Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Lettera ai Dalmati

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Lettera ai Dalmati

A ERCOLANO SALVI E A GIOVANNI LUBIN

Undique fidus

Undique firmus.

Amici, del non essere io venuto a parlare l’altrieri nella Sala dei Pregadi, quando alla costanza di Venezia povera voi diceste la passione delle vostre città deluse, si meravigliò e si adontò quella piccola gente che non la carità di patria aveva tratto ad affrontare in piazza i pericoli dell’acqua alta ma la solita curiosità teatrale. E la sua delusione per l’oratore assente parve anteporsi a quella dei vostri fratelli per l’assente Italia.

Della mia ripugnanza a sermonare una radunata comoda, dopo aver tante volte parlato breve a compagni pronti ed esser partito innanzi a loro, io non debbo giustificarmi. Con ben altro che con parole converrebbe oggi trattare la remissione e l’indifferenza, mentre la nostra guerra non soltanto non è finita ma è nel suo colmo. Che sieno compresi o mal compresi i miei silenzii, che sieno lodati o disapprovati, non me ne importa. La canaglia paesana, letterata ed illetterata, con denti e senza denti, con lenti e senza lenti, può continuare a vilipendermi in tutte le farmacie del regno, compresa la massima, che è la più lorda. Se prima della guerra la mia pelle era dura, oggi è sette volte più dura. E meglio che mai io posso scegliere il mio mezzo e il mio momento.

Voi lo sapete, amici. Mi diede più forza quell’ora di meditazione mattutina, nel vostro vecchio oratorio di San Giorgio, che non potessero darmene gli applausi e i clamori nella sala folta.

Ve ne ricordate? Il 7 di maggio, prima della guerra, due giorni dopo la Sagra dei Mille in Quarto, quando ci armavamo per salvare la Francia e il mondo, quando fissavamo le nostre mète ultime e certe, io attestai come la Dalmazia appartenesse all’Italia «per diritto divino e umano»: per la grazia di Dio, il quale foggia le figure terrestri in tal modo che ciascuna stirpe vi riconosca scolpitamente la sorte sua; per la volontà dell’uomo che moltiplica la bellezza delle rive inalzandovi i monumenti delle sue glorie e intagliandovi i segni delle sue più ardue speranze.

Ve ne ricordate? Il 15 di settembre, poche settimane prima della vittoria, quando voi mi donaste l’imagine del Leone di Curzola infissa in una lastra di marmo verde proveniente dal Palazzo di Diocleziano in Spalato, io rievocai quell’attestazione e dissi che veramente in ginocchio avrei dovuto ricevere il dono per me simile alla faccia di quel vangelo dalmatico su cui avevamo giurato il patto di guerra.

E io feci e con me i fedeli fecero un atto di divozione pura, in quel giorno, davanti a tutti gli altari di Dalmazia:

davanti all’altare di Zara;

davanti all’altare di Sebenico;

davanti all’altare di Spalato;

davanti all’altare di Traù;

davanti all’altare di Ragusa;

davanti all’altare di Cattaro;

davanti all’altare di Perasto, dov’è sepolto il gonfalone republicano bagnato d’un pianto che non s’asciuga;

davanti a tutti gli altari latini del litorale e delle isole, dove la nostra anima non vede sul leggìo se non il Libro chiuso, sgraffiato dall’unghia del Leone.

Ed ecco che l’altrieri, accompagnato da quella fatalità interiore che attira e domina l’evento, mi ritrovavo davanti all’altare veneto della Dalmazia tutta; dove il Primate era per riattestare il diritto divino.

Chi aveva riaperto la porta santa presso la riva intristita? Nella mano di un uomo umile una forza più grande della nostra stessa aspirazione.

