!

La povera creatura, se fosse trasportata senza indugio in una bella villa quieta, lontana da tutti i fantasmi che la perseguitano, potrebbe recuperare la ragione in breve tempo. Ella non ha bisogno se non di silenzio e di tranquillità. Ma la casa di salute sarebbe certamente il suo sepolcro. Chiuderla nel triste luogo varrebbe come sopprimerla, precipitarla per sempre nell'oscurità.

Certo, per il padre è questo il mezzo più semplice e ch'egli ritiene il più normale per aiutare la figlia.

Il dottore me lo descrive come un uomo tutto d'un pezzo, con un viso rude, con una larga cicatrice che gli solca la guancia presso il collo: uomo chiuso, di poche parole, di spiriti tradizionali.

E la figlia non si confida se non in lui! Respinge tutti gli altri per chiedere a lui la sua salvazione!

E il primo pensiero paterno si risolverebbe in una crudeltà inesorabile.

Ma, con qualunque mezzo, sia pure con la violenza e con lo scandalo, noi impediremo la soppressione.

Per un momento ho pensato alla possibilità di ottenere che la mia amica mi sia affidata, con la intromissione del dottore.

Il dottore diceva:

– Se ci lasciassero le mani libere, se il padre partisse, credo che la salveremmo. –

Nella prima ansie, ho sùbito mandato qualcuno in cerca d'una villa solitaria e ho telegrafato alla fedele Anastasia che si tenga pronta a partire. Ho già notizie della villa, ho già la risposta della donna. La tristezza è a un tratto superata da un ardore e da una fede subitanei. Salvarla! Salvarla! Dare tutto me stesso per salvarla!

Ho scritto e mandato al padre questa lettera:

«Io Le dovevo la risposta alla esortazione paterna che accompagnava una triste lettera di commiato; ma m'indugiai in un'attesa ansiosa perché mi pareva troppo improvviso e duro quel modo di recidere un legame che da me era fatto di giorno in giorno più saldo per due anni di devozione senza misura e che omai costringeva le più vive forze della mia anima.

Una fatalità invincibile ha precipitato gli eventi.

Ero passato di angoscia in angoscia. Credevo aver riscattato il fallo, a furia di dolore, per me e per la povera creatura. Ma oggi tutto quel che ho sofferto non vale dinanzi all'orrore che mi schiaccia.

Ho veduto il medico, l'ho interrogato. Conosco la verità. Egli me l'ha detta virilmente.

Non scriverò troppe parole.

Ella non mi conosce, anzi mi disconosce.

Due anni io sono stato per Sua figlia un amico devoto e costante in mille prove di sempre vigile tenerezza. Ho posto nelle mani della cara creatura la mia vita e il mio bene, col più sincero abbandono. In queste ore d'agonia sento più che mai quanto profondamente ella mi possedesse e mi possegga.

Mi rivolgo a quel che v'è di più umano in Lei, Signore. Io non ebbi mai occasione d'incontrarLa ma ho sempre vivo in me il ricordo della Sua voce commossa che in un giorno lontanissimo mi dava notizie di Sua figlia inferma. E quell'accento mi fa confidare nella gentilezza del Suo cuore.

Sono qui in una pena intollerabile. Consenta che io abbia almeno le notizie della mia povera amica; consenta che anch'io faccia qualcosa per salvarla. Mi adoperi come vuole. Sono pronto a tutto, con tutte le forze che mi rimangono.

Dinanzi a tanta sciagura non può esservi considerazione di legge, di costume, di pregiudizio comune. Non v'è se non la grande legge umana che io invoco.

E mi perdoni, Signore. E conti su la mia infinita gratitudine».

La sera, verso le dieci, attendo il dottore dinanzi alla scalinata di Santa Croce, con l'automobile. È il luogo dove, nei primi tempi della felicità, attendevo su l'imbrunire la mia amica velata e avvolta nella tunica di lontra per condurla al piccolo giardino.

Il dottore viene pel Borgo. Lo faccio salire nell'automobile, e andiamo vagando. La notte è stellata.

L'inferma, dopo una lunga persuasione, ha consentito a rientrare nelle sue stanze. L'agitazione è tuttavia crescente. L'idea del veleno persiste, persiste l'ostilità contro il medico ch'ella accusa di non averla salvata e di tramare contro di lei per ridurla all'estrema rovina.

È giunto il fratello maggiore. Non ha detto verbo. Sta sempre seduto in un angolo, immobile e silenzioso.

Il medico crede che l'aumento di agitazione si debba all'appressarsi di una ricorrenza fisiologica.

È vero. Ripenso al sogno di Perugia, al miracolo invocato dinanzi a San Francesco, al disperato desiderio di maternità, che travagliava la povera amica. Nei giorni di Perugia, per non so quali segni, ella aveva in cuore una vaga speranza. Sorridevamo non senza tremito, parlandone. Ella diceva: «Fino al momento della certezza o della delusione, spererò, attenderò, vivrò nel vóto».

Se il miracolo si compisse, ora? Se la folle speranza divenisse improvvisa certezza? Se l'anima oscurata fosse percossa da una irruzione di luce? Se dalla demenza ella salisse, con un sol volo, alla cima della felicità?


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