Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Solus ad solam
Lettura del testo

• 5 ottobre – lunedì.

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

5 ottobrelunedì.

DALLE LETTERE A GIUSINI

I

2 luglio 1906.

Gentile Amica, eccoLe alcuni dei libri promessi, per le lunghe ore di Salso. Oso offerirne due dei miei in memoria dei bei giorni milanesi troppo brevi, rinfrescati dalla Sua grazia e dalla Sua voce che fanno un solo accordo inimitabile.

Io parto, ma spero di rivedere presto Lei, L. e i cari ospiti. A tutti mando i miei saluti più affettuosi. E Le bacio le mani devotamente. Gabriele d'Annunzio.

La Versiliana, Pietrasanta in Lucchesia,

5 luglio 1906.

Cara Contessa, è arrivata sana e salva a Salso? Ha incominciato la cura e la lettura?

Penso a Lei – mi perdoni – con un poco di pie, mentre tutta la pineta odora intorno a me e il Faro del Tino già comincia a brillare laggiù tra i vapori violetti. Che fa? Come passa il tempo? fra quattro pareti? Non so perché, imagino che il suolo di Salso produca guardie di finanza gialle e nere, come questa mia spiaggia produce i divini gigli chiamati pancrazii. Penso ch'Ella debba rimpiangere perfino il viaggio al Polo Nord.

Io sono stato accolto con pazza gioia dai miei innumerevoli cani; che sono il terrore del vicinato. Nella mia assenza hanno già trucidato una cinquantina di polli e di anatre! Ieri li ho condotti a gran galoppo su la spiaggia, tra le grida dei bagnanti e dei pescatori. Son rimasto a cavallo tutto il giorno; e nella stanchezza ho ritrovato il sonno.

Ad Aligi e a Malatestino ho già parlato dei due omònimi. Entrambi sono sauri, e con i due Suoi potrebbero formare un magnifico tiro a quattro. Quando Ella andrà a Giovi, spero che vorrà darmi notizie delle Sue cavalcate.

Qui il terreno è eccellente. La macchia è attraversata da larghi viali sòffici su cui si galoppa senza rumore, come in sogno. Di tratto in tratto, per qualche radura, s'intravede il Tirreno che da Circe ha imparato a sorridere immortalmente, o s'intravede l'Alpe solitaria che sembra ancóra sotto il dominio di Michelangelo. Non so quale delle due bellezze è più insigne. La mia malinconia ondeggia tra l'una e l'altra.

Ha notizie di Piuchebella e d'Ibis? Si ricorda delle ore allegre? Ci ritroveremo presto?

Io partirò per Roma la notte di sabato; ma rimarrò due o tre giorni appena. Né so ancóra se tornerò a Milano.

Ad ogni modo, voglio ripetere ancóra una volta: A rivederci!

Mi saluti cordialmente L.; e creda alla mia profonda devozione. Gabriele d'Annunzio.

La Versiliana, Pietrasanta in Lucchesia,

28 luglio 1906.

Cara Contessa, come devon esser belli al tramonto i cipressetti intorno alla villa e le alte siepi di busso! L'orologio, sul vèrtice, suona le ore? e la banderuola stride al vento? Non sa che ho girato molte volte intorno a Palazzetti e mi son perduto nel bosco?

Io passavo da Giovi, or son quattro anni, quando ero a Romena. Ma non sapevo che di dalle vigne un'Amaranta biancheggiasse al rezzo d'una vecchia villa toscana evocando le statue assenti.

Lei beata! Io sono qui tra mille afflizioni che mi turbano la meritata pace. E il sale del Tirreno non mi fu mai tanto amaro.

Che fa L.? Sento ovunque sonare le lodi del suo cognac; e mi rammarico di essere astemio. Andrà con Lei a Livorno per la notte delle stelle filanti? Spero che ci rivedremo.

Malatestino e Aligi mangiano molta biada? Ha cominciato a montarli? Vorrei mettere un pezzetto di zucchero nella lettera per quello, dei due, ch'Ella preferisce.

Ha notizie d'Ibis e di Piuchebella?

Io non sono più stato a Milano; e so che il Polo Nord è crollato e che tutti i pinguini son morti.

Le auguro pace e frescura; e Le bacio le mani devotamente. Gabriele d'Annunzio.

La Versiliana, Pietrasanta in Lucchesia,

31 luglio 1906.

Cara Contessa, ieri in una casa di campagna, verso Massa, di da quel divino Cinquale dove nelle notti di luna vanno a dissetarsi le Sirene, trovai un piccolo orologio a sabbia, un «polverino» non destinato certo a esser tenuto dalla mano adunca e rugosa del Tempo ma a misurare forse le brevi gioie di qualche Amaranta già sfiorita e sepolta e obliata. Il fluire della sabbia dura pochi minuti, ed è silenziosissimo. Pensi all'immensità della sabbia che splende e arde su questo lido, immobile! Come devono esser tristi quei granelli prigionieri!

Le mando il piccolo orologio d'avorio ingiallito. Lo tenga su la Sua tavola, accanto a un fiore gracile.

Si ricorda di quei versi ansiosi?

«Come scorrea la calda sabbia lieve

per entro il cavo della mano in ozio,

il cor sentì che il giorno era più breve.