Ero giunto primo, innanzi l’ora dell’officio. Non c’era nessuno. Non c’erano neanche le creature mute di Vettor Carpaccio. Non c’era più San Giorgio, e il suo cavallo. Non c’era più San Gerolamo, e il suo leone. Non c’erano più gli apostoli addormentati nell’Orto. Ma c’era la solitudine e l’angoscia di Cristo vegliante, ma c’era la solitudine e la preghiera dell’anima tradita: della vostra.

Ditelo laggiù, quando avrete ripassato il mare. È piccolo l’oratorio dei Dalmati, quasi un cofano di legno bruno ove sia rimasto un che del tesoro scomparso, un che dello splendore partito. L’avevano spogliato e serrato, sotto la minaccia delle distruzioni notturne. L’avevano disertato e dimenticato. Ma l’altrieri, così nudo e solo, era come un petto quadro in cui viva un sentimento senza limite. Era pieno d’un’anima che non limitavano le mura. Combattendo ci meravigliammo un giorno, davanti a certe ferite, che il corpo umano potesse dare tanto sangue. Tanta anima in così poco spazio! Tutto l’amaro dell’Adriatico non è nel sorso di chi s’annega? non è in una gocciola? Tra l’altare e la porta il martirio della Dalmazia grandeggiava come grandeggiano le potenze invisibili.

C’era un inginocchiatoio nel mezzo, con davanti un libro aperto; e nella pagina era l’antifona Ne reminiscaris… Ma lo spirito leggeva una lettera diversa: Reminiscere, Domine, delicta nostra et delicta eorum – ti sovvenga, Signore, dei nostri e de’ lor misfatti.

E i cuori votivi d’argento sospesi sopra il ciborio ebbero un gran palpito di luce quando la porta s’aperse.

Entrò un povero fante, avvolto nella mantellina bigia; e rimase immobile sotto l’inferriata, a capo scoperto. E aveva una cicatrice nella fronte; e non gli si vedevano le braccia. E somigliava ai fanti del Carso, a quelli che talvolta si dissetavano soltanto con la bora e con lo scirocco dell’Adriatico, a quelli che avevo veduti per doline e trincee confitti nella belletta color di dissenteria fino a mezza gamba, a quelli che avevo veduti sopra la paglia nella chiesa di Doberdò coricati presso l’altare dove in luogo dei sacri arredi stavano ammucchiati gli elmetti e le scarpe dei morti. Chi l’aveva mandato?

Il sacrifizio eucaristico principiava per me in quel punto. E dal vetro rosso dell’unica lampada, sospesa al soffitto, parve traboccare nel silenzio il sangue luminoso.

Di esso era vestito il Primate e non della sua porpora, quando entrò.

Poi gli furono messi dai canonici i paramenti ricchi; e il rito si svolse.

Ma sopra tutte le parole io non ritenni nel cuore se non quelle che mi disse uno di voi, il messo di Traù, piano, accostandosi. «Il cipresso nella fenditura è secco, su la porta di terraferma

Ma sopra tutte le parole, io non ritenni se non quelle del rimorso d’Italia. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Il Patriarca e Primate le proferì con così gran voce che risonarono nel presente nel passato e nell’avvenire.

Voi eravate pallidi, con un velo negli occhi. Il diritto divino era stato riconfermato. Il Primate aveva ripreso possesso del suo dominio spirituale. L’umile fante senza nome diveniva il più potente mallevadore. Devoto come lui, io gli ero testimone incorruttibile.

E in quella piccola chiesa dei Dalmati, come nella chiesa di Doberdò, come nelle altre chiese diroccate dalla battaglia e divenute giaciglio di feriti lungo i muri superstiti, l’altare per noi non ebbe più candellieripalmeciborioampollemessale né altro arredo. Ma lo gravavano gli elmetti e le scarpe dei morti: gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l’un su l’altro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue; le scarpe ch’eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e furono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi allineati su l’orlo della sepoltura; le spoglie del capo e dei piedi, ch’eran servite ai vivi per andare più innanzi e per morire a lor volta.

