Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
Lettura del testo

Gli ultimi saranno i primi

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

Gli ultimi saranno i primi

discorso al popolo di Roma nell’Augusteo

[iv maggio mcmxix]

L’ESORDIO

È un dono d’anima questo che mi fa il primo cittadino di Roma. È un dono senza limite e senza peso, che mi vale per l’eternità. Come risponderò?

C’era chi voleva offrirmi una corona, una spada, in Campidoglio, come premio di un lungo volo.

Ho saputo attendere quest’altro premio che, se non mi corona, mi riarma: mi ridà un’arma, e anche un’ala, assai più vasta di quella d’allora.

Ecco, Romani, che dopo quattr’anni ci rivediamo in un buon momento, in un gran momento. Ringrazio il nostro Dio che – l’ho detto e ridetto – è capitolino.

Ieri, poco dopo la levata del sole, in viaggio, mangiai il pane di Fiume, ch’era stato mandato a Trieste e da Trieste a Venezia, per me, col treno che doveva portarmi a Roma. Così feci la mia comunione, prima di giungere a respirare la grande ebrezza che soffiava per me tra il Viminale e il Quirinale.

Ed eccomi pronto. Potessi ora per tutti spezzare e moltiplicare quel pane che fu veramente intriso col sudore di sangue!

In quattr’anni duri, in quattr’anni d’assenza dura, non ho perduto il mio tempo. Ed eccomi di nuovo al mio posto, eccomi con voi e di voi, come allora. Non credo che la voce sia più forte. Anzi s’è velata. Nell’altezza qualche volta il freddo è crudele. Per ciò non parlo stamani dal Campidoglio, non parlo sotto il sole, come la sera del diciassette maggio. Ve ne ricordate?

Ma il cuore è cento volte più forte.

Se ho tuttavia il mio soffio in gola, non è mia colpa. Ho fatto quanto potevo per meritare la gioia di esalarlo al vento azzurro d’Italia bella.

M’è rimasto. E me ne rammaricavo. Ora non me ne rammarico più. M’è rimasto per darlo all’ultima battaglia, anzi alla più luminosa nostra battaglia.

Forse era meglio perdere la lingua che l’occhio. Sempre troppo si parla, e troppo poco si vede. Ma, se l’orbo è tra i ciechi re, io «vedo pur con l’uno». Non fui primo e solo a scoprire il nemico inesorabile nel celebrato sorriso dei trentadue falsi denti? Rendetemi giustizia. Riconoscetemi il privilegio d’essere profeta in patria, almeno.

E, se ho vinta la mia ripugnanza a parlare, l’ho vinta perché oggi la parola – come nel gran Maggio di Quarto e di Romadeve creare una volontà di vittoria.

Per ciò, più che scritto, ho inciso quel che è necessario ricordarsi in perpetuo.

Non m’abbandono qui a una ispirazione subitanea. Crudamente esprimo quel che fu meditato e premeditato. Robusto è lo stomaco popolare; e degli schifiltosi mi rido. Se parlo al popolo degli Orazii, parlo anche al popolo di Pasquino.

Questo è un atto. È un atto che non si falsa, non si deforma e non si rinnega. Dietro ogni pagina è il petto del combattente, e a piè di ogni pagina è la testimonianza dei morti. E dov’è il popolo di Roma e il primo dei cittadini romani, è il Campidoglio.

IL DISCORSO

Romani, Italiani,

se mancò la mia viva voce nelle prime adunanze del popolo, se dal mio dovere di soldato mi fu sino a quest’ora impedito di essere l’interprete di quella forza che nel gran Maggio bandì la guerra e oggi rivendica la vittoria, non importa. Potevo gridarvi da lontano quel che vi gridai da faccia a faccia in una sera tumultuosa ch’era anniversaria della marcia dei Mille da Marsala verso Salemi: «Non me, non me; ma lo spirito che mi conduce, ma l’amore che mi possiede, ma l’idea che io servo

C’è un fato dei ritorni. Il nostro maggio epico ricomincia. Ed eccomi pronto. Eccoci pronti.