E un'ansia repentina il cor m'assalse

per l'appressar dell'umido equinozio

che offusca l'oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la mano

era, clessidra il cor mio palpitante,

l'ombra crescente d'ogni stelo vano

quasi ombra d'ago in tacito quadrante».

Gabriele d'Annunzio.

Hôtel Helvetia, Firenze, sabato.

Cara Contessa, sono rimasto fino a mezzogiorno e mezzo nell'orrendo fetore del prossimo. E debbo tornare in Pretura alle tre! Mi compianga. Non avrò il modo di venire a trovarLa alla partenza.

Porti il mio saluto ai cipressetti e all'Arno ghiaioso. E non dimentichi di mandarmi di tratto in tratto qualche notizia.

Che la solitudine agreste Le sia benefica.

Io tornerò alla Versiliana domani.

Le bacio le mani con profonda devozione. Il Suo Gabriele d'Annunzio.

Hôtel Cavour, Milano, 16 settembre 1906.

Cara Contessa, i buricchi trotterellano ancóra per le straduzze del Cairo; il Gigante imperturbabile continua ancóra a dire con lo stesso accento: «Montrez vottte main, Môssieùallargando le sue cinque dita; e i tre pinguini escono ancóra dall'acqua oleosa scotendo il capo stupido e i moncherini delle ali, e restando poi immobili nella loro malinconia muta dinanzi al ghiaccio di cartone e alle foche impagliate. Tutto è come in quei giorni lieti; e io non ho mancato di fare una commemorazione interiore davanti ai buricchi, al Gigante e alla trinità dei pinguini.

Mancano Piuchebella, Ibis e Amaranta.

Io riparto domani per Bologna-Firenze-La Versiliana.

Riceverà una scatola di réfrigeratif (ménta) ch'Ella ama.

Boccalone della Fracassa, conducendo in automobile a Varese Richard Strauss e me, ha rovesciato un carro con tutto il cavallo! Tutto un fianco della vettura s'è sconquassato, e Boccalone è rimasto ferito a una gamba non lievemente: giusta vendetta della Paura di Amaranta, su la stessa via.

Milano è piena di gente mondana. Tutta Roma, tutta Napoli e mezza Firenze è qua. Ho riveduto persone che non incontravo da anni. Non manca il nero Tiranno delle Marionette, contornato di Colombine; non mancanoCarlino PlacciClemente Origo. M'aspetto da un momento all'altro l'Aggrottato.

Di Piuchebella e d'Ibis non ho notizie. E non ho tempo di correre a Imbersago.

Forse, nel ritorno, scenderò a San Donnino, mi fermerò alcune ore a Salso, dove certo la luce del Suo passaggio perdura.

Mi perdoni questa lettera senza capocoda. La città, sempre, mi rende idiota.

Auguro a L. la più copiosa vendemmia e a Lei le cavalcate più lente e a Malatestino la più pecorile mansuetudine.

Le bacio le mani devotissimamente. Gabriele d'Annunzio.

La Versiliana, Pietrasanta in Lucchesia,

4 ottobre 1906.

Cara Contessa, che rammarico di non trovarmi fra una così grande abondanza di grazie e di allegrezze!

La cartolina piena di saluti mi porta un soffio fresco nell'arsura della fatica. Mi par di udire le voci e le risa felici. E prendo in odio questa atroce tavola carica di fogli e di volumi.

Non ha pie di me? Il Suo cuore è duro.

La prego di ringraziare per me tutti i Suoi ospiti; che spero di rivedere, se non morirò avvelenato dall'inchiostro orrendo.

Mi saluti anche la Magdalena nell'ombra del Duomo, se va ad Arezzo.

Ieri scrissi un rigo a L.

Più che l'amore si rappresenterà a Roma il 27. Verrà?

È notte; e ho da lavorare sino all'alba! Palazzetti (ho uno scrupolo grammaticale: Palazzetti o I Palazzetti?) è piena di respiri tranquilli e di sogni beati.

Le bacio le mani che certo sanno di uva paradisa. Gabri.

Roma, Grand Hôtel, sabato.

Gentilissima Contessa, grazie della Sua lettera così cerimoniosamente cortese; ma un semplice filo d'erba, colto in un prato di Palazzetti, mi sarebbe parso più eloquente e mi sarebbe stato più caro.

Molto mi duole che L. stia poco bene. Spero che, a quest'ora, ogni malessere sia dileguato. Lo saluti da parte mia, e gli dica che domani sera si vedrà la gran virtù del suo Champagne.

Roma è bella, sempre; ma l'ombra del teatro è orrenda. Io sono tranquillissimo; e tutto questo rumore, che si fa intorno all'opera mia e alla mia persona, non mi tocca. Qual miserabile cosa è la gloria decretata dalla folla!

Il Grand Hôtel è quasi deserto. Si ricorda di quella gaia sera lontana?

Le bacio le mani con profondo rispetto. Gabriele d'Annunzio.

Napoli, 11 novembre.

Cara Amica, come vorrei che fosse su questa portentosa terrazza in faccia al Golfo!

Il sole è qui ancóra «un dio che ride».

Ave. Gabri.

(senza data)

Carissima Amica, grazie della piccola silenziosa compagna ch'Ella ha dato al mio lavoro. È già qui, su la tavola; e mi guarda senza scodinzolare.