E, come su quell’altare, su tutti gli altari di Dalmazia era lo stesso mucchio: il peso del sacrifizio cruento. E c’erano anche le spoglie di Francesco Rismondo, non sceverate perché italiane nell’offerta italiana al Dio giusto.

E, come su l’altare carsico in vista del lago torvo, sola v’era la Sesta Stazione, sola fra tutte le imagini della Tragedia abbattute o distrutte.

Chi della tua terra, o Ercolano Salvi, portò la croce? Chi per anni ed anni gloriosamente portò la croce della tua Spalato come tu oggi la porti? Chi fermamente ascese il calvario come tu l’ascendi?

Antonio Baiamonti, che vedeva sul suo passaggio le donne inginocchiate e i fiori del vóto sparsi sul suo cammino.

Non c’era soltanto la sua figura; c’era il suo grande soffio, l’altrieri, tra le quattro pareti ignude. C’era il suo profondo respiro, che moderava il vostro anelito. C’era il suo inflessibile sguardo, che arrestava le lacrime nelle vostre palpebre.

Ditelo laggiù, quando avrete ripassato il mare. Se davanti al vostro dolore la Causa avesse avuto bisogno di riconsacrazione, non avreste potuto attendervene una più alta. L’altrieri nel vecchio oratorio dalmatico di San Giorgio sorse un ardore di volontà più diritto che la lancia dell’eroe cristiano appuntata contro la bestia difforme. La bestia non può prevalere. Non prevarrà. La promessa di settembre – di da ogni dissenso, di da ogni inganno, di da ogni errore – io la ripeto alla vostra angoscia.

E in me e con me la ripetono tutti quelli che hanno combattuto per un pegno che non può essere ritolto al vincitore dal vinto.

Io e i miei compagni abbiamo combattuto per quel pegno dichiarato, per quel pegno consentito, posto tra noi e il nemico, posto tra noi e l’Austriaco, posto tra noi e quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso seguitando a contenderci quanto con le nostre sole armi e con la nostra sola passione riacquistammo e vogliamo tenere in perpetuo.

Io dico, per i combattenti del Piave, che ogni stilla del loro preziosissimo sangue la corrente la portò in tutto il nostro mare sino a Otranto. Io dico che per noi nel delta del Piave c’erano le sabbie e i tritumi di tutta la spiaggia latina d’oriente, e che quando un eroe puro come Andrea Bafile ne prendeva un pugno per comunione, prima di offrire la vita, egli credeva di comunicare con tutta l’altra sponda fino al più nascosto seno del labirinto di Cattaro.

Che valore hanno i segreti dei trattati laboriosiespedienti della fede fiacca e della paura intempestiva – al paragone delle diritte volontà eroiche?

Chi di noi andò sopra Trieste passando tra fuoco e fuoco, prese possesso di Trieste. Chi sfidò l’inferno di Pola, staggì per l’Italia il porto. Chi operò il miracolo di Premuda, s’impadronì di tutto l’arcipelago. Chi volò primo su la baia di Teodo, credette di svegliare tra Risano e Perasto il rugghio del Leone che ci aspetta. Chi violò il Carnaro nella notte di Buccari, volle riempire la lacuna del Patto di Londra. Dal principio alla fine, io fui di quella specie sempre.

Per ciò dico e attesto che ciascuno di noi portava in sé uno spirito di vittoria. Faceva la guerra per vincere tutta la guerra. Spingeva le mète sempre più lontano. Ogni morte era certezza. Per offrirsi intero, non bisogna dubitare. Chi tutto si offerse non mai dubitò. Dubitarono i sedentarii; e corsero al riparo, che non era se non menomazione e rinnegamento. Nello stesso buio di Caporetto, i fedeli non si smarrirono. Dissero: «Anche questa è una vittoria nostra, la dodicesima.» Ed era vero. Undici volte l’Italia aveva vinto il nemico, e la dodicesima vinceva sé stessa.

