Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Dalla ringhiera del Campidoglio

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Dalla ringhiera del Campidoglio

[vi maggio mcmxix]

Romani,

cadeva ieri il quarto anniversario della Sagra dei Mille. Era ieri il cinque maggio: una data due volte solenne, la data di due dipartite fatali.

E oggi, or è quattr’anni, a Genova, nel Palagio di San Giorgio, nella sala dei Capitani del Popolo, davanti a un’antica figura in cui era rappresentata con rilievo romano e con romana brevità la vittoria dell’anima eroica su la prova del fuoco, era ripetuta la sentenza che nel tempo della Gesta d’oltremare attribuimmo al «Signor del novo regno»:

Chi stenderà la mano sopra il fuoco

avrà quel fuoco per incoronarsi.

Allora la stendemmo.

Allora il mondo minacciato ci domandava l’aiuto, ci domandava la salvazione. Pari al destino tutto il popolo sorse e rispose: svelò le insidie, schiacciò le viltà, sgominò il tradimento. Bandì la guerra, sostenne la guerra, la vinse. Meglio la vinse quando sembrò che la perdesse. Sola l’Italia salvò al mondo la giustizia. Sola patisce oggi l’ingiustizia del mondo.

Non da questa ringhiera dovevo io novamente gettare l’allarme a un popolo offeso e deluso; ma in Quarto, tra il colle e il mare, davanti al colosso di bronzo, dovevo – per volere dei Genovesicelebrare il rito della compiuta vittoria, concludere nel canto d’allegrezza il ciclo di quattr’anni dolorosi, render grazie all’Iddio nostro e riconfermare il patto latino col profondo avvenire.

Ma il colosso laggiù è deserto, dinanzi al suo mare senza riposo. E io credo che anche stanotte fu veduto rosseggiare dai naviganti. Io credo che anche stanotte apparve tutto rovente, come ripreso dal furore della fornace, sopra la lamentazione delle acque.

Dissi in quella Sagra, considerando quel creatore di volontà e di eventi: «Se mai le pietre gridarono nei sogni dei profeti, ben questo bronzo oggi grida e comanda

L’Eroe comanda all’Italia l’eroismo. All’Italia eroica comanda di mostrarsi ancor più eroica.

Egli che sempre tutto diede e nulla ebbe, egli impone di nuovo all’Italia lo spirito di sacrifizio, lo spirito suo stesso.

Sempre più in alto l’animo e il tricolore, Italiani!

Se noi potessimo vedere nella lontananza del tempo e della poesia la Patria quale oggi è, ci sembrerebbe più bella che sul Piave, più bella che sul Grappa, più bella che a Vittorio Veneto.

Venga Francesco d’Assisi, il più italiano dei Santi, il più santo degli Italiani, e glorifichi con le voci di tutti i suoi beati questa potentissima povertà dell’Italia!

In mezzo a un’Europa che si vende, l’Italia povera oggi raccatta la fiaccola dell’eroismo, da tutti lasciata stridere nel fango; e la risolleva e la riagita.

Pur quelli che più fiammeggiarono sono divenuti carboni spenti, atti a scrivere le cifre del mercato sul muro cieco.

Noi vogliamo ardere. Noi non vogliamo spegnerci. La nostra povertà arde e sfavilla. E tutto l’oro transatlantico è opaco al suo cospetto.

Accettiamo la nostra necessità eroica.

Il castello di Versaglia è assai meno alto dell’Arce capitolina.

Versaglia non è oggi se non un Teatro di verdura per una compagnia di maschere, come al tempo del Re Sole. Maschere lugubri. La nostra Commedia dell’Arte a quel tempo ne dava di assai più vivaci.

si preparava alle firme incerte un pezzo di carta che, senza di noi, non poteva esser dissimile a quello già stracciato dal Tedesco sul viso sanguinoso del Belgio come noi colpevole di aver salvato il mondo.

Ma, se il Belgio ha salvato il mondo una volta, noi l’abbiamo salvato tre volte. E abbiamo un privilegio anche verso l’ingratitudine.