EccoLe finalmente un saggio dell'Acqua Nunzia. Vedrà, su sé stessa, il prodigio.

Saluti affettuosi a L. Spero che ci rivedremo presto. Le porterò il buon Gog.

Buon Natale!

Il Suo devoto Gabriele d'Annunzio.

Venerdì sera.

Cara Contessa, son tornato oggi da Roma, con un disperato amore di Roma. Iersera vidi la città dall'alto del palazzo Zuccari; e la passione si riaccese e divampò.

Come ha passato Ella il Natale?

Mi dica se vuole Gog e quando debbo consegnarlo alla nuova padrona. L'appartamento canino è pronto?

Il Suo devoto Gabriele d'Annunzio.

La Capponcina, Settignano di Desiderio, Firenze, mercoledì.

Cara Amica, ecco i libri che ho trovati alla Capponcina, per ora. Troverò certo anche gli altri. Aggiungo una cosa assai più viva: un mazzo di violette che ho colte dalla parte del sole.

Buona sera! Il Suo Gabriele d'Annunzio.

Ho telefonato tre volte per dare a Gog il saluto di Silvio, ma il Suo telefono era morto.

(senza data).

Mia cara Amica, ieri vidi Gog che mi accolse con grandi feste. Vorrei tornare oggi per vedere anche la nuova padrona (pidronadice Gog), ma sto male. Ho uno dei miei orrendi dolori di testa: da più notti non dormo. Rimango al buio, sperando che si calmi.

Le mando una buona nuova che forse farà piacere a Lei e a L. A Torino la mia tragedia ebbe iersera un successo entusiastico: ventisei chiamate!

Verrò domani a farLe una piccola visita, e spero che sarò meno sfortunato. Le furono consegnate le violette bianche della Capponcina?

Il Suo devoto Gabriele d'Annunzio.

Domenica sera.

Cara Contessa, torno soltanto ora nel nascondiglio (sono le sette di sera) e trovo la Sua lettera che mi getta nella più cupa disperazione. Troppo tardi! Non v'è al mondo cosa più crudele di queste due parole bisillabe.

Stamani son partito per la Capponcina alle nove. Ho assistito lassù alla medicazione di Danchi. (La bella bestia dagli occhi di cortigiana è salva: non resterà zoppa, come temevo: laus deae!) Poi ho fatto una passeggiata a cavallo. E alle tre sono andato in Via Bolognese, da M.me F., dove ho veduto i più bei libri e le più belle rilegature che abbiano mai fatto tremar le vene di un bibliòmane. La Capponcina m'è parsa una miserabile capanna. E molto arrossirò quando avrò l'onore della Sua visita annunziata.

Il modo più rapido e più sicuro di comunicare con me è quello di chiamarmi al telefono 634.

Si metta d'accordo, per l'ora e pel giorno, con la Sua amica gentile; e mi avverta. La Capponcina è disabitata e gelida. E bisogna ch'io dia gli ordini per accendere i fuochi, tutti i fuochi.

Mi perdoni, dunque, il contrattempo.

Le bacio le mani con la devozione ch'Ella omai conosce sicura. A rivederci! Gabriele d'Annunzio.

Roma, 25 febbraio 1907.

Mia cara Amica, avrei voluto venire a salutarLa prima di partire per Roma, ma la partenza è stata improvvisa. E ora sono in mezzo a un gran numero di cose tristi e fastidiose, rimpiangendo la pace fiorentina e la facile vita di codesto meraviglioso villaggio.

Non ho ancóra veduto nessuno del mondo. Ho evitato il rumore del Grand Hôtel. Oggi ho montato a cavallo per saltare qualche staccionata; ma la tramontana tagliava la faccia.

Per la rappresentazione della Nave non fu ancor nulla deliberato. Domani sarà detta l'ultima parola. Ma penso che sarà difficilissima impresa allestire un così grande spettacolo in poche settimane.

Ho accettato di commemorare Giosue Carducci a Milano, dove la celebrazione sarà fatta con straordinaria solennità da tutti i cittadini, forse alla Scala. Il trigesimo cade il 17. Il 18 è la mia festa. Il 19 è quella di Giusini. Perché non verrebbe Ella con L. a Milano in quella occasione?

Ella che fa? È ridiventata mondana? Domani La imaginerò – di lontano – allo Skating, nell'abito di Redfern.

Oggi prendo il thè solo nel mio appartamento; e, dopo tre tazze, ho ancóra il freddo nelle ossa; e non riesco a vincerlo. Che tramontana verso Castel Giubileo! Ho paura di avere attrapé le Mal, come diceva Tartarin de Tarascon.

A rivederci, cara Amica. Non mi dimentichi. Dica per me tante cose buone a L.; faccia per me una carezza leggera a Gog. Se ha commissioni romane, mi scriva sùbito. Credo che ripartirò presto.

Le bacio le mani con la devozione sicura ch'Ella omai conosce. Gabriele d'Annunzio.

La Capponcina, Settignano di Desiderio, Firenze,

19 marzo 1907.

Cara Amica, grazie dei buoni augurii, a Lei e a L. Hanno confortato un giorno di troppo duro lavoro.

Le offro in un vecchio e rozzo boccale di Montelupo un candido gonfalone di primavera. Tale è veramente la grazia di Amaranta nell'antico palagio di pietra.