E la tredicesima fu la vittoria solare, in cui ella rinacque eroina col suo pane rinato, eguale alla lode del suo primo interprete. E la quattordicesima fu la vittoria esemplare e sovrana, fu la vittoria delle vittorie: il cuneo di Roma che scindeva la dura forza nemica in due tronchi convulsi; il crollo d’una menzogna formidabile; l’abbattimento di un impero radicato nell’ignominia più tenace; la dispersione di una mostruosa compagine.

L’Italia vincitrice, tuttora in armi, doveva dire agli emuli: «Ecco il mio sacrifizio. Volete pesarlo? Ma l’amore non soffre d’esser pesato. Ecco la mia vittoria. Volete misurarla? Ma supera la vostra misura, come supera il vecchio patto. Se questo oggi valga o non valga, non m’importa. È assorbito dal mio diritto. Ed ecco il mio diritto, pel quale ho combattuto sola, pel quale ho patito sola, pel quale sola ho interamente rifatto le mie forze e il mio coraggio tre volte

Questo doveva dire l’Italia vincitrice, nettamente, composta nella sua disciplina, compatta nella sua volontà, concisa nelle sue conferme. «Il mio confine a oriente è segnato dalle alpi Bebie e dalle alpi Dinariche, che continuano le alpi Giulie. Tutta quella banda di paese, che fu costantemente di origine e di essenza italiane, mi appartiene. Le antiche persecuzioni dei sopraffattori fortunati e le nuove falsificazioni degli usurpatori vinti non contano

Invece assistiamo a uno spettacolo miserando. Sembriamo quasi oppressi dal nostro trionfo. C’è chi vuole spaventarci coi pericoli della vittoria, noi che abbiamo affrontato e soverchiato tutti i pericoli. Ecco che non facciamo se non cianciare «con la lingua che pare man tesa». Mendichiamo il sorriso dell’arbitro. Celebriamo i trentadue denti di quel sorriso indecifrabile. Mettiamo tra le mani di un’ospite graziosa la Lupa di Roma ristampata in oro massiccio. Ma, se anche una volta la potestà universale è riposta nella tasca di un filosofo, perché trascurammo di ridorare in gloria con oro di dollaro la statua equestre di Marco Aurelio?

Il custode geniale del Fòro – che è di stirpe venetaoffre al visitante il lauro e il mirto nati nella polvere della grandezza. Ma quel ramoscello di mirto, atto a purificare l’uomo dalla colpa di avere ucciso fratelli nelle dissensioni civiche, era nella stanza recondita quando entrò un pessimo cittadino oggi più pernicioso di quel «vecchio boia labbrone» che tentava di strangolare con un capestro prussiano la Patria perplessa?

La Patria è tuttora perplessa?

Avevamo due nemici egualmente ignobili, temibili egualmente: l’esterno e l’interno.

Abbiamo vinto il nemico esterno, lo abbiamo incalzato con la baionetta alle reni, lo abbiamo svergognato e disfatto. Ed ecco risorge; e ci sputa in viso il suo odio, e ci vitupera, e c’irride, e si dichiara inconciliabile, e ripiglia a contenderci quel che a noi spetta. E c’è chi vuol persuaderci che dobbiamo averne paura e che è necessario sacrificare la nostra più dolorosa carne, la nostra più gentile anima, a una razzamaglia di villani feroci che ebbe presso di noi mallevadore un mozzorecchi arricchitosi commerciando vini adulterati e truffando clienti ingenui.

Pareva che la scrosciante vittoria dovesse spazzare il nemico interno o almeno togliergli il fiato e rompergli il dosso. Invece egli è più nocivo di prima, più di prima odioso: ha la cera dell’omicciuolo dabbene, si dichiara confessore dei nuovi principii immortali, confida alle gazzette forestiere i suoi Acta apostoli, parla un linguaggio che per struttura novità e profondità gareggia con quello di Ernesto Teodoro Moneta buon’anima.