Or è quattr’anni, si preparava la Sagra dei Mille a Quarto, in vigilia, in vigilia d’armi. Oggi è la Sagra di più che quaranta milioni d’Italiani. Come dallo scoglio di Quarto si partiva la schiera notturna, così dal sasso del Campidoglio nella piena luce si muove oggi la Grande Italia.

Eccoci pronti.

In quella sera di tumulto vi ricordai la parola del Capitano, che è imperiosa a noi anche oggi: «Se saremo tutti uniti, sarà facile il nostro assunto. Dunque, avanti!»

Il primo cittadino di Roma, che sa di non dover dire se non quanto può rimanere scolpito nella lapide, ha detto che siamo «un’anima sola, una volontà sola»: mens una, unum pectus. Siamo alfine una nazione vera, e abbiamo alfine istituito nella nazione vera il sentimento della grandezza. Come dissi ai Veneziani, tra gli stendardi agitati di quel San Marco che è onnipresente su la quarta riva, l’Italia s’è ingigantita in una notte. Ha toccato con la fronte il suo astro. E la sua fronte è un luogo di luce. È il solo luogo di luce, nell’oscuramento improvviso di tutte le giustizie.

Io ripeto che sola oggi l’Italia è grande, e sola oggi l’Italia è pura. Intendete? Sola.

Quel che in altri pareva grandezza non è più se non prepotenza. Quel che in altri pareva purità non è più se non ipocrisia. E quel che in altri pareva vita non è se non morte.

Com’è grande e pura, non vi sembra di poter credere che l’Italia sola è vivente?

È una verità vivente tra finzioni torbide e vili. È una eroina vivente tra maschere dalla vasta sboccatura. L’odio che si leva contro a lei non è se non il rancore degli infermi contro il vigore del suo respiro e del suo palpito. S’aumenta dell’odio altrui come s’aumenta del nostro amore. E anche oggi lo stesso nostro amore la sente intera ma non intera la conosce.

Di dalla nostra coscienza, di dalla nostra virtù, di dalla nostra opera, udiamo i colpi irresistibili del Destino, che ce la foggiano, che ce la trasformano, nella materia dei secoli passati, nella materia dei secoli avvenire. Lottiamo, soffriamo, sudiamo, sanguiniamo, ciecamente, sul suolo opaco; ed ella s’accresce, ed ella s’inalza. Noi siamo stanchi, ed ella è un’opera indefessa. Noi siamo vinti, ed ella è un’opera invitta.

La notte di Caporetto udì un colpo di maglio creatore; e la notte di quest’ultima ingiuria udì un altro colpo di maglio creatore. Il dolore ci crea, la pazienza ci crea, il sacrifizio ci crea.

Per questo abbiamo amato il Carso. Per questo benediciamo il Carso. Per questo vogliamo tagliare nelle petraie del Carso un’altra Via sacra.

Il Carso parve un Calvario; e la nostra vita è nel Calvario, la nostra gloria è nel Calvario. Abbiamo portato la croce, e col legno della nostra croce abbiamo rifatto l’asta della nostra bandiera.

Ora io dico che la nostra bandiera su la cima della nostra passione è la più bella e la più alta del mondo.

Davanti a chi, davanti a che cosa l’abbasseremo noi?

Non vedo potenze contro di noi, nel senso dello spirito, nella specie dell’eterno. Non vedo se non grossi e piccoli mercanti, grossi e piccoli usurieri, grossi e piccoli falsarii. Sembrano materia sopravvanzata alla bolgia quinta dell’ottavo cerchio. Manca la pece bollente; ma i bollori penali non tarderanno. Il grido dantesco può essere rigridato nella caverna dell’Orologio. «Qui non ha loco il Santo Volto

Stiamo noi fisi al Santo Volto, al volto divino della Patria, che è tuttora coronato di spine, che è tuttora lordato di polvere, che è tuttora rigato di sudore e di sangue.

È il solo volto che splende.

Ho detto che c’è un fato dei ritorni. Come in quell’altro maggio, ecco che ritroviamo davanti a noi lo stesso banco. Il viso tondo e amabile dell’ex-cancelliere s’è mutato in una lunga faccia equina, tutta zanne; ma la bisogna è la medesima, forse più bassa ancóra.