E che cosa potrei dunque augurare ad Amaranta se non la perpetui del fiore e del profumo?

Vivas, valeas, floreas! Gabriele d'Annunzio.

Milano, Hôtel Cavour,

27 marzo 1907.

Cara Amica, questi giorni milanesi sono stati pel povero Gabri un lento martirio. Ogni buon meneghino voleva masticare almeno una molècola di me; e non m'è rimasto se non qualche osso indolenzito.

Lo spettacolo del teatro era veramente mirabile. Non avevo mai veduto un così profondo mare umano.

Due soli momenti hanno interrotto quella malinconia che mi occupa ogni volta che io debbo offrirmi in pasto alla folla: il momento in cui sono apparso nel teatro, e il momento in cui ho veduto le officine del Corriere fragorose partorire i trecentomila esemplari del discorso che dovevano spargersi per l'Italia. Erano due segni certi del dominio spirituale di un poeta; il quale però preferisce le morbide orecchie dei suoi cani e le villette della Capponcina solitaria.

Non ho ancóra veduto Piuchebella. Un amico mi disse ch'era malata; e non ho avuto il tempo di passare in via Cernaia. Le ho scritto un rigo or ora. Spero di vederla oggi.

I miei ospiti fedeli sono ancóra qui con me. Che fedeltà esemplare!

E Amaranta che fa?

Riceverà le solite dolcezze di Santa Margherita.

Mi ricordi a L.; e accarezzi Gog. Le bacio le mani devotissimamente. Gabriele d'Annunzio.

Domenica, 28 aprile.

Cara Amica, L. mi aveva detto che si trattava di cosa leggera, e io speravo ch'Ella fosse già guarita. Ma stamani ho avuto notizie non liete dalla buona voce di Suo padre, che ringrazio di tanta cortesia.

So com'è triste la malattia, e la tristezza è forse accresciuta dal ritorno intempestivo dell'inverno. Per ciò ardisco mandarLe un fascio di rose chiare che Le daranno l'illusione della primavera fuggiasca. E in ogni foglia è il mio più vivo augurio di bene.

Vorrei che Cinerella non Le desse troppa noia. Spero che non si sia mostrata troppo indegna del passaggio dal rude canile alla tiepida stanza.

Guarisca presto! Il Suo devotissimo Gabriele d'Annunzio.

16 settembre 1907.

Cara Amica, sono tentato di mandarLe un vocabolario al giorno – i vocabolarii delle lingue di Babele – per ricevere da Lei lettere gentili come questa. Ma non abbia paura. Sono discreto. Ieri Le spedii un vocabolarietto «piccino piccino» anzi «pizzino pizzino» – come Ella dice – e due grammatiche!

Quando La rivedrò, non La riconoscerò, tanto sarà anglicizzata, e forse un pochino protestante o metodista.

Beata Lei che vive in tante delizie! Il povero Gabri lavora non come un cane – i cani sono le più oziose bestie della terra – ma come uno spaccapietre solitario sul ciglio di una strada bianca che non finisce mai.

Come Le dirò la mia desolazione in questa casa lùgubre?

Il Suo invito è tentatore. Forse alla fine della settimana dovrò fare una gita a Trieste. Verrò prima? o al mio ritorno?

A rivederci, cara Amica. Oggi qui l'Estate è veramente morta. Tira un vento di novembre sotto un cielo basso. Gli ultimi fiori degli oleandri volano via. Penso ai Suoi ciclamini e alle ghiaie dell'Arno.

Le bacio le mani. Il Suo sempre Gabriele d'Annunzio.

18 ottobre 1907. La Capponcina.

Cara Amica e sirocchia, da che ho lasciato (e con quanto rammarico!) la pace dei Palazzetti sorrisa dalle Muse, sono in tormenti di spirito e di corpo: – molti fastidi e un tristo malessere. L'Eremo mi par soffocante. Sospiro verso il duplice prato aperto e verso la pianura limitata dalle colline molli, che vedevo la mattina quando aprivo le finestre al sole dopo il sonno profondo.

Non so dirLe quanto io sia grato a Lei e a L. dell'ospitalità semplice e larga. Da grandissimo tempo non avevo goduto giorni così obliosi e deliziosi. E, veramente, dopo tanta fatica, non avrei potuto ricevere premio più dolce. Non dimenticherò mai le belle ore di amicizia tra le vigne e tra i boschi, alla mensa e su l'erba. Quanti ricordi freschi! I grappoli pesanti di Mucciafora, la merenda al Calderino, la colazione nella pineta, la salita di Marcena, il chiuso dei Lambardi; e poi la casa di Mentastra, l'aia del Bottaccio, la Mirabella, il ròccolo... Chi sa quanti tordi prende in queste mattine d'argento l'uccellaio! Chi sa che bei tramonti dalla terrazza aerea su l'Arno! Chi sa come sono teneri gli ultimi ciclamini nell'ombra di velluto! Come La invidio, cara sirocchia, come La invidio!

La mattina della partenza trovai alla stazione un cagnolino, alquanto brutto. Per farLa ridere, lo diedi a Roberto che lo portasse. Ma La prego di non tenerlo. È un bastardello. Lo regali a uno de' Suoi contadini. Se vuole un cagnolino piccolo piccolo come quello di Tera, me lo dica. Lo troverò.