Così l’Italia del San Michele e del Vodice, l’Italia del Grappa e del Piave, l’Italia di Premuda e di Pola, l’Italia paziente ed eroica, l’Italia del piccolo fante invitto, di quello che l’altrieri nel vostro oratorio pregava senza inginocchiarsi, l’Italia più forte e più perspicace degli uomini che la guidano, più grande delle sue fortune, più pura delle sue glorie, è ricurvata in quella umiltà acre ed arida dove per cinquant’anni vivacchiò con rari e vani sussulti.

Ma intorno a noi la vita non fu mai tanto vorace, il contrasto delle brame non fu mai tanto selvaggio, il dramma delle stirpi non fu mai tanto veemente. Ecco che i cari Alleati nell’abbracciarsi si mordono forte l’orecchio, come fanno i rivali siciliani. Anche quando parlano di fraternità e di nuovi sacrifizii, sentiamo che la parola passa tra i denti scabri e allude all’abnegazione altrui.

Hanno fame. Improba ventris rabies. Così è.

La terra, dopo essersi saziata e ingrassata di vittime, sembra aver trasmessa la sua fame alle genti. E, se la terra è sazia, l’uomo sembra insaziabile. E, se pur l’uomo non sia lupo all’uomo, la nazione alla nazione è leonessa.

Un asceta della guerra, che porta il mio nome, disse nel principio: «All’annunzio delle più larghe stragi, penso che la guerra prepara gli spazii mistici per le apparizioni ideali. Dove il carnaio si dissolve, quivi nascono i fermenti sublimi. Dove si sprofonda il peso mortale, quivi la libertà dell’anima si leva. Quanto più vasta sarà l’offerta, tanto più alto sarà il prodigio

Alludeva egli a quella «umanità migliore e più felice» verso cui sospira il vecchio chirurgo di Francia, il Celta che sotto il bianco pelo mal dissimula la bene esercitata mascella belluina, mentre premedita di mettere i suoi ferri nella nostra carne viva e di tagliarsi poi con essi senza misura la sua porzione?

Anche oggi, dopo tanto patire, la virtù e l’orgoglio di stirpe trionfano e divorano insaziabilmente. La forza che ha sanguinato è la più temibile. Non bastano quattordici punti a ricucire gli squarci.

Dobbiamo noi scuotere il capo e gemere senza fine sopra la «fatale sublime insania»?

La civiltà non è se non lo splendore della lotta incessante. Quando l’uomo non sia più lupo all’uomo, la nazione alla nazione sarà e dovrà sempre essere leonessa.

E noi vogliamo accovacciarci nella nostra solitaria pecoraggine!

Il popolo della rivincita, inebriato di vittoria, ridona al vento tutti i suoi pennacchi, riaccorda tutte le sue fanfare, accelera il passo per sopravvanzare i più risoluti e i più spediti; e noi premurosamente ci facciamo da parte per lasciarlo trascorrere.

Il popolo dei cinque pasti, terminata appena la sua bisogna di sangue, riapre le fauci per divorar quanto più possa; e noi ci serriamo di qualche altro punto la cintura intorno alla nostra sobrietà.

Il popolo della bandiera stellata non nasconde di aver condotto a termine l’ottimo e il massimo dei suoi affari, sotto la specie delle idealità eterne; e noi già lasciamo intorbidare dagli estranei le fonti della nostra nuova ricchezza.

Chi ci predica la modestia la prudenza la rinunzia e la mortificazione, non si frega dunque le mani sudaticce?

In quali cupi sotterranei di museo abbiamo noi nascosto i seimila cannoni tolti all’Austriaco? In quali appartati porcili ingrassiamo noi, a scapito dei paesani, gli ultimi cinquecentomila prigionieri di tutte le razze?

In quali cimiteri inaccessibili lasciamo noi abbandonati i nostri morti, che sono i più belli del mondo? In quali asili senza luce dissecchiamo i nostri invalidi, che non si lasciarono potare se non per dar più frutto?

