Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
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• 21 settembre – lunedì.

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21 settembrelunedì.

Ella ha detto al dottore: «Ho un segreto. Ah, se sapesse il mio segreto

Il dottore non è riuscito a penetrarlo, né a rischiararlo pur d'un raggio fioco.

Stamani ella pareva tenera per il marito. Ha detto: «È buono, è tanto buono

Nella sua ultima lettera del 28 agosto, scritta prima di lasciare i Palazzetti, ella scriveva: «È cattivissimo. Nessuno avrebbe mai imaginato che potesse mostrarsi tanto cattivo».

Come il dottore era per uscire, la vecchia megera affannatamente gli ha raccontato di aver visto da più giorni un uomo aggirarsi intorno alla casa e di aver trovato i fiori sul davanzale. «Li ho gettati, li ho gettati nell'immondezzaio. E, se scopro colui che li porta, glieli getto sul viso

Povera Giusini, da qual gente sei custodita! E com'eri piena di grazia e di gentilezza quando, nel bosco su l'Arno, ti chinavi di tratto in tratto a cogliere per me i ciclamini!

Vedi: non son riuscito a renderteli. Son finiti nell'immondezzaio!

È tempo di tentare qualcosa omai per la salvazione dell'anima.

Lascio questa casa; risalgo all'Eremo sul colle di Settignano.

Com'è difficile partire dai luoghi dove più soffrimmo! Il mio cuore par legato da una fibra sensibile a ogni aspetto. Mi allontano, e la fibra si rompe con strazio.

Tutto si rianima, tutto vive con maggior forza, tutto assume un aspetto patetico e consapevole. I ricordi, in così piccolo spazio, si fanno di carne e di sangue, diventano palpabili; e mi soffocano con un respiro grave come quello delle fiere.

Ecco il vecchio Eremo, dove aspetterò la sera.

Ti ricordi della sera di febbraio? Era un lunedì, come oggi: era il giorno della luna nuova, l'undecimo del mese.

Eravamo stati nel piccolo giardino. E, finalmente, dopo tanto diniego, dopo tanta lotta, io t'avevo presa su i cuscini verdi; ma tu, nel tuo sbigottimento parevi inconscia.

Allora io ti supplicai di lasciarti condurre all'Eremo. Avevi la sera libera, potevi rimanere fino a notte alta. Tanto ti supplicai che cedesti.

E salimmo, dopo l'Ave Maria, nella vettura chiusa.

Era un vespro piovigginoso. Udimmo con un sussulto suonare la campana del cancello. Entrammo nella villa dove ardevano i fuochi.

Nessuno di noi due s'attendeva una così profonda felicità.

Te ne ricordi?

E sei stata ingrata anche contro l'Eremo dove avemmo talune delle nostre più magnifiche feste.

Tu sola vivi qua dentro, stasera. Ogni altro vestigio è scomparso. Tu dòmini sola.

Stasera è la morte dell'Estate. L'umido autunno fascia già le mura. Le zampe dei miei cani calpestano le foglie gialle.

Come sei lontana! Nel chiostro verde ti sentivo più vicina; e mi facevi soffrire più crudelmente!

Perché t'amo se non per questo: che io soffro di te più che d'ogni altra creatura e d'ogni altro pensiero in terra?

Ecco il divano vasto dove ti sedevi per le nostre piccole cene. Avevi sempre una rosa bianca nei capelli; e una sera – te ne ricordi? – io coprii di foglie bianche tutta la tua bianchezza di neve, fiore tra i fiori; e poi stetti col mio viso su le tue ginocchia, smarrito di beatitudine.

Ti ricordi di tutte le mie invenzioni?

Ho guardato la grande poltrona di broccatello giallo e bianco, presso il caminetto, e ho tremato rievocando il tuo brivido se m'inginocchiavo per contemplarti. Ho guardato le testimonianze di tanta bellezza, di tanta dedizione; e ho tremato ancor più forte imaginando per subitaneo incanto di riaverti con me.

Dove sei? Dove sei?

Dici che m'odii, alla vecchia megera?

Ho pranzato solo, nel refettorio. Il canile, di fuori, ululava. Le lampade elettriche di tratto in tratto davano lampi, poi si oscuravano arrossandosi. Con un sùbito scoppio, tutte si son fulminate. Il buio ha invaso ogni stanza.

Ho acceso i ceri funerei.

Il canile ulula a morte.

Di notte, più tardi.

Mi ero coricato, ma ora mi levo. Non posso dormire. Sento nel letto la tua impronta.

Cerco nel cofano delle tue lettere, quelle del settembre 1907.

Sai qual data porti la prima? Singolarità del caso! 7 settembre, la data della sciagura. Le altre seguono nell'ordine dei giorni fino al 19; poi ricominciano il 23.

Oggi è dunque un anniversario gioioso!

Tutte sono azzurre e portano il sigillo d'argento.

Ecco quella del 19.

«Sarò sabato a Firenze».

Il sabato cadeva nel 21.

«Sarò sabato a Firenze. Alle dieci sarò dalla Bella di Leonardo

Alludevi al ritratto della Gioconda sospeso su la parete di contro al letto, nel nostro rifugio.

«Quante e quante cose dovrò dirti, quanto tempo mi ci vorrà! Ma quanto tempo starò prima di poter parlare?...»

La stanza era piena di rose dai lunghi steli e di tuberose pesanti. Arrivasti ansante. Ci soffocammo a vicenda in una stretta selvaggia.

Tu dicesti: «Vale la pena di vivere, vale la pena di attendere e di soffrire, per un minuto come questo».

Anche una volta sorpassammo nella gioia il limite umano.

Ti ricordi? Era quello strano rifugio su la piazza dell'Indipendenza. Si passava per un corridoio nudo, poi per una sala nuda e buia; e si entrava nella stanza segreta, tutta tappezzata di damasco verde, piena di cose belle e preziose, fiorita come una serra...

Ti donai quella borsa d'oro ornata d'una minuscola corona; e tu n'eri felice come una bambina. E non ti stancavi di guardarla dicendo infantilmente: «Troppo bella! Troppo troppo bella

Come fu straziante la separazione!

Mi scrivesti: «Non ho mai sofferto come ieri sera... Vidi il lume lassù. La notte era divina: il plenilunio... Sono stata sempre a sognare, a occhi aperti... E tutta quella bellezza e tutto quell'incanto facevano sempre più disperata la mia desolazione... Chi m'accompagnava restò sempre, o quasi, immerso nel sonno...»

La lettera diventa acuta come un grido.

«Sono triste triste triste... Sono con te. Ho bisogno della tua voce, ho bisogno dei tuoi occhi, sempre... Tienimi sempre sul tuo cuore

La rileggo. La prima pagina è macchiata dai ciclamini vivi che v'erano acclusi. Vi sono sempre, e vivi sempre. Eccoli. Morti son quelli sul davanzale.

Ahimè, non ti tengo più sul mio cuore, ma sempre nel mio cuore, Amaranta.


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