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Viene il dottore. S'è trattenuto con la malata più a lungo del solito.
Notte agitatissima. All'arrivo del medico, atti e grida ostili. Parlando della trama ordita contro di lei, ella allude a certe lettere «molto compromettenti» da me possedute, che io potrei adoperare per nuocerle ancor più. Ella teme che io mi vendichi. Quali sono queste lettere pericolose? E qual potrebbe essere la mia vendetta?
Ella si confonde, divaga, evita le risposte diritte.
Porta sempre nel dito l'anello nunziale, soltanto quello.
Ora diffida di tutti, anche della vecchia megera di casa G., anche della giovine inserviente. Non si diparte dalla sua ostinazione.
I ciclamini sono rimasti sul davanzale. Il dottore li ha veduti entrando. Li ha veduti anche Giusini?
A un certo punto ella ha detto, senza ragione apparente, indicando la stanza della finestra ove io deposi iernotte i fiori:
«No, non voglio andare in quella stanza! No, non ci voglio andare!»
Tiene il dottore per nemico, ed è giunta perfino ad ingiuriarlo dicendogli che s'è lasciato comprare. Ma ha il bisogno di vederlo; e, quand'egli si dispone ad andarsene, ella si pianta dinanzi all'uscio con le braccia aperte per impedirgli il passo.
Com'ero stanco, nelle prime ore del pomeriggio! Mi son disteso là, sul divano di damasco, e mi sono assopito.
L'ho sognata con una intensità spaventevole. Era magra magra, con gli occhi ingranditi, con un tremito penoso in tutte le membra. Mi son chinato su le sue povere mani per baciarle, e ho avuto uno scoppio di pianto.
Mi son destato. Mi doleva il petto. Udivo i colpi sordi del cuore.
Amica, amica mia dolce, ho di continuo le mie labbra su le tue mani.