Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
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Notte.

All'improvviso una voce mi ha chiamato, mentre ero disteso sul divano e soffrivo sotto le mie imaginazioni ardenti. Ti ricordi delle ultime carezze? venerdì? sabato? Te ne ricordi?

In me hanno lasciato una bruciatura immedicabile.

All'improvviso una voce mi ha chiamato: non la tua, ahimè; ma pure una voce di donna, una voce soffocata, un poco roca... Era quella della persona di cui parlammo a Perugia.

Ho sentito ch'ella era dominata dalla vertigine. Mi domandava di vedermi, di venir qui, di parlarmi ancóra una volta prima di andar lontano...

Non so quale speranza di tregua, di oblio, d'inganno mi ha messo in bocca la parola che consente. Non ho voluto guardare dentro di me, non ho voluto accertarmi se dentro di me ci fosse anche il rancore contro la rinnegatrice.

La passione ha sempre il medesimo aspetto?

Ella è giunta, pallida, palpitante, fuori di sé, ansiosa di donarsi, di abbandonarsi, inconsapevole del pericolo, concentrata nel suo atto folle, cieca per tutto il resto.

Il mio cuore ha dato un balzo d'orgoglio. Una passione è spenta, una passione divampa.

«Essere amato, essere amato sopra ogni legge, essere amato ancóra, sentirsi giovine ancóra, ancóra vivo e potente

La posta che questa creatura pone nel suo gioco è, se ben diversa, altrettanto grave quanto la tua: il marito fiducioso, i figli adorati; e al pari di te una grande considerazione mondana, una fama senza ombre.

Dopo tanta lotta, dopo tanta resistenza contro sé stessa, ecco che in un attimo la sua volontà si smarrisce e la sua anima si perde!

L'ammiro e non l'amo. La tocco e non la desidero.

Sei tu, sempre tu addentrata nella mia carne; e non lasci la preda.

La casa è oscura, avvelenata dalle tuberose. Il mio sangue grida verso di te, disperatamente.

«Giusini! Giusini

La donna è smarrita e tremante, mentre io la svesto tenendo gli occhi socchiusi, evocando la tua imagine e il tuo respiro. Prenderò te sopra lei. Rinnoverò la trasposizione tragica che tu conosci in un mio libro perverso.

È nuda, è accanto a me come tu eri. È supplichevole. Batte i denti in un terrore improvviso. Mentre io la bacio senza guardarla, ella mi mormora la causa del suo terrore. È casta da anni. Lo sapevo già. L'amore può fecondarla al primo tratto.

– Non temere! Non temere! –

E sento il suo tremito profondo fra le mie braccia che l'avvolgono.

Ella mi dice parole insensate.

Taci! Taci! – io le dico, perché la sua voce distrugge la tua imagine, tanto è diversa.

Ma le sue spalle sono bianche come le tue, la sua cintola è fine come la tua... Poso la bocca su l'omero e – come il suo viso è volto a sinistra e affondato nel guanciale – non vedo se non il collo. M'abbandono ardentemente alla mia finzione, ch'ella favorisce inconsapevole col suo tremito, col suo languore, coi suoi sospiri soffocati, con tutto il suo aspetto di donna estenuata...

«Giusini! Giusini

Oh tu, sola tu esisti!

Imagino d'esser penetrato nella tua carcere, d'esser venuto a te, d'averti presa nelle mie braccia ancóra confusa nel crepuscolo della demenza, non guarita ancóra e ancóra immemore delle voluttà lontane, quasi rinverginata, sbigottita dalla nuova carezza...

È la prima volta, è come la prima volta. Tu tremi, hai paura, sei convulsa e contratta. Ma a poco a poco, sotto il mio ardore, i tuoi sensi si risvegliano, si ricordano; la tua bocca mi cerca; le tue braccia mi tolgono nella stretta il respiro...

Ho un momento di lucidità per evitare il pericolo. Il mio spasimo è senza gioia. L'imagine creata svanisce. Apro gli occhi. Quella ch'è con me è l'altra creatura, sfinita, attonita, inconsapevole, luminosa di riconoscenza, piena d'una rivelazione che trasmuta la sua vita e il suo destino.

Ella parla. La voce è diversa ma le parole sono le stesse: quelle che anche tu mi hai dette, quelle che tante altre mi han dette.

– Oh, e ora come farò a vivere? Perché ho fatto questo? Come potrò sopportare la vita, la vicinanza degli altri, la grossolanità di tutti? Tu non somigli a nessuno. Non ti so dire, non ti so dire che orrore delle carezze era nella mia carne, che orrore dell'uomo. E tu non somigli a nessun uomo. Tutto di te mi piace. Che cosa dolce è starti accanto! Che cosa nuova, impensata, inaspettata! Rimarrei ore ed ore qui, in silenzio, a sentire il calore del tuo corpo, ad ascoltare il battito del tuo cuore. Mi piacevi in tutti i tuoi atti, in tutte le tue parole. Nessuna musica mi aveva mai dato l'emozione che mi dava la tua voce, fin dal primo giorno, fin dal tuo primo saluto cerimonioso. Ma non potevo pensare senza terrore a cederti, a divenir tua; non potevo pensare senza sgomento alla più lieve delle tue carezze. E ora tu m'hai posseduta nel profondo, nel profondo. Hai aperta dentro di me una fontana d'amore e poi l'hai risuggellata. Non sarò d'altri se non di te. Mi avrai tu solo. O forse neppur tu potrai più avermi. E questa sarà stata la prima e l'ultima volta... –

La voce diversa, le stesse parole. Faccio uno sforzo atroce per non gridare: «Taci! Taci!» Le premo con la bocca la bocca, perché cessi di parlarmi. Voglio di nuovo creare la tua imagine pel desiderio non saziato; voglio ancor più profondamente segnare il mio solco nell'amante nuova.

Evito di guardarla in viso. Ella tace; io parlo senza proferire le parole, io ti parlo, ti brucio con l'alito, faccio pesare sul momento presente tutte le voluttà del passato.

Sopraggiunge il secondo spasimo; cade su la nuca il colpo della tristezza corporale. Sento sotto le labbra una gocciola amara... Ella piange, anch'ella piange come te: ha il cavo degli occhi pieno di lacrime. Piange di gaudio? di rimorso? di presentimento? di divinazione?

– Bisogna che vada! Bisogna che ti lasci!

Ella sorge a sedere sul letto, con le braccia levate per raccogliere i capelli. Le lacrime, serbate nel cavo degli occhi, ora cólano fino al mento.

– Come farò? Chi mi aiuterà? Tu non mi aiuterai. –

Tristezza del rivestirsi, del ricoprire la carne vendemmiata, del ridistendere il velo su i baci!

So che ho accresciuta la mia miseria, che ho aggravata la mia sera. Tuttavia son pròdigo di grazia pietosa per colei che deve abbandonare il sogno breve per ritornare non nella solitudine pura ma nel torturante congegno umano che la serra e la deforma.

Addio! –

Non la desidero e non l'amo.

Cerco l'amuleto ov'è tra due vetri il ciclamino baciato dalla tua bocca; resto disteso fino a notte nel tuo fuoco senza luce.

Esco. La notte è serena. Passo dinanzi alle tue finestre chiuse. Sul davanzale sono i due grandi mazzi di ciclamini, appassiti, come su la pietra di un sepolcro. È il rifiuto. Io li avevo posti fra l'una e l'altra persiana contro i vetri. Ora le persiane sono serrate, e i fiori sporgono dal davanzale. Odorano di morte.

Nessuna cosa, in questi giorni di lutto, m'è parsa più lugubre.

Tornando a casa, mi sembra di camminare dietro una bara. Nelle scale buie il fantasma m'aspetta.


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