Dicono che i plenipotenziarii tedeschi fossero pallidi. Non credo che fossero raggianti gli impositori. L’assente era presente. E non era un’ombra, come nella tragedia. Era una luce. E la luce può essere talvolta un castigo: il più terribile di tutti.

Veneriamo qui la luce, come i nostri padri. Facciamo alla luce l’offerta della nostra povertà. E restiamo i vincitori, restiamo oggi i soli vincitori, davanti all’eterna coscienza umana, contro una concorde e discorde lega di comprati e di compratori.

Abbiamo vinto. Rivinceremo.

Se c’era chi esitava a raccogliere il grido che viene dall’altra spondavoce solenne di arengo, non clamore vano di tumulto –, il popolo l’ha raccolto e lo converte in legge statuita.

Ieri nell’assemblea chiusa, oggi sotto il cielo aperto, il comando è uno. Ed è inevitabile, come fu inevitabile la guerra, come fu inevitabile la vittoria. Lo sappia chi ci governa.

Fiume nostra e Dalmazia nostra!

Che vuole, con chi è il vero popolo italiano?

Per avere io detto che le parole sono femmine e i fatti sono maschi, un’ammirabile vecchia italiana settantenne in nome delle donne d’Italia mi ha rimprocciato. «Quando occorra, le donne d’Italia sapranno provare alla Patria non come le parole soltanto ma i fatti sieno femmine.» Così m’ha scritto. A settantadue anni è nonna di ventinove combattenti, dei quali superstiti ventuno, morti sei, due mutilati. E i ventuno, rimarginate le ferite, sono pronti. Essa me li .

Un mutilato romagnolo, che non ha se non un braccio, si esercita a tirare con quello, e non falla. «Ho pronto il mio Modello-91. La canna è lucida, l’otturatore è scorrevole, la mira è certa. Non mi lasci. Mi prenda.» Così mi scrive.

Un grande uomo di scienza e di misericordia, un grande chirurgo che voi conoscete e amate, un salvatore che un giorno ero andato a cercare in fondo al Vallone del Sangue perché venisse a salvarmi un compagno ferito, non s’è ricordato a me in due anni se non per scrivermi: «Quel giorno non potei salvarvi il fratello a voi caro. Ma, se risolvete di fare oggi ancóra qualche cosa per l’Italia nostra, per l’onore dell’Italia nostra, qualunque cosa, chiamatemi. Tutto che potrò, darò; e oltre.»

Questo è il popolo vero d’Italia.

L’eroe, che quell’uomo non poté salvare coi suoi ferri miracolosi, si chiamava Giovanni Randaccio. Era il fante esemplare. Era quegli che non poteva essere se non un fante. Era quegli che pareva stampato fante dalla nascita. Era un figlio della terra, una creatura della zolla e del sasso, della mota e della polvere. Era l’esempio d’ogni improba virtù. Era l’uomo compiuto della guerra nuova: l’audacia riscolpita secondo il modello della pazienza. Era il vero operaio della vittoria. Insomma, era il fante.

Se egli, il fante dei fanti, duro uomo di trincea e di assalto, che morì di morte divina, dico divina, se egli scoperchiasse la sua pesante arca di Aquileia e sorgesse, che direbbe?

Lo sapete.

Io ho promesso di sciogliere un suo vóto. Io ho promesso a Trieste la nostra bandiera del Timavo, la bandiera che con lui portai a zaino su la strada vecchia di Trieste la sera del 26 maggio 1917 e poi a San Giovanni e alla Quota 28, alla punta del saliente orientale della Terza Armata, col secondo battaglione del 77° reggimento di fanteria.

L’ho qui. Voglio che prima voi la consacriate. Voglio che prima il popolo di Roma la consacri. Voglio spiegarla su la ringhiera del Campidoglio prima d’issarla in cima alla torre quadrata di San Giusto. Voglio prima spiegarla qui dove la sera del 17 maggio 1915 fu sguainata la spada di Nino Bixio «secondo dei Mille», primo fra tutti i combattenti sempre.

È grande, è molto grande. Era destinata a sventolare su la torre di Duino ancóra in piedi, perché da Trieste si vedesse.