Io ho potuto evitare di andare a Zara. Avrei dovuto con grande disagio imbarcarmi ad Ancona su uno di quei piroscafi settimanali che fanno la traversata ballando furiosamente fra il lezzo nauseabondo della sentina. Vado invece a Fiume, dalla parte di Venezia, in ferrovia. Le manderò notizie d'oltremare. Porto meco il manoscritto che s'impregnò di buona fortuna stando tre giorni nella Sua stanza e tra le Sue mani amiche. Spero di tornar presto e di venire un giorno a colazione, dalla mattina alla sera, prima di partire per Roma.

Come passa ora le Sue giornate? Le spedirò qualche libro. Riceverà anche, o ghiottissima, una collezione di marmellate e una scatola di biscotti Coronation – che mi sembrano migliori dei Maizena.

A rivederci. Mi ricordi ai bòssoli dolciamari, e ai cipressi pieni di còccole, e ai ciòttoli dell'Arno.

Quando ha tempo e voglia, mi ricopii quei nove sonetti che vorrei limare perché fossero meno rozzi.

Grazie ancóra una volta, a Lei e a L. Spero che mi si presenti l'occasione di dimostrare all'una e all'altro quanto sia profonda la mia gratitudine. Le bacio le mani.

Il Suo devoto Gabriele d'Annunzio.

Settignano, 7 novembre 1907.

Gentile Amica, sono tornato all'Eremo austero e ho ricominciato a lavorare nella più stretta clausura. Sono circondato di un altissimo silenzio; ma mi sarebbe caro di ricevere qualche segno dalla parte dei Palazzetti, poiché il ricordo della bella tregua è sempre vivo.

Ho saputo ch'Ella è stata di recente in Firenze (ho anch'io la mia cronaca); e non ha pensato neppure a confortare di un saluto telefonico l'Eremita! Questo è quasi imperdonabile. Sarei stato molto contento di rivederLa, anche per pochi minuti, e di ritrovare sul Suo viso lo splendore della Mirabella.

Mi scriva una lunga lettera per farsi perdonare e mi dia notizie dei cristiani, delle bestie e delle piante. Io Le scrissi lungamente prima di partire; e da Venezia e d'oltremare mandai saluti a Lei, a L., a Sua Altezza Imperiale l'Arciduchessa Adele e perfino al Savio del Bottaccio. Non so se i saluti sien giunti. La sirocchia Pigrizia ha preso stabile dimora ai Palazzetti?

Da due giorni qui è incominciata l'Estate di San Martino, e spero di riudire il canto intempestivo delle cicale come nel 1898. Chi sa come s'indora costì il bronzo dei cipressi! È una gran pena questo rimanere inchiodato alla tavola del travaglio, mentre la nebbia delicata tesse le tuniche azzurrine delle Ore tra solco e solco a guisa d'una tessitrice sopra un orditoio bruno.

Il tempo incalza. Fra pochi giorni andrò a Roma. Forse mi fermerò a Perugia per qualche ora, a salutare gli angeli d'Agostino di Duccio. Passando da Arezzo manderò un saluto aereo ai Palazzetti, e sospirerò il riposo.

Con questa mia riceverà una piccola scatola misteriosa. L'apra con cautela perché contiene una cosa formidabile: un artiglio! l'artiglio di uno sparviere!

In un pomeriggio piovoso, a Venezia, scopersi tra un vetro di Murano e una placchetta di bronzo quello strano fermaglio. E sùbito pensai alla sparviera della Mirabella. Chi sa quale storia, chi sa quale ricordanza è legata alla branca dalle unghie d'argento!

La cosa non ha alcun valore né di materia né d'arte; e ho un poco di vergogna nell'offerirla a Lei. Ma forse Le piacerà di portare qualche volta il segno adunco, per la singolarità del caso. Mi perdoni e sorrida.

Incomincia per me un periodo laboriosissimo. L'arsenale, anzi l'arzanà, ferve di sforzi pel varo. Si ricorda? La Nave rimase due giorni nella Sua stanza, in quel misterioso secondo piano, come fermata su l'àncora in un porto profondo. Questo è per me l'augurio migliore.

Addio. Mi risponda presto! E creda alla mia devozione sincera. Il Suo Gabriele d'Annunzio.

DALLE LETTERE AL DOTTOR NESTI

Settignano, 27 giugno 1907.

Caro dottore, la Donna gentile mi ha parlato qualche volta di Lei come d'un savio che, inclinato su i mali della carne miserabile, è curioso del mondo interiore e 4atto a comprendere i modi più diversi della sensibilità umana.

Ora la Sua buona lettera mi fa ripensare a quella rappresentazione d'un mio triste romanzo, ove un coro di sapienti si aduna in un oratorio remoto per abbandonarsi alla Musica che esalta i sogni.

Non so dirLe quanto mi piaccia che le pagine ardenti dei miei poemi sieno voltate da mani come le Sue, consapevoli della Vita e della Morte.

Sono io, dunque, che ringrazio Lei e la Donna gentile.

Anche spero di conoscere più da vicino – prossimamente – l'amico della mia poesia; al quale nasconderò i miei mali perché egli continui a non vedere in me se non un puro spirito.

Accolga il mio schietto saluto. Gabriele d'Annunzio.

15 settembre [1908].