Perché, fra tanti cialtroni e ciarloni che ingombrano le vie e le piazze, i silenziosi «facitori della Parola» non passano?

E qual pace finalmente sarà imposta a noi poverelli di Cristo?

Pax gallica?

Pax britannica?

Pax stelligera?

Miserere nostri…

Ebbene, no. Basta! Se giovasse ripetere il vecchio grido di un poeta senz’armi, l’abusato «Ah non per questo…», esso risonerebbe sopra un sangue infinitamente più largo e più severo di quello che sgorgò a Calatafimi e a Milazzo.

L’Italia vittoriosa, la più vittoriosa delle nazionivittoriosa su sé stessa e vittoriosa sul nemico – avrà nelle sue alpi e nel suo mare la pace romana, la sola che le convenga.

Abbiamo combattuto per la più grande Italia. Vogliamo l’Italia più grande. Dico che abbiamo preparato lo spazio mistico per la sua apparizione ideale. L’attendiamo alfine quale noi l’annunziammo.

I «facitori della Parola» sapevano e sanno quale fosse e quale sia la Parola d’Italia: la più luminosa del parlare materno, e la più orgogliosa, tale che non l’eguaglia lo splendore della primavera terrestre: affermazione superba della Vita, di tutta la Vita, inscritta sopra un culmine sublime della storia umana: il Rinascimento.

Ma oggi non può dare il suono vero e intero se non nella bocca ferrea della volontà.

Fra quel che di antico è da conservare e quel che di nuovo è da acquistare, si appresta l’Operaia infaticabile a sollevarsi di sul suo travaglio e a ripetere il bando sonoro che si ripercuota in tutta la conca mediterranea?

Quel che fu detto, quel che fu domandato negli anni dell’obbrobrio fangoso, è oggi ridetto, è oggi ridomandato nell’émpito della vittoria.

Vogliamo istituito per la nazione il sentimento della grandezza.

Non alla inevitabilità della nostra grandezza dobbiamo oggi tante avversioni?

Affermiamola, esaltiamola. L’Italia è grande, e vuol essere più grande.

Ci balzava il cuore talvolta, pur negli anni della bassezza, quando sentivamo qual fondo inesausto di potenza creatrice fosse nella nostra terra, qual nucleo di energie latente vi si addensasse a ristorare perpetuamente la vita consunta.

Più oggi il cuore ci esulta, se consideriamo la somma di sforzi fornita dall’Italia per la sola virtù propria dei suoi istinti ereditarii ad onta della inettitudine e della cecità di coloro che guidano le sorti d’un paese in cui fiorì e si maturò con tanto vigore la scienza di stato, l’arte di governare non fondata su falsi metodi scolastici e su puerili illusioni, ma su la realtà viva, su i fatti, su l’esperienza, su quell’acuto studio degli uomini e degli istituti e delle loro analogie e dei loro rapporti, onde parvero insuperabili i nostri uomini statuali, tanto nelle republiche quanto allora che sul rottame delle libertà comunali si costituirono i nuovi principati e di contro al servaggio straniero s’infiammò la visione magnifica del Machiavelli.

Io ridico che questa Madre di biade e di eroi, questa guerriera del Solstizio tra il mare e l’alpe, ha pur sempre fra tutte le genitrici il grembo più fecondo.

Il dominio morale sembra il suo destino. I più tristi errori potranno opprimere ma non distruggere il suo genio.

Ripeto nel fragore della lotta quel che dissi nel silenzio dello spirito.