Il tenitore ha messo ai suoi fianchi due fantocce mal dipinte e peggio imbottite, con due cartigli dov’è scritto Equità, Libertà. Ma noi sappiamo che dietro l’una e l’altra cartapesta si nasconde un banchiere tedesco e americano, un banchiere bifido, bifronte e bilingue: il messere Johann Schiff di Francoforte, per esempio, o il messere Warburg di Amburgo; dei quali uno scrittore animoso ci raccontò ieri la storia edificante.

Strappate i due cartigli goffi, e metteteci due motti di Pasquino. Appunto la sede di Pasquino è dietro il Palazzo Braschi.

Vi sta nella memoria la sera del 13 maggio, quando tutto pareva perduto, quando eravamo sul punto d’esser venduti come una greggia infetta? Vi ricordate di quella voce che gettò l’allarme e non temette d’incitare alla violenza i cittadini?

«La storia vostra si fece forse nelle botteghe dei rigattieri e dei cenciaiuoli? Le bilance della vostra giustizia crollavano forse dalla banda overa posto un tozzo da maciullare, un osso da rodere? Il vostro Campidoglio era forse un banco di barattatori e di truffardi? La gloria vi s’affaccendava e ciangottava da rivendugliola? Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance

Quella voce è la stessa che oggi vi parla. Ed è la stessa fede; ed è lo stesso ardore, lo stesso ardire.

Non lasciate il leale Governo d’Italia ritornare verso quei banchi. Non date a pesare in quelle bilance il nostro sangue schietto.

In tale ardire è la nostra salute. Non in altro che nell’ardire oggi è la nostra salute, Italiani. Credetemi.

a noi!

Sì, c’è un fato dei ritorni. Lo spirito del grande Cavour ci assiste e incita. Dopo i fatti milanesi del 6 febbraio 1853, egli era solo, contro la perfidia e contro la prepotenza. Era solo e osò affrontare tutti i rischi.

«Le grandi soluzioni non si operano con la penna; la diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli» affermò nel memorando discorso del 6 maggio 1856.

«Noi siamo unanimi nei nostri voleri, quando si tratta di difendere non solo la sicurezza e l’indipendenza ma altresì l’onore della Patria» riaffermò il 9 febbraio 1859 all’Assemblea fremente.

«L’annessione! L’annessione!» Fu questo allora il grido degli Italiani veri. Fu questo allora il grido dell’ardimento italiano. «L’annessione

Non è il vostro? Non è la volontà di tutte le sponde? Non vibrano tutte oggi come nel vento gli orli della bandiera?

Contro i malvagi intrighi del nuovo triumvirato, l’Italia osi. Impotente contro la Russia, contro la Germania, contro l’Ungheria, contro popoli vinti e dissoluti, il Congresso è impotente contro una nazione vittoriosa, anzi contro la più vittoriosa delle nazioni, anzi contro la salvatrice di tutte le nazioni: contro l’Italia che si solleva per il suo diritto, per il diritto delle sue genti asservite, per le sue tradizioni e per il suo linguaggio, per il suo pegno giurato e per la sua fedeltà intemerata, mentre altri riduce l’alleanza a un traffico senza pudore.

I triumviri pronunzieranno la condanna? Con che voce?

Comunque parlino, dovunque parlino, la loro voce ha omai il timbro dell’oro monetario. Penso quel cupidissimo triumviro antico, quel Licinio Crasso, a cui fu colato nella gola il metallo fulvo ch’era stato sempre la sua vera sete. Crasso era perito per la mano del Parto. Quei tre respirano tuttavia, con l’oro nella gola, e nei denti anche. Ma l’oro li strozzerà. Riconosciamo intanto il timbro d’ogni loro parola cauta o incauta.

Sono le voci che s’arrochirono a disputarsi il bottino del mondo, a mercare la libertà dei mari, a pattuire la flotta tedesca, l’Egitto, l’Irlanda, a vendere il Belgio esangue, a liberare dal blocco la Germania famelica per trar profitto dalla sua fame, a negare contro l’Alleato giallo l’eguaglianza delle stirpi umane, a estorcere il più e il meglio dell’Africa, dell’Asia, dell’Oceania, a infirmare un trattato onesto per abolirne un altro ancor più onesto in pro degli usurieri d’Israele, a porre infine su Fiume rovente e su la Dalmazia spasimosa la taglia dei ladroni.