Mio caro amico, ho passata una notte orribile. La vicinanza mi ha dato angosce e allucinazioni fino all'alba. Respiravo la follìa.

Stanotte la casa era tutta chiusa e pareva deserta. Nessuna voce, nessun gemito.

Parto nel vento. Non riesco a placarmi e a dominare il dolore. Non tornerò se non a notte alta. La vedrò domattina. Oh, se mi portasse una buona parola!

È troppo triste e troppo bassa questa fine d'un amore che fu fatto di bellezza e di coraggio.

Grazie di tutto, non dimenticherò mai la Sua assistenza di questi giorni. Il Suo sempre Gabriele d'Annunzio.

19 settembre 1908.

Mio caro amico, nella mia recente visita alla Sua casa ho scoperto ch'Ella ama i bei libri.

Mi consenta di offerirLe con gran cuore questo libro portentoso ove il Vincistudiando da anatomico il corpo umanogiunge nei suoi disegni alla luce del più alto Stile.

Si comprende – dinanzi a queste pagine – come in verità non vi sia nel mondo se non un tempio: quello ove abita la nostra anima.

Accolga fraternamente l'offerta.

La rivedrò con gioia domattina. Io non riesco a scuotere la mia malinconia fatta di rimpianto. Il Suo Gabriele d'Annunzio.

7 ottobre 1908.

Mio caro amico, le percosse brutali di ieri mi fanno dolente. Soffro di tutto, e non posso veder nessuno per oggi. Avessi le pàlpebre anche agli occhi dell'anima e potessi abbassarle per non guardare l'orrore che mi attira!

Non discendo. Resto qui. Cerco di ritrovar me stesso.

Le rendo la lettera delle rose.

Non so dirLe quanto io Le sia grato di quel ch'Ella fa per me. Verso uno spirito come il Suo le parole son vane.

Verrò domani sera a casa Sua.

Abbia ancóra molta pazienza, e cerchi di salvare quel che può essere salvato. Gabriele d'Annunzio.

18 febbraio 1909.

Mio caro amico, i Suoi malati e morenti lo hanno tolto troppo lungamente a me ancor vivo se bene afflitto.

Parto stasera senza averLe parlato!

Vado per tre giorni al Cap-Martin (Grand Hôtel); poi a Milano (Hôtel Cavour).

Come rimpiango le mie notti piene di febbre e di oblìo!

Ora comincia la fiera della vanità e della volgarità.

Vorrei qualche notizia della povera amica malata, a cui penso più spesso ch'io non voglia. È più tranquilla? qualche indizio di vita?

Tornerò certo nella prossima settimana. Le manderò una parola, di lontano.

Le stringo la mano, con sempre più calda amicizia. Il Suo devoto e grato Gabriele d'Annunzio.

DALLE LETTERE A GIUSINI

II

Arcachon (Gironde), Chalet Saint-Dominique au Moulleau,

10 novembre 1911.

Ho avuto una grande commozione nel rivedere la Sua scrittura, e una grande tristezza nel leggere una lettera tanto desolata ed estranea.

Di quei lontani e orribili giorni io tenni un diario, con la speranza ch'Ella potesse leggerlo e sapere quel che provai e quel che feci. Ora posso dire che il ricordo – e del bene e del male – non mi abbandona mai, anzi è in me come il mio soffio.

Le auguro la pace, coi miei più profondi vóti. Pensi che mi troverà sempre pronto a qualunque servigio. Le rivelazioni non mi mutano.

Il giorno 11 è sempre per me un giorno di rimpianto e di malinconia.

Le bacio le mani. Gabriele d'Annunzio.

Chalet de Saint-Dominique au Moulleau, Arcachon, Gironde,

25 agosto 1912.

Ero perplesso. Credo che questo modo non sia sicuro. La curiosità malsana è tanta che più volte m'è accaduto di sapere sottratte le lettere inviate alla posta. La stessa provenienza può risvegliare l'attenzione; poiché omai tutti sanno...

Ma, ad ogni modo, scrivo.

E la forma cerimoniosa mi sembra così strana e inumana fra noidopo tanto legame – che chiedo perdóno di averla abolita.

Credevo che, risvegliandosi, Giusini avrebbe ritrovata istintivamente nel suo cuore la verità. E vedo che il dubbio ondeggia ancóra su la sua tristezza!

Io avevo il presentimento di questo. Perciò – la prima volta nella mia vitascrissi la storia cotidiana dell'atroce sciagura. Questo giornale va dal 8 settembre (Natività di Nostra Donna) al 5 ottobre. Comincia così: «Scrivo per veder chiaro in me e intorno a me. Sembra che il sole si sia oscurato e che la mia notte insonne continui senza fine. Accendo una lampada perché io vegga, perché i tuoi cari occhi veggano quando si risveglieranno. Ti rimanga almeno la testimonianza del mio amore vigilante e fedele...»

Vigilante e fedele fu sino all'ultimo.

Ho qui i quattro piccoli volumi che nessuno ha mai violato. Solus ad solam. Li ho scritti perché tu li leggessi. Un giorno li leggerai. Forse ci rivedremo. Potrò metterli fra le tue mani.

Sono passati quattro anni. Cade il quarto anniversario dei giorni orrendi. Ti ricordi del mattino di Compiobbi? e di quello che seguì?

E, più innanzi, ti ricordi del sogno di Perugia?

Tutto è qui detto, con l'anima nuda. E v'è un testimone leale della mia sincerità profonda: il dottore.

Quando passasti alla casa di Via Cherubini, tutte le notti riempiei di ciclamini i davanzali. Una notte scopersi una fessura fra le due persiane. L'allargai; e riescii a porre due mazzi contro i vetri. Il dottore mi disse ch'eran finiti nell'immondezzaio.

Troppo difficile è scrivere di queste cose. Ma forse un giorno ci rivedremo, e tu sarai convinta della verità inoppugnabile.

Il giornale fu interrotto il 5 di ottobre, quando l'amarezza mi soffocò.

Credo d'aver sofferto molto più di te, ch'eri smarrita in un cupo sogno, mentre io ero ferito in ogni attimo dalla realtà brutale.

Certo, io ti diedi tutto me. E tu mi scrivevi, dopo il martirio che sai: «In una notte di passione ho sentito la tua anima nuda; ed è nata in me una nuova anima. In questa tremenda angoscia ho conosciuto quanto mi amavi e di quale amore!...»

Questa è la verità, la mia verità, la nostra verità.

E tu sei sempre rimasta viva in me, così viva che tu ti stupiresti se io ti raccontassi certe cose.

Forse ci rivedremo. Forse passeremo insieme un giorno di malinconia. Ti mostrerò queste pagine, e ti racconterò di me, semplicemente.

M'auguro che questa lettera pervenga nelle tue mani. Sei ancóra, a casa tua, così poco libera?

Se debbo scriverti ancóra, dammi un modo più diretto. E mandami una parola, come tu abbia ricevuto questa.

È una giornata di tempesta. La landa si lamenta. Sono solo. Penso al piccolo giardino. Ho su la tavola qualche rosa bianca che si sfoglia. Penso alla creatura di neve.

Certo, qualche volta tu piangi pensando al tuo amico perduto. Gabri.

Chalet de Saint-Dominique au Moulleau, Arcachon, Gironde,

7-1912+1.

Cara piccola Giusini, come mai sei ancóra sotto tutela? Come mai non t'è neppur permesso di ricevere, a casa tua, una lettera esente dalla censura familiare? E come puoi vivere in questa condizione di servaggio domestico?

Vedo che non hai perduta la manìa di foggiarti pericoli imaginarii. In che modo potrebbe essere intercettata una letteraraccomandata – dal tuo avversario?

Il quale, tra le altre cose, non è a Firenze. Ed è la sola notizia ch'io abbia di quel signore, dal tempo della ruina.

Non l'ho mai più veduto dalla notte di San Gemignano.

E come puoi aver creduto a un «ravvicinamento»? E come puoi ancóra prestar fede a tutte le malvagità che senza tregua si esercitano contro il tuo amico?

Ah, quando potrò lasciarti leggere la storia di quelle vere settimane di passione?

Questa lettera è una lettera di esperimento. Ti riscriverò quando avrò saputo che il sotterfugio riesce. Che precauzione inutile e bambinesca!

Penso a te tutti i giorni. Ho accanto a me sempre, mentre lavoro, il piccolo levriere d'argento che porta inciso il nome di Amaranta. E non posso rivedere senza un profondo turbamento quella rosa che, insieme col ciclamino, sta tra i due vetrini. Brucia ancóra, brucerà sempre.

Ah, quanto vorrei raccontarti!

Perché non vieni?

Ti ricordi di tutto? Ti ricordi di quel primo autunno, di quel primo inverno?

Il 11 di febbraio è prossimo. La campana del cancello, nella sera nebbiosa, suona ancóra in fondo ai miei sogni torbidi.

O tristezza!

Eppure, se tu entrassi qui stasera, con la tunica verde, mi sembrerebbe di non essermi separato da te mai.

Ah, come ti desidero ancóra! Gabri.

Chalet de Saint-Dominique au Moulleau, Arcachon, Gironde,

18 marzo 1912+1.

Cara mia piccola Giusini, morivo di malinconia stasera, solo solo, in mezzo a questi alberi pieni di bruchi, davanti a questo mare cupo; quand'ecco mi giunse, nel tempo medesimo, la tua lettera violetta e la tua paroletta freschissima. Nessuno mi aveva mandato l'ulivo, e tu hai pensato a mandarmelo. Come ti sono grato! E che darei stasera per averti qui, per cenare con te su quel divano come sul divano di lassù, quando le tue ginocchia erano coperte di rose sfogliate.

Da due o tre giorni ho terminato un'opera di teatro che si rappresenterà a Parigi nella seconda metà di maggio. Io sarò dal quindici di aprile in poi. Non c'è nessuna speranza di rivederti? Non c'è nessun modo?

Iersera, in un taccuino, ho ritrovato alcuni fiori selvaggi colti lungo l'Arno, alle Cascine, nel primo aprile della nostra follìa, due mesi dopo la sera grigia della campana. Te ne ricordi?

Sai che da più mesi io sono qui solo, veramente solo? Stasera sono tormentato dall'imagine di te come non mai. Sei come un frutto, prossimo alle mie labbra e intangibile. Sono inconsolabile d'averti perduta!