«Ella è l’artefice chiara delle stirpi confuse. Soltanto in lei la materia diversa e incandescente della nuova vita troverà i grandi conii perfetti. Soltanto in lei s’imprimeranno vive ancóra una volta le forme ideali; ed agli uomini – che si sviluppano freneticamente lottando e avanzando in tutte le direzioni e provando tutte le forze in tutti i rischi e foggiando strumenti sempre più complessi per convergere tutti gli spiriti della Natura nell’umano spirito – ella ancóra una volta le offrirà come esemplari ai quali dovranno confrontarsi, come segni ai quali dovranno mirare di continuo nella violenza della guerra e nel giubilo della vittoria

Per questa divina Patria abbiamo combattuto. Per questa vogliamo ricombattere. E chi si rammaricò di non averle dato la vita, oggi si rallegra di potere ancor gettare nella battaglia nazionale quanto gli resta.

Io e i miei compagni non vorremmo più essere Italiani di una Italia rammollita dai fomenti transatlantici del dottor Wilson e amputata dalla chirurgia transalpina del dottor Clemenceau.

Quel che fu gridato al popolo di Roma in una sera di tumulto, vale anche per oggi, ancor più vale per oggi. «Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance!» Se sarà necessario, affronteremo la nuova congiura alla maniera degli Arditi, con una bomba in ciascuna mano e con la lama fra i denti.

Non è possibile che, dopo cento vent’anni, il trattato dell’Orologio rinnovi contro di noi, sotto altra specie, l’infamia di Campofòrmido. Sia benedetta, anche dopo cento vent’anni, la nostra dolce Isola che si sollevò tutta all’annunzio e uccise il suo podestà pusillanime perché mostrava di acconciarsi al sopruso. I suoi pampini la inghirlandino in perpetuo, i suoi peschi e i suoi mandorli le facciano in ogni principio di primavera una veste più bella della sua veste marina, e la sua grazia veneta per i secoli dei secoli non appassisca giammai.

So, amici, qual fremito questo ricordo susciti in voi; e so come ciascuno dei vostri fratelli in ciascuna città della Dalmazia sia pari alla fierezza di questo ricordo istriano.

Come col favore occulto o palese di una nazione alleata gli Schiavi misti tentarono di frodarci in Pola la nostra preda navale, sarà nello stesso modo favorita la frode ch’essi tenteranno sopra la costa e gli arcipelaghi? Le navi son navi, e le terre son terre. Un popolo animoso non abbandona la sua terra come lascia la nave un equipaggio mercenario. Italianamente, romanamente, voi volete piuttosto morire. E una gente che si chiama latina vuole aiutarvi a morire per far luogo all’immondizia croata nella Loggia dei magistrati veneti e nel Battistero di Andrea Alessi, per allogare nel vestibolo del Palazzo di Diocleziano l’abbondante vomito funebre dell’avvoltoio austriaco. E di questa gente ve n’è di dall’Alpe come di qua.

Tanto è il peso del dolore che soffoca la collera. E anche questo dolore sia benedetto. L’altrieri, volgendosi a cercare nella faccia riscoperta della Basilica di San Marco i cavalli assenti, non volle ricordarsi da chi fossero stati portati via, or è cento vent’anni. Né, quando giunge d’oltremare la fama dell’insolenza consueta, pensa che nei Leoni delle vostre porte marine possa tuttora covare il dèmone delle pasque veronesi.

Esorcizziamolo. Scongiuriamo la sciagura fraterna.

Ma io, per me, come tutto offersi, e se tutto non mi fu preso me ne rammarico e quasi me ne vergogno, io sono oggi pronto a sacrificare ogni amore ogni amicizia ogni convenienza alla vostra causa che è la mia fin da quando, giovinetto, fui abbagliato per la prima volta dalla faccia di Traù a me consanguinea come la diletta delle mie sorelle lasciata nella casa chiara di mia madre.

E in questo sono il vostro eguale, come l’altrieri fra un altare e una porta mi sentii l’eguale del piccolo fante silenzioso.

Mi avrete con voi fino all’ultimo. E voi sapete che cosa io intenda con questa promessa.

