Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
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• 11 settembre – venerdì.

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11 settembrevenerdì.

Di buon mattino le rose innumerevoli invadono la casa.

S'ella fosse qui, se non si fosse svegliata ancóra, la seppellirei sotto il mucchio umido. Ella sfuggirebbe al peso, uscirebbe nuda di tra la massa fresca; e io la prenderei allora sul mucchio divenuto letto, come quel giorno nella stanza della Gioconda.

Che farò di queste rose?

Scelgo le più belle, le stringo in un mazzo; e le mando al dottor Nesti, prima ch'egli si rechi alla visita mattutina. Le accompagno con questa lettera:

«Mio caro dottore ed amico,

lasci che almeno io faccia stamani un'offerta ideale per propiziare il fato avverso.

Tra poco ella vedrà la povera creatura, e per vederla io vorrei essere stamani in un sol bàttito de' Suoi occhi.

Le mando non il gran fascio di rose per cui avevo devastato un giardino, ma un mazzo modesto.

Se può, se vuole, lo porti alla malata come un Suo dono mattutino senza nominare il mio nome, senza fare alcuna allusione al giorno memorando.

O almeno scelga due tre rose, e le porti.

E, se non può, tenga questi fiori nella Sua casa dove ieri fui accolto con semplicità fraterna. Bene vanno al cuore gagliardo delicato e giusto da cui m'ebbi tanto conforto in giorni tanto angosciosi.

In ogni tempo io non ebbi per la povera creatura smarrita se non pensieri di bontà e invenzioni di gentilezza. E, da vicino e da lontano, neppure per un attimo le mancò mai la mia vigilanza d'amore.

Perché non Le confesserei che io soffro profondamente d'essere disconosciuto oggi? Chi sa quale difformazione ha patito la mia imagine dalla demenza, in quell'anima debole! Tutto darei perché l'agitata sapesse che io vigilo di continuo e serbo la mia fede.

Se può, le porti una rosa almeno, senza dir parola.

E mi perdoni. In tempi men tristi io Le offersi la mia poesia. Ella mi ha ricambiato animosamente con una poesia ben più alta e fiera. In mezzo a tanta bassezza, la Sua nobiltà mi fa luce.

Creda, amico nuovo e già fido, alla riconoscenza immutabile di un cuore ben temprato».

Verso mezzogiorno il dottore viene con le notizie. Lo guardo negli occhi. Egli vede nei miei l'ansie.

«Nulla! – mi dice. – Se io avessi portato il mazzo intero, son sicuro che il padre non m'avrebbe permesso di offrirlo alla malata. Ho voluto fare un tentativo quasi segreto. Ho scelto dal mazzo due rose, le più belle, e le ho chiuse in una scatola di cartone. Ho portata meco la scatola e l'ho posata sopra una tavola, nella camera della malata, in modo che o prima o poi ella potesse scorgerla. Ma, nelle due lunghe ore della mia permanenza, ella non soltanto non ha dato alcun segno di ricordo o di ritorno verso il passato: ha pur anche inasprita la sua avversione contro me che tiene in sospetto come assoldato da Lei, per farle male! Noi due non saremmo se non due nemici collegati! Sembra che l'antico affetto sia intieramente abolito, sradicato. Penso che il padre e la vecchia donna di casa G. – che ora l'assisteconcorrano a inspirarle quest'odio ingiustificabile. Che potevo io fare? Prima di andarmene, ho ripreso cautamente la scatola con le due rose; e ho sentito tutta la tristezza di questo naufragio, e una grande pie per la povera creatura custodita da una vecchia idiota, da un padre medievale e da un fratello apatico... –

Partito il dottore, tanta era la mia angoscia, tanto era in me il bisogno di un grido, che ho osato di telefonare sperando nel caso.

«S'ella stessa corresse al telefono per rispondere

Minuto vertiginoso!

Ho riconosciuto la voce roca del padre, quella voce che in un giorno d'aprile – a me che chiedevo notizie della figliarispose: «È malatuccia».

Ho tolta la comunicazione. Sono uscito.

Due strani episodi.

Da Doney ho rivedutodopo anni ed anni di lontananza e di oblioDonatella Arvale.

Era seduta nella stanza attigua con una vecchia tedesca. La vedevo a traverso il cristallo; la guardavo senza alcuna commozione. Tutto è morto, in me, di quel tempo torbidissimo. Ella evitava d'incontrare i miei occhi. Avrei potuto alzarmi e andare a salutarla. Ma non mi pungeva alcuna curiosità. Lo spirito era chiuso in un cerchio di lutto.

Ho lasciato ch'ella uscisse per prima.

L'ho veduta nella via camminare con un passo pesante (dov'era il suo passo impetuoso e volante come quello della Vittoria?), e scomparire verso il Lungarno, con la sua persona irrobustita, dai larghi fianchi fecondi.

Poco dopo, un mésso mi ha annunziato che il «levriere nero» è giunto!

Ti ricordi del levriere nero che avevo promesso a Luisa Casati, senz'averlo? Ti ricordi della ridicola avventura?

Ebbene, a mia insaputa, l'uomo incaricato di cercare in tutta l'Europa il cane rarissimodopo le prime ricerche vane – ha continuato a occuparsene con una incredibile diligenza. Egli mi ha mostrato il testo delle innumerevoli lettere scritte, degli innumerevoli telegrammi spediti, felicissimo d'esser riuscito nell'impresa disperata; e non sapeva quale sforzo io facessi per dissimulare la mia indifferenza che a poco a poco si mutava in fastidio.

Molto volentieri io rimanderei Erebo all'Inferno.

Le ore passano; la vita è sospesa.

Ho ancóra notizie.

Il padre ha cercato qualche luogo quieto in campagna, per trasportarvi la figlia, non consentendo i medici ch'egli la chiuda in una casa di salute. Ha detto d'aver trovato alcune stanze in una villa a Montughi, ma teme ch'io possa infrangere la clausura e giungere sino alla reclusa.

«È capace di tutto!» ha detto al dottore.

Forse alludeva alla mia impresa notturna di Giovi.

Per ciò ha deliberato di trasportare la figlia nella casa di via Cherubini, a pochi passi dal chiostro verde!

Tanta vicinanza mi sarà più penosa? mi sarà più dolce?

Da sei giorni non vedo il caro viso che sabato, su quest'ora, s'addormentava sotto le mie labbra lievi.

Da quattro notti non dormo.


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