Temeremo noi la sentenza di codesti triumviri senza trinità?

I loro popoli sono forse con loro? Non possono essere con loro. La Francia latina è forse con loro? La Francia non può essere con loro. Se altrimenti fosse, tutta l’Europa sarebbe divenuta prussiana e farisaica; e la pace meglio sarebbe firmata a Potsdam che a Versaglia, firmata e garantita dal banchiere cesareo Woodrow Wilson e C. diademato d’un colbacco smesso dell’Imperatore profugo, incoronato di un vecchio colbacco stinto di ulano della Morte.

Ridiamone. Chiamate Marforio che venga giù dalla sua fontana sonora.

Non doveva il dottor di piaghe – come lo avrebbero chiamato i vecchi nostri – non doveva coi suoi quattordici punti ricucire le ferite dei popoli più crude? Egli li ha ingoiati a uno a uno, e s’è con essi ricucito le sue care viscere di guaritore.

Ridiamone. Svegliate Pasquino, o Romani. Risuscitate Gioacchino Belli. Gridate a Marforio che si stacchi dal suo cortile e si faccia innanzi.

a noi!

Senza di noi essi hanno conclusa la farsa della loro Lega che slega. Senza di noi meditano di firmare quel loro pezzo di carta che chiamano pace giusta. Senza di noi già si preparano a giocare su la nostra esitazione e sul nostro indugio.

Ebbene, io dico che se i nostri Capi tornassero a quel banco, tutto sarebbe perduto, anche l’onore. Non andrebbero se non a pignorarsi. Vi rimarrebbero pegni inerti d’un Monte senza Pietà.

La nostra salute è soltanto nel nostro ardire, Italiani.

«Ardisco non ordisco» è il motto italiano da opporre inaspettatamente agli orditori. L’ho trovato scritto intorno all’elsa d’una daga. L’ho preso per me, e per i miei. Ma oggi è di tutti. Oggi è nell’aria, oggi fischia nei quattro vènti d’Italia. E lo vogliamo fermare, lo vogliamo incidere in una pietra del Campidoglio.

È gemello di quell’altro che fu da me scritto nella tavoletta dietro la ruota del timone, sul mio guscio di Buccari, penetrando nel Carnaro, quando la scìa temeraria trasferiva molto più a levante i termini danteschi e giustamente riempiva la lacuna del Patto di Londra. Memento audere semper.

Fiume lo conosce, Fiume nostra se ne ricorda, essa che vorrebbe ardere d’incendio vero come si strugge di vero amore, se noi ci piegassimo alla vergogna.

Fiume, Zara, Sebenico, Traù, Spalato, Almissa (e perché non dirò io il tuo nome, Ragusa? perché non spanderò il profumo del tuo nome veneto, Ragusa?), creature di vita, oggi nell’ora d’Italia più viventi che in tutti i secoli di Roma e di Venezia, oggi più belle di ieri, e meno di domani, inespugnabile fiore della bellezza latina imperlato di sangue e di pianto, fra le adunche dita meccaniche del Bonturo presbiteriano!

Ma in te, o Fiume nostra, santità del Carnaro e di tutto l’Adriatico, in te «ha loco il Santo Volto».

Come doveva considerare i suoi umiliatori e i suoi percotitori il Figliuol d’uomo cinto di spine, Egli che era la vita e la via, Egli che era la verità e la luce?

Se Egli viveva, gli altri erano ombre. Se Egli era uno spirito, gli altri erano esanimi. Per Lui i suoi avversarii non erano di natura diversa dai loro idoli.

Ditemi voi, Romani, se lo straniero che voleste accogliere in questo Campidoglio vi sembrò veramente un uomo vivo o non piuttosto della medesima specie di quelle sue brutte imagini che ciascuno di voi poteva comperare per un baiocco?

Non era una faccia, era una maschera; non era una bocca, era una fauce dentata; non era uno sguardo, era un paio di lenti; non era una meditazione, era una formula; non era un disinteresse, era un’usura; non era una dignità, era una vanagloria.