Tutto quel tempo sembra ancor tanto vicino. Mi pare di sentire ancóra l'odore dei fiori di lilla che ti mandai in un boccale per la tua festa, una volta. Vorrei mandarti una «cosina» del colore che ami. Puoi riceverla?

Hai ancóra quegli anelli? Li porti?

Quante domande ti faccio! E come vane!

Nulla mai potrà rivivere, ahimè! Tu sei stata veramente l'ultima mia febbre. Ora bisogna ch'io mi prepari a morire.

Addio, dolce Amica. Rare volte mi sono sentito infelice come stasera. G.

(senza data)

Non ti so dire la mia ansie, quando mi hanno risvegliato. Da due notti, ti sogno sempre.

Perché non sei discesa qui, come allora?

Se tu m'avessi avvertito, ti avrei supplicata di venir qui. Non c'è quasi nessuno.

Ti aspetterò all'ora che mi dici, contando gli attimi.

Grazie d'avermi dato la gioia di rivederti, prima che il mio destino si compia. Il tuo Gabri.

30 dicembre 1916Terza Armata.

Piccola mia dolce, oggi viene a Firenze un ufficiale della mia Divisione; e, in fretta, gli do il mio libro da recarti. Qui non ho altro dono.

Penso molto spesso a te. Ma tu non mi ami più. Se mi amassi, troveresti il modo di venire sino a me. Come le ore ansiose e torbide di Roma sono lontane!

Ti rivedrò? Ti riavrò?

Forse passerò da Firenze, verso la fine di gennaio.

Tutti i ricordi e tutti gli augurii, e ancóra molta tenerezza e molta malinconia. Il tuo Gabri.

11 febbraio 1917.

Cara piccola Giusini, oggi è il 11 di febbraio, l'anniversario d'una sera nebbiosa e molle in cui i nostri cuori balzarono udendo sonare la campana del cancello... Te ne ricordi?

Nella vettura chiusa, io avevo quella voce roca e cupa che ti piaceva e ti faceva paura. Te ne ricordi?

Sono molto infelice. Il mio pensiero è fisso. Il mio cuore pesa verso terra. Non so ritrovare la forza, e non ritroverò più la gioia. Ma certo troverò la morte bella.

Penso a te, alle ore di ebrezza, al dono furioso di me medesimo.

Sono solo. E non posso più essere amato.

Grazie, anche una volta, per quell'antica febbre.

Non ho dimenticato nulla. E oggi il rimpianto è più che mai crudele. Gabri.

2 aprile 1918.

Piccola dolce, ho lasciato passare il giorno 11 di febbraio, Santa Giusini, Pasqua, in silenzio! Ma tu sai che nella notte di Bùccari pensai a te; e a te penso molto spesso, con malinconia, con rimpianto, e perfino talvolta con speranza.

Ho molta tenerezza per te. Il ricordo di Roma, a tratti, mi traversa e mi brucia. Non vuoi rivedermi?

Posso mandare a prendere il Solus ad solam?

Ne ho bisogno.

Che fai? Come vivi?

Preghi anche per me?

Io mi preparo a un'altra impresa tremenda.

Oggi l'imagine delle rose bianche su le tue ginocchia mi tormenta. Il tuo Gabri.

Ti ricordi di quella passeggiata d'aprile alle Cascine, lungo gli alberi d'Arno?

Ti ricordi di quella ammantata di merletto nero che salì nella mia carrozza?

24, 1922.

Cara cara Giusini, ho l'occasione della partenza di un legionario per Firenze. Sono malato. Ti scrivo dal letto, con pena.

Vidi ieri in un giornale la notizia della oscura morte di L. E tutti i ricordi di «Palazzetti» rifiammeggiarono.

Anche tu devi essere turbata. Voglio mandarti questa parola. Spero che ti giunga, e ti ricordi quella ardente felicità. Il tuo Gabri.

Fra giorni verrà l'Undici di febbraio!

Il Vittoriale, 7 novembre 1924.

Cara cara Giusini, ho una occasione, forse fida, forse infida, di scriverti breve.

Ho stamani la tua lettera, in uno dei miei più tristi risvegli. Senza volere, tu mi aiuti, tu mi consoli, tu mi prendi il capo e lo pieghi a te. Tutta la tenerezza d'un tempo troppo lontano affluisce al cuore dolente.

Sono sempre per te. Il tuo allarme è bizzarro. Ma tu sai che in nessun modo io vorrò farti pena.

Mi piace che la «Mirabella» non ti dispiaccia (sei così strana, spesso, nei miei riguardi!). Non ho toccato il disegno di Amaranta con infinita delicatezza? E non sei stata sopraffatta anche tu dalla malinconia?

Conta su me. Bisogna che non mi lasci andare a scriver troppo, nella incertezza del messaggero scemo. Smetto.

Perché non vieni per un giorno, per due giorni? (Possibilmente, senza esser portata per mano come una bambina timida).

Io posso ospitarti nelle stanze della «Leda», magnifiche e liberissime. Non ti offrirei l'ospitalità se non fosse – come è – quasi regale. Ho rinnovato miracolosamente il Vittoriale. Vedrai.

Ti bacio le mani – se concedifino al gomito. Gabri.

Il Vittoriale, 11 febbraio 1938.

Oh, ricordi dolci e laceranti!... E fu la mia ultima felicità. Gabri.


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL