Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Parole dette alla mensa degli aviatori nel campo di Centocelle

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Parole dette

alla mensa degli aviatori

nel campo di Centocelle

[xii maggio mcmxix]

Ringrazio del fraterno saluto il Comandante, bersagliere terrestre e celeste, che mutò in ala rigida la sua piuma di gallo bruciacchiata da tutti i fuochi del Carso e dell’Alpe nella trincea e nell’assalto.

Non so dirvi, compagni, quanto mi piaccia di ritrovarmi con voi in questo campo romano che sovrappone al suo vecchio nome augustèo quello di un sublime eroe novissimo come oppone l’infinito miracolo delle antenne aeree ai secoli pietrificati nelle vertebre dell’acquedotto.

Qui, or è moltanni, l’ansia d’Icaro, già da me cantata in un poema di divinazione, la portai viva ai primi esperimenti di Mario Calderara, mio primo pilota di pace. E qui feci una sosta notturna e presi l’augurio, andando verso la Puglia piana con la mia squadriglia di Cattaro. Né dimentico che in tempi assai più lontani, or è troppi anni, di qui passavo non di rado, ingannando la tristezza del cavaliere inerme nei pericolosi galoppi dietro le volpi laziali di gran lena e apprendendo davanti a una «tre filagne» il cànone essenziale dello stile di guerra: «gettare il cuore di e andare a riprenderlo».

Che cosa abbiamo fatto se non questo, in quattr’anni duri, per avere alfine la testa e la coda della più vecchia e più grossa e più scellerata volpe europea?

Ora c’è chi ci contende e l’una e l’altra! E bisogna di nuovo gittare di il cuore, o il fegato.

Eccoci qui, miei cari compagni, lontani da quella zona di fuoco che era come l’orlo infiammato della nostra anima stessa. Eccoci qui delusi, inquieti, malcontenti, furenti; e sempre pronti.

Veggo tra voi qualche pilota delle grandi notti, qualcuno di quelli che primi con me, dritti nella carlinga, su l’inferno bianco e rosso di Pola scagliarono il primo alalà.

Capitano Darbi, gli equipaggi della nostra Ottava squadriglia non sono tutti oggi alla radunata con noi? E i due stupendi piloti del mio «Asso di picche» cento e cento volte forato non ritornano a me dalle sepolture di Conegliano?

Il petto si riempie di rammarico e di malinconia; ma nel mezzo del petto il coraggio ha il viso chiuso e crudo di quelli che morirono dopo l’orrore di Caporetto.

Ecco che, guardandoci negli occhi, ci riconosciamo fratelli per sempre, noi Arditi dell’Ala, noi Fiamme blu.

Sappiamo che al primo segnale ci ritroveremo per essere anche una volta una fiamma sola, noi Fiamme blu.

Siamo certi che al primo segnale ci ritroveremo tutti, col nostro proposito bene assicurato come il nostro coppo di cuoio in testa, come quando all’ombra delle nostre prue lisce aspettavamo l’ora della partenza ch’era per noi l’ora allegra del commiato senza addio. Ci ritroveremo per ripartire anche una volta, senza cura del ritorno, noi Fiamme blu.

Vogliono stroncare l’Ala d’Italia. L’Ala d’Italia resisterà, con la forza di tutte le sue cèntine, con la forza di tutti i suoi tèndini che le aggiunse ogni morte d’eroe, resa più sacra a noi da questo tentativo di sacrilegio.

Vogliono spogliare e umiliare l’Italia. L’Italia rimarrà vivente e potente, incolume non nella fossa dei leoni come la creatura di Dio ma in quella degli sciacalli e delle iene, anch’essa creatura di Dio: la più bella.

In un giorno di novembre, dopo il buio di Caporetto, per avere un conforto alla mia passione, andai a visitare i difensori del Grappa, andai alla piccola patria del Grappa, che era la cittadella della fede.

Non volevo essere se non quello del Veliki e del Timavo, ridivenuto fante tra i fanti. Tra noi ci sfogammo contro gli errori, contro le viltà, contro le menzogne, contro tutte le colpe che ci avevano condotto a quella perdizione. Non vedevo ancóra quel che poco dopo vidi: Caporetto essere il nome fatale della nostra «dodicesima vittoria».

Ridiscendevo verso sera per il camminamento, pensoso, a capo chino, quando uno della compagnia, un giovine capitano di Sicilia, mi gridò: «Su, signor Maggiore! Non c’è rimedio, vinceremo

Lungamente seguitò a gridarmi, col suo forte accento isolano, finché potei udirlo: «Non c’è rimedio, vinceremo

Sì, compagni, non c’è rimedio. Credo che nemici e alleati lo sappiano. Contro tutti e contro tutto, vinceremo.

Questa parola del Grappa, escita dal macigno del Grappa, sgorgata dal masso della resistenza, mi sembra la buona parola di oggi. C’è l’ironia e la fede, c’è il sarcasmo e la fede, c’è il disprezzo e la fede.

Per ciò bevo all’Ala d’Italia, che è visibile e sonora nel cielo: a quella che fra tutte nel mondo volò più alto verso il sole e più basso contro il nemico. Ma bevo anche all’altra Ala d’Italia, che non è visibile se non ai divoti e che fende in silenzio il destino.

Eia! Eia! Eia!

Alalà!



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