Ripensateci bene. Quel suo sorriso famoso nel vostro ricordo dev’essere lugubre come quelle rastrelliere a molla messe in mostra nelle custodie di vetro sospese alla porta dei dentisti americani.

Sì, o amici di Pasquino, voglio ridermi di chi mi rimprovera l’irriverenza verso un tal figuro coniugato che non si peritò di assumere agli onori capitolini il suo talamo puritano e la prole canora del suo primo letto. Voglio vantare e voglio inacerbare la mia subitanea ripugnanza per chi, ricevendo qui con la mano della sua graziosa donna la Lupa d’oro massiccio offerta, nascondeva nella sua propria il nodo scorsoio da gettare alla gola dell’Italia ingenua.

Era un laccio austriaco, fornitogli da quel rinnegato suo familiare che croatizza col cappa il suo nome indegno.

Era troppo consunto, per aver troppe volte strozzato il grido d’Italia nel collo dei nostri confessori e dei nostri martiri. Era troppo logoro. S’è rotto.

Il grido d’Italia scoppia dal profondo cuore della libertà che è una con essa.

Rinnovatelo.

Se giunga di dall’Atlantico, il popolo dell’Unione lo ripeterà a gran voce, nel separare dalla maschera senile il suo giovine volto.

In un giorno di aprile, or è due anni, ben io fui che dissi: «Il saluto d’Italia, dal Campidoglio al Campidoglio, giunga al popolo dell’Unione come il più alto tra quanti glorificano lo spirito che lo conduce a riconfermare e risuggellare il suo patto con la libertà. Perché l’Italia, sola fra le nazioni alleate, potendo evitare la guerra e rimanere spettatrice inerte, si sollevò liberamente in armi non tanto per la riconquista del suo retaggio quanto per la salvezza di tutto ciò che nei secoli nati da Roma fu la nobiltà dell’uomo libero. Ella si armò, come fa oggi il popolo degli Stati, per una ragione ideale, per una rivendicazione eroica. Il suo atto spontaneo, come quello che oggi compie la gente di Giorgio Washington, ebbe la bellezza di un sacrificio offerto alla speranza dell’uomo

Ma la gente di Giorgio Washington e di Abramo Lincoln non può essere oggi l’eco o il coro del tristo quacquero incroatato.

Le delegazioni di trenta contrade, e più di centomila cittadini convenuti in Atlantic City a ricelebrare la gloria dell’Ala umana, mi chiesero una parola italica per calendimaggio.

Eccola. È la vostra. Ha varcato l’Oceano. Tutti gli Stati, a nord, a sud, a est, a ovest, la odano e la raccolgano.

«Popolo dell’Unione, adunato nella Città atlantica per confermare all’uomo la conquista del cielo eterno, oggi il saluto d’Italia ti giunge ardente come nell’aprile lontano quando ti alzasti per difendere lo spirito eterno dell’uomo contro la minaccia barbarica.

«Nell’ora della sua coraggiosa angoscia, l’Italia invoca la gente di Giorgio Washington e di Abramo Lincoln affinché novamente si levi a impedire il sacrifizio ingiusto di chi ha tutto sacrificato per la grande causa.

«Popolo della bandiera stellata, tu non puoi non consacrare con una nobile sconfessione e con una nobile testimonianza il giorno che in te glorifica la più nobile cosa del mondo: l’Ala dell’Uomo e della Libertà

Così risaluto con voi nel cielo atlantico la costellazione di primavera, lo «Spiritual Segno».

E tralascio per ora il marchio. Rimetto il ferro sopra il fornello implacabile.

Respiriamo il nostro orgoglio, Romani, Italiani. E ascoltiamo i nostri eroi. Lasciamoci comandare e guidare dai nostri morti.

Gli ultimi sono i primi. Gli ultimi sono i più imperiosi. Gli ultimi saranno quelli che ci condurranno.

Per manifestare quel che oggi i sepolcri domandano e comandano al popolo italiano, mi basta di evocare gli eroi di Paradiso.

Chi sono gli eroi di Paradiso?

