Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
Lettura del testo

• 25 settembre – venerdì.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

25 settembrevenerdì.

Ho dormito poco e con affanno. Quando mi sveglio, il mondo mi appare come una cloaca immensa. Ogni bellezza è distrutta. Il viso dell'amore è osceno come quello d'un pagliaccio vinoso.

Un raggio di sole, che batte sopra un cuscino di velluto verde, mi fa pensare al grande occhio di smeraldo che trovai a Venezia nei giorni vittoriosi, all'anello antico chiuso nel piccolo astuccio di cuoio che aveva la forma del berretto dogale.

Renovata Fides era inciso nel cerchio dell'anello. E il grande smeraldo lucente splendeva su la mano carezzevole...

Ebrezza di Venezia! Clamore della folla! Ardore di tutto un popolo! Divina solitudine del cuore che non palpitava se non per un sol desiderio!

Tra un'acclamazione e l'altra, l'ultimo giorno, andai in cerca – d'antiquario in antiquarioandai in cerca dell'anello magico. Volevo uno smeraldo, il compagno degli altri due.

Lo trovai, con una gioia puerile. Mancava l'astuccio. Perché sapevo che l'avrei trovato? Da un antiquario sul Canal Grande, in fatti, lo trovai. Era delizioso: di marrocchino rosso, in forma di corno dogale, foderato di velluto verde cupo; e l'anello vi si chiudeva esattamente, come per prodigio.

Giunsi col dono. E vennero i giorni strazianti della fine d'aprile.

Ora al polso di Amaranta tintinna il braccialetto dell'idiota.

Cerco di scuotermi. Rimonto a cavallo, dopo circa tre mesi. Monto il buon Malatesta, il fedele, il sicuro. Lo avevo lasciato in cattive condizioni. È guarito; sembra ringiovanito; sembra felice di riavermi in groppa. Buona bestia generosa, incapace d'una bassezza e d'una viltà, pronta a tutto, tanto più prode quanto più grave è il pericolo!

Cavalco per le colline. Il respiro dell'autunno è nell'aria. La malinconia fumiga dalla terra bruna. Le piccole olive verdi mi sfiorano il viso, mentre passo lungo i poderi murati.

Non potrebbe la mia amica essere al mio fianco sul sauro?

Vedo di tratto in tratto sopravvanzare i muri le rose bianche; e il cuore sembra mi si disfaccia nel petto, e le ginocchia fievoli non aderiscono più alla sella.

Giusini è come una rosa bianca; una rosa bianca è come Giusini.

Ogni rosa dal muro, dal cancello, dalla pergola fa un gesto verso di me, simile al gesto di Giusini. La rispondenza è tanto perfetta che non so, veramente, se io soffra o se io goda, se io provi pena o voluttà...

Tornando verso la scuderia, trovo sul piazzale della villa una signora bionda che mi saluta imporporandosi. Balzo di sella, le vado incontro.

È Maria Votruba, la traduttrice czeca della mia Nave. È venuta dalle rive della Moldau, dalla città dei cinque colli, da quella Praga che è la cittadella del popolo czeco a cui l'Austria nega tuttora l'autonomia invocata.

Ella sembra conoscere la mia vita come se vivesse vicina a me e mi amasse d'amore. Sa i nomi dei miei cavalli e dei miei cani. Vedendo il sauro grande, ha detto: «È Aligi». Vedendo il gran levriere russo, ha detto: «È Danchi».

È una giovine donna di venticinque o ventisei anni, con un viso luminoso, con due dolci occhi cerulei, coi capelli ricciuti e corti come quelli di un giovinetto (mi dice che le ricrescono ora, dopo il tifo), con le forme ricche e vigorose, con un riso facile e fresco, con un'aria di sana bontà.

La conduco nella casa. È semplice, senza paura. Beve una tazza di thé con piacere palese, con una specie di felicità spontanea in ogni suo atto. Parliamo del mio poema, della sua traduzione. Mi espone le difficoltà, mi confessa i suoi dubbi. Le sue domande e le sue osservazioni dimostrano una intelligenza acuta e nobile.

Andiamo nella colombaia, per guardare il tramonto su la valle. Le racconto la cacciata dei colombi, l'usurpazione del nido, la tenacia degli esuli nei tentativi di recupero, il mutamento del luogo, divenuto ora un rifugio pel mio sogno e pel mio lavoro.

Ahimè, ahimè, l'imagine di Amaranta si forma nel divano profondo, su i cuscini rossi. L'imagine di Amaranta, inclinata a udire il lamento dell'assiòlo, si forma nel vano della finestra. Una improvvisa onda di malinconia mi sommerge; e non posso più parlare.

Poi, a un tratto, un pensiero perverso mi turba. Per un attimo ho la tentazione di rinnovare su lei la fro-
de volutt
uosa del 17 settembre. Le guardo il collo, la nuca...

Ella sente forse il pericolo. Mi parla del marito ch'ella ama, del suo desiderio di rivederlo, della sua ansia nel contare i giorni del viaggio. Io rimango disteso su i cuscini, in silenzio, torbidamente.

La sua voce assume una dolcezza fraterna, scende a toccare la mia piaga.

Un sùbito bisogno di confidenza mi prende. Le parlo della mia sciagura.

Ella trova le parole che consolano. E più che per me io le son grato per la povera amica mia, verso cui ella ha un pensiero d'infinita delicatezza.

Cade l'ombra azzurra su la conca dell'Arno. Firenze è sotto un cumulo di cenere sfavillante. Cominciano a sonare le campane dell'Ave.

Ella dice: – È tempo di andare. –

Io la prego di rimanere, di non lasciarmi solo.

Ella ride; poi si fa seria.

– Questo non si può. –

Parla l'italiano con un accento slavo, graziosamente.

Scendiamo. Ella non ritrova il suo velo bianco. Lo cerchiamo inutilmente. Ella dice:

– Non importa. –

Prende, in cambio, una ciocca di tuberose. Scuote il capo per dissipare la vertigine del profumo.

L'accompagno per un tratto, fra le vigne e gli oliveti, sino alla vettura che attende su la strada settignanese. Il vespro odora di mosto. Qualche stella pùllula tra i lembi delle nuvole lacerate.

Che buona compagna! Che anima diritta e indulgente!

Ah, ma l'anima mia abita nella carne incomparabile di Amaranta!

Addio. Forse non ci vedremo più mai.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL