Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
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• 4 ottobre – domenica.

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4 ottobredomenica.

Il giorno di San Francesco d'Assisi! Una sera d'agosto, dopo aver preso il thé su la terrazza dell'Albergo Subasio nascondendoci dietro una pianta di gelsomini per suggere il sorso da bocca a bocca, entrammo nella chiesa già fatta più profonda e più mistica dall'ombra.

Un giovane monaco, che aveva la parlatura della terra d'Abruzzi, ci aprì la porta del cimitero. E rimanemmo qualche tempo tra i cipressi a respirare il profumo della divina morte. La cicala serafica non cantava più; ma le campane sonavano l'Ave, e i neri alberi gracili parevano vacillare sotto il fremito dei bronzi.

Amaranta era pallida ed estatica: aveva una voce di cielo nel cuore.

Ella mi disse:

– Non abbiamo visitata la tomba del Santo. Ed è l'ultima sera! –

Il monaco (era di pelo rossastro, di solida struttura, semplice e rude ma tuttavia aperto al sentimento della bellezza, foggiato secondo il buono stile della mia razza) il monaco ci indicò il colore ineffabile della vetrata – di quella a noi cara che rispondeva su l'altare del Crocifisso –, il colore vespertino della faccia esterna segnata dai piombi informi. Poi si mostrò disposto ad accompagnarci nel sotterraneo petroso.

Com'egli camminava innanzi, io trassi la mia amica dietro un pilastro e la baciai avidamente pel bisogno di sentire il sapore della vita in quel gelo funereo.

La chiesa era tenebrosa. Il monaco portava in mano un torchietto, la cui fiammella mobile appariva a traverso l'altra mano che la difendeva dai soffii. Passammo sotto la volta di Giotto, passammo sotto la Speranza che, accompagnata dall'Amore, pone l'anello nel dito della sposa Povertà.

Scendemmo nella cripta pomposa, ingombrata dalle statue colossali dei due Pii; e il mistero si disciolse, e la commozione si arrestò.

Risalimmo: fummo ripresi dalla grande ombra piena di santa aspettazione. E il monaco volle condurci nella sacrestia e venerare le reliquie. Aprì gli alti armadii; e ci mostrò le povere cose consunte in custodie di metallo gemmato. Ma egli esalava un così forte odore di capro, nella vicinanza, che ci divenne intollerabile. La mia amica impallidiva e vacillava. La trassi verso l'uscita. Ci soffermammo presso la tomba della Regina di Cipro. E, come il monaco seguace ci magnificava la festa del 4 ottobre, e le musiche e gli inni e le moltitudini, noi promettemmo di tornare per quel giorno in Assisi.

Pareva che in noi fosse la certezza d'esser congiunti per quel giorno e per sempre!

Uscimmo. Le stelle palpitavano già fra le nuvole lacerate. Amaranta rabbrividiva alla brezza della sera. Stretta a me, col viso nascosto sul mio petto, mentre il gran velo sventolava nella corsa, ella pareva tenuta da un profondo sgomento. I luoghi stessi parevano trasfigurati. Uno spirito soprannaturale fremeva negli alberi e nelle siepi. Entrambi eravamo entrati nello stato d'ansia mistica che precede le apparizioni.

Come l'automobile si arrestò con un sussulto improvviso, Amaranta levò il capo sbigottita e gittò un grido guardando innanzi a sé con gli occhi sbarrati. L'apparizione?

Un branco di pecore impediva il passaggio al Ponte San Giovanni. Il pastore spingeva la gregge con la lunga mazza. Ma, come la luce vivissima del nostro fanale l'irradiava, egli biancovestito assumeva un aspetto meraviglioso; e il suo gesto nel campo dell'ombra era immenso.

Anch'io, nella prima visione, invaso dal contagio, tremai dentro.

Allora con estrema lentezza, dietro la gregge che s'accavallava sollevando la polvere irradiata dallo sprazzo del fanale, percorremmo il dorso del ponte.

Vidi luccicare il Tevere sotto gli archi. Poi vidi scomparire il pastore e le pecore. La strada ridivenne buia e diritta. Perugia, coronata di lune elettriche, splendeva sul colle.

Nessuno di noi parlò. Nessuno di noi con la parola dissipò il mistero. Sentivo Amaranta palpitare sul mio petto; e le mie braccia la stringevano e la proteggevano.

Una nuova bellezza pareva sorgere dal nostro amore minacciato.

Chi mai avrebbe potuto divinare questa fine?

Ho veduto il dottore.

La malata è fissa nel medesimo tormento, nel medesimo odio ostinato d'oblio. Il padre è sempre lontano, ma già perfidamente fu annodata l'orditura della rete che deve strappare dalla mia vita, se non ahimè! dal mio cuore, la donna del mio cuore e della mia vita.

La parola del sangue e dell'anima sarà sopraffatta dalle formule della carta bollata. La convocazione davanti al Presidente è per il 7 mercoledì. La data è fatale. Si compie un mese dalla notte orribile.

Il fratello, venuto in fretta, ha chiesto al dottore un certificato utile: non v'è più salvezza, dove omai non si parla che un linguaggio nemico dell'amore.

Vani i miei tentativi! Il fato è inevitabile. Tutto è destinato al più tristo dei naufràgi.

Or è un anno, ero pieno d'una calda energia. La mia opera era compiuta.

Avevo lavorato ventidue ore di séguito, nell'ultimo impeto: dalle nove della mattina di mercoledì alle sette della mattina di giovedì, senza mai tregua, bevendo qualche uovo e mangiando qualche frutto su la stessa tavola della gioiosa tortura. Dianzi, ripensando a quello sforzo, mettevo ordine in un fascio di fogli pieni di note. E m'è capitata sotto gli occhi questa nota singolare:

«La stanchezza, dopo una giornata d'implacabile travaglio.

Egli è a mensa. Crede puerilmente di poter riparare, mangiando molto, alla dispersione delle sue forze. È estenuato, esasperato. Ride, senza sapere perché, di un riso nervoso, incoercibile; e domanda alla sorella:

Perché ridi?

Poi si copre gli occhi che d'improvviso gli si riempiono di lacrime.

La madre ha il cuore stretto di pena e di pie. Ella gli offre i cibi, scegliendoli; gli offre le frutta, le confetture, il vino.

Prendi, – ella diceprendi, mangia, ristòrati, figliuolo mio.

Egli attonito vede intorno al suo sogno tenace i gesti materni, la forma delle bottiglie, delle scodelle, dei pani, dei frutti, di tutte quelle materie insensibili che debbono nutrire quel suo corpo stanco ond'è scaturita la divina Bellezza...

Sentimento mistico della sua consunzione, della volontà che lo fa macro, della rinunzia eroica ai piaceri, dell'offerta di sé – di sé giovine e ardente e avido – alla Poesia».

È una nota dell'anno 1899.

O potenza decaduta!

Ma, or è un anno, stasera anelavo al premio. Una lettera di Amaranta3 ottobre 1907dice:

«Ti rivedrò sabato! Sono felice. Ti rivedrò! Scrivo subito al Sole una lettera turchina perché sabato non si colchi. Gioia! Vieni, vieni, vieni. Sapremo essere felici...»

Tutte le promesse erano in queste parole; e tutte furono mantenute, con un'audacia folle, di dalla speranza.

A quest'ora ordinavo le pagine del poema che dovevo portar meco per deporlo su le ginocchia belle. Era la vigilia del desiderio e della gloria!

Anche questa è una vigilia. Non so perché, sento che debbo ancor salire nel dolore... Il domani ha un volto di carnefice spietato.


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