Così fossero oggi con voi tutti gli Italiani, in una unanimità risoluta e aperta. Così potessi io imprimere in ogni cuore italiano questa piaga che mi brucia e che non deve essere medicata se non dalla giustizia. Così potessi col mio soffio disperdere le larve della mendicità e dell’adulazione, per sollevare dietro i Capi e dietro i Legati l’intrepidità di un popolo vittorioso che vuole e sa ancóra vincere.

Chi vi rinnega, chi vi ripudia, chi vi tradisce, sa che voi siete creature vive, genti e città, uomini e pietre? Se gli uomini sanguinano, le pietre rendono l’anima.

Or è pochi giorni, nella nobile Almissa, minor sorella di Spalato, il vinto, il nostro nemico vinto, il croato lurido, s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato. Or è pochi giorni, in Cattaro, un ospite leale fu con l’astuzia e con la violenza sorpreso, messo in una barca e condotto verso Castelnuovo per essere sbarcato in un luogo solitario e fucilato nella schiena «come Italiano», in vista del Castello a mare e dei Forti di terraferma contrassegnati dal Leone.

Chi dunque vi rinnega, vi in mano al cancellatore e al carnefice. Vi condanna a servire e a perire. Vi respinge in un orrore senza scampo. Vi fa schiavi di schiavi. Vuol coronare il vostro lungo martirio con una morte ontosa. Uccide voi e la speranza. Uccide in voi «quella che nessuno degli uomini mortali e degli iddii eterni uccise mai». Delitto inespiabile. Non vale nessun mirto a purificarlo, neppure quello insigne del Fòro. Quando il probo e prode uomo del fratricidio fu per entrare nella stanza dell’arbitro, son certo che il ramoscello si disseccò come il fico di Giuda.

Il custode del Fòro e del Palatino augusto, Giacomo Boni, al tempo tristo in cui crollò il campanile di San Marco, volle caricare il tritume dei mattoni romani e dei calcinacci veneti in una peata; e dalla laguna uscì nel nostro mare asservito, e nel mezzo mare gittò il carico solenne, che andasse a ritrovar gli anelli sommersi dei Dogi.

Dalmati fedeli, se l’ingiustizia si compia – e il nostro Dio ne disperda l’ombra imminente – voi caricherete le vostre barche coi rottami delle pietre gloriose, e vi imbarcherete con essi; e uscirete anche voi nel mare del vostro amore disperato; e vi lascerete andare a picco, voi e le reliquie, per ritrovare nel profondo i nostri morti, non più servi ribaditi ma uomini liberi tra uomini liberi.

Seguitando la mia vocazione, io sarò con voi: forse non io solo.

E si dirà che la vittoria d’Italia fu scritta su l’acqua.

Dalla Dominante, 15 gennaio del 1919.

MEMORABILE

Quando i Dalmati di Perasto seppellirono con lacrime virili il vessillo di San Marco sotto il lor vecchio altare, il Capo della Comunità così disse: «Savarà da nu i nostri fioi, e la storia del zorno farà saver a tutta l’Europa, che Perasto ha degnamente sostenudo fino all’ultimo l’onor del Veneto Gonfalon, onorandolo co’ sto atto solene, e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto… Per 377 anni la nostra fede, el nostro valor, l’ha sempre custodìo per mar e per terra, per tutto dove ne ha chiamà i so nemici, che xe stai pur quelli della Religion. Per 377 anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per ti, o San Marco, e felicissimi sempre te avemo seguità, ti con nu, nu con ti; e sempre con ti sul mar nu semo stai illustri e virtuosi. Nissun con ti n’ha visto scampar, nissun con ti n’ha visto vinti o paurosi…»

Nella battaglia di Lepanto i quindici eletti a custodire lo stendardo di San Marco su la nave capitana furono tutti Dalmati di Perasto.

Dei quindici otto morirono con le armi in pugno, sotto i sacri occhi di Sebastiano Venier, difendendo l’insegna della Dominante fino all’ultimo.



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