Eccola.

Alla Quota 12, alla Cava di pietra, ripiegata servì di guanciale per l’eroe moribondo. A Monfalcone coprì il suo santo corpo. Ad Aquileia coprì il suo feretro; e i larghi lembi strascicavano per terra, sollevando la polvere rifecondata.

Questa, Romani, questa, Italiani, questa, compagni, è la bandiera di quest’ora.

L’imagine sublime del fante, che vi poggiò la testa, v’è rimasta effigiata.

Ed è l’imagine di tutti i morti; ché tutti quelli che sono morti per la Patria e nella Patria si somigliano.

È il sudario del sacrifizio.

Comandatemi che, prima di donare questa bandiera a Trieste, io la porti a tutte le città roventi che non vogliono più attendere, che non possono più patire.

In quella sera lontana di maggio io qui m’ardii di baciare per voi, su la spada di Nino Bixio, i nomi delle vittorie.

Bacio per voi in queste pieghe i nomi delle martiri ancóra senza palma: Fiume, Zara, Sebenico, Traù, Spalato, Almissa, Ragusa, Cattaro, Perasto, tutti i nomi, tutti.

Il popolo non taglia nella sua carne viva. Non è il carnefice del suo amore. Non è il violatore della sua promessa.

Tutti i nomi!

E per chi ha dato il sangue, per chi ha dato l’anima, per chi ha lottato e penato e sperato e disperato e sperato pur sempre, anche questi son nomi di vittorie come quelli incisi nella spada garibaldina.

Ora ascoltatemi. Fate più grande silenzio.

Ho qui con me i miei compagni più prodi: uno stuolo di giovani eroi dell’Ala, e due tra i fanti più insigni del battaglione di Giovanni Randaccio, uno dei quali è mutilato.

E questi a Monfalcone mi aiutò a calare nella fossa la salma; e con me ripetette davanti alla fossa il giuramento. Ed ebbe poi l’orgoglio di ricondurre al fuoco gli uomini del Veliki, del Faiti, e di San Giovanni.

Ascoltatemi. Come parlo ai combattenti, parlo ai cittadini. Parlo agli ignoti come parlo ai compagni.

Ieri, cinque maggio, data due volte solenne, data di due dipartite fatali, avvenne una partenza che è oscura per tutti.

Non v’è, nella storia dell’Italia nuova, deliberazione più grave di quella che ieri fu presa dal Capo del Governo in quest’ora di grandezza tragica per la Patria, in quest’ora veramente suprema e tremenda per le sorti del nostro avvenire.

La volontà nazionale fu interrogata. La volontà nazionale rispose, unanime. E soltanto la volontà nazionale dovrà altamente e severamente parlare, domani, per la bocca dei suoi delegati, alla tavola dove essa fu già disconosciuta e delusa.

Anche una volta è sospesa nell’ignoto l’anima della nazione, che nella durezza della solitudine aveva ritrovato tutta la sua disciplina e tutta la sua forza.

Attendiamo in silenzio ma in piedi. Roma resterà silenziosa come nella notte del 24 maggio, quando il dado fu tratto. Silenzio potente: tacitum robur.

Nell’attesa, la parola d’ordine, parola interiore, è questa: «Ricordarsi e diffidare; diffidare di tutti, confidare in noi stessi; ma, sopra tutto, ricordarsi ricordarsi ricordarsi

Io, perché l’aspettazione sia votiva e il raccoglimento sia vigile e il giuramento sia fedele, fiso all’arca di Aquileia, voglio abbrunare la mia bandiera finché Fiume non sia nostra, finché la Dalmazia non sia nostra.

Ogni buon cittadino, in silenzio, abbruni la sua bandiera, finché Fiume non sia nostra, finché la Dalmazia non sia nostra.

Voglia il già invocato Iddio capitolino che noi possiamo domani riagitarla nella gioia, e risonare la Campana a stormo, e gridare alfine, da ponente a levante, da tramontana a mezzodì, gridare alfine con spirito vittorioso il grido vittorioso:

Viva la compiuta Italia!



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