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IV5.
Ora a me il ritmo sereno d’Albio Tibullo, ove ride
l’immensa pace de la campagna in fiore,
ove ridon gli azzurri del cielo latino ed i soli
flavi e le nuvole come in un terso rio!
Chiedon l’esametro lungo salente i fantasmi
che su dal core baldi mi fioriscono,
e l’onda armonica al breve pentametro spira
in un pispiglio languido di dattili.
Oh fresca surgente dal grembo divino de l’acque
alba di maggio tra’ salsi odor de l’alghe,
io veleggio pe ’l golfo sì come un buon nauta sannite
tra’ delfini scherzanti, greggia a le muse cara;
io veleggio, e seduto a la prora ti guardo pensando
gli amor d’una iddia con un mortale, a l’imo.
Corrono per selve di rossi coralli le nozze,
giù per le vive selve corre la primavera;
corre… Oh trionfi d’attinie su per le rocce,
simili a petali d’una novella flora!
prati fioriti d’astrèe, di madrèpore! chiome
fuggenti di meduse con gorgoglìo lïeve!
musiche grandi hanno i boschi terrestri, grandi inni;
pur queste mute nozze valgono un inno: amate!
Amate nel profondo silenzio, godete d’arcani
connubii, o creature meravigliose; ed io
scenda nel profondo mistero a congiungermi in gioia
con la Immortale, io fatto splendido come un nume.
Ma ecco il sole, il sole! Egli strugge il bel sogno marino.
Nel sogno il glauco talamo dileguasi.
Porpora son le vele; bagliori vermigli d’incendio
su per i cieli concavi divampano,
ecco, e trionfa il sole… O fremiti freschi de l’acque
riscintillanti d’ambre e di topazii!
fremiti novi de gli alberi su le colline
a l’alitare largo del maestral, vi sento
nel cuor palpitante, ne i nervi, nel sangue, e una strofe
è ogni fremito, una divina strofe
che vola a l’immenso poema di tutte le cose.
Io — grida entro una voce — non son io dunque un nume?