Hanno un fato anche i nomi delle cose grandi. E mi ritorna nello spirito il verso d’una canzone della Gesta d’oltremare:

Il paradiso è all’ombra delle spade.

Ma questo non è se non una landa veneta, una pianura palustre, tra Muzzana del Turgnano e Castiòns di Strada: una terra supina d’erbe e di sterpi, una di quelle terre povere che sono fatte per essere più disperatamente amate, che sono fatte per ricevere il miglior sangue.

v’è un mucchio di case che ha il nome di Paradiso, e in prossimità v’è il bivio.

In una mattina dell’aprile recente, sul bivio solitario fu scoperto un monumento semplice, dedicato agli ultimi morti della guerra d’Italia.

Assisteva alla cerimonia severa, con i combattenti della Terza Armata, il Duca d’Aosta.

Pareva che l’odore del lauro funebre e trionfale si spandesse per tutta la landa tranquilla. Emanuele Filiberto di Savoia si scoperse, stette un poco in silenzio; poi disse con la sua voce magnetica: «Questi ultimi morti, che oggi onoriamo, al nostro cuore sono i più santi e i più belli. Veterani di cento prove, rimasti incolumi, giovinetti imberbi, frementi di speranze e di sogni, scagliarono l’anima oltre la morte, oltre il destino, consapevoli, nell’attimo stesso in cui la battaglia stava per essere interrotta

Compagni, fratelli, bisognerebbe ascoltare in ginocchio il racconto.

Era il principio di novembre. Rotta la fronte nemica, la Terza Armata avanzava nella pianura veneta con una celerità che di tratto in tratto rompevano le resistenze opposte dall’Austriaco per salvare almeno il grosso delle sue truppe e dei suoi carriaggi.

La 23 Divisione dei Bersaglieri con i suoi quattro reggimentisecondo e terzo della settima brigata, ottavo e tredicesimo della sesta – e con i Cavalleggeri di Aquila, avanguardia impetuosa, precorreva la vittoria.

La mattina del 4 novembre passò il Tagliamento sul ponte di Madrisio mal distrutto; e proseguì con eguale impeto fino ad Ariis, travolgendo ogni contrasto. Le aprivano la via i Bersaglieri dell’ottavo reggimento e tre squadroni dei Cavalleggeri di Aquila.

Pareva che la rottura del ponte sul fiume Stella, operata dal nemico presso Ariis, e il tiro incessante delle mitragliatrici poste lungo la riva a sinistra, fossero per interrompere la furia piumata. Ma, con l’aiuto dei Cavalleggeri scesi di sella, i Bersaglieri riattarono il ponte sotto il fuoco, superarono l’insidia, lasciarono dietro di loro i feriti e i morti, passarono oltre, incalzando le truppe magiaretenace retroguardia d’una Divisione di ulani appiedati –, e le raggiunsero al bivio.

Bisogna inginocchiarsi.

Questi fanti d’Italia, questi cavalieri d’Italia sapevano che stava per scoccare l’ora dell’armistizio. Lo sapevano.

Avevano l’ardore in bocca, il vigore nel petto, il cuore palpitante. Erano giovani. Vivevano. Il diritto alla vita stava per essere ricollocato sul dovere del sacrifizio. Essi potevano preservare il loro sangue, essi potevano ritenere nel loro pugno la loro sorte. L’ora stava per scoccare. Intendete, fratelli?

Bisogna inginocchiarsi.

Essi erano inebriati dall’ansia di spingere la vittoria quanto più lontano fosse dato al loro soffio, sul suolo riconquistato, prima che quell’ora scoccasse e segnasse il termine raggiunto. Potevano vivere e incoronarsi. Vollero incoronarsi e morire.

Mancavano solo cinque minuti alle ore quindici quando i Bersaglieri dell’ottavo reggimento e i Cavalleggeri di Aquila raggiunsero il nemico al bivio di Paradiso.

Quivi era l’ultima resistenza. Quivi era l’ultima gloria dei combattenti. Quivi era lo sguardo della Patria, quello sguardo che l’eroe sente sul suo cuore segreto, e il cuore gli balza.

Il nemico era protetto da fitte siepi di mitragliatrici che infilavano e spazzavano la strada. Chi ha combattuto sa che sia per il nudo coraggio l’insistenza rabbiosa della raffica. In un attimo fu deliberato l’assalto, fu deliberata la carica.

Inginocchiamoci.

La gente a piede e quella a cavallo mossero in un solo impeto: lo squadrone di avanguardia nella strada, ai lati gli altri due. Il fante cercava di superare il cavaliere. Il cavaliere portava in groppa la potenza del fante. Mai fraternità d’armi fu più gloriosa.

Cedette all’urto fulmineo l’ultimo ostacolo che ci separava dalle terre profanate. L’ora scoccò. Il vinto alzò la bandiera bianca.

I nostri morti coprivano la polvere, coprivano l’erba. I nostri feriti sanguinavano, mordendosi i pugni nel rammarico della corsa interrotta. Tutti i muscoli degli assalitori frenati tremavano come tutte le penne della Vittoria.

Inginocchiamoci. Rialziamo quei morti. Gli ultimi saranno i primi, gli ultimi ci condurranno.

Sono i nostri Capi di oggi, sono i nostri condottieri di domani. Sono i condottieri del nostro orgoglio.

Una nazione che tali eroi può guardare l’avvenire come il campo riservato alla sua semenza. Chi avrà ragione della sua virtù e della sua gioventù?

Ecco un giovine Italiano, ecco un adolescente, Alberto Riva, della casata di Villa Santa, un Italiano di Sardegna, diciottenne. Suo padre era caduto nella battaglia il 7 giugno 1916. Quattro dei suoi consanguinei erano caduti nella battaglia. Al suo fianco un suo fratello era stato ferito. E non gli bastava.

Stirpe più che ferrea, silenziosa sublimità sarda, eroismo dalle labbra serrate, sacrifizio senza parola. L’isola non s’è risaldata al continente? C’è tuttavia il Tirreno tra noi e quel masso d’amore?

Al passaggio del Piave, al passaggio della Livenza, questo fanciullo aveva operato prodigi, conducendo il reparto d’assalto dell’ottavo reggimento di Bersaglieri. Il 4 novembre, all’ora precisa dell’armistizio, cadde anch’egli, alla testa dei suoi Arditi, colpito nell’atto del balzo, «per spingere la vittoria più lontano, per più accostarsi a quelli che ci aspettavano, a quelli che ancóra ci aspettano».

Aveva diciottanni. Ha diciottanni. Ma è il nostro Capo. Dobbiamo seguirlo. Tutti lo seguiremo.

Ditelo. Gridatelo.

Romani, e c’era innanzi a tutti un cavaliere romano, il tenente Augusto Piersanti di Roma, ucciso, col suo cavallo, pochi attimi prima dell’ora.

Rialzatelo. E rialzate il suo cavallo. S’egli si rimette in sella, sa dove andare.

Avete inteso il suo nome? Tenetelo a mente. Non lo dimenticate più.

Augusto Piersanti di Roma volle morire per coprire del suo corpo e del suo amore la sua terra, qualche palmo più in . La sua mano era impigliata nella criniera del suo fedele.

Non gli decretate una statua equestre. Non ha bisogno del bronzo per essere eterno. È più potente del metallo imperiale. È vivo. È un Romano vivo. Sarà sempre vivo, quando colui che qui fu ospite indegno avrà chiuso i suoi mille occhi ciechi di pavone insulso.

Lo zoccolo del suo cavallo scalpita le lastre romane. Il collo del suo cavallo, dalla criniera ingemmata del sangue di Paradiso, si tende verso le colonne romane, laggiù, a Spalato, nel palazzo dell’Imperatore.

Non l’udite? Nitrisce.

Laggiù, su le vie dell’Istria, su le vie della Dalmazia, che tutte sono romane, non udite la cadenza di un esercito in marcia?

I morti vanno più presto dei vivi.

E per tutto ritrovano essi i segni dei legionarii.

Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandre di porci!

Con le Aquile e col Tricolore, troncati gli indugi, rinnovato il suo maggio, un’altra volta dal Campidoglio si muove l’Italia.

a noi!


«»

IntraText® (VA2) Copyright 1996-2013 EuloTech SRL