Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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L’Italia alla colonna e la vittoria col bavaglio

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L’Italia alla colonna

e la vittoria col bavaglio

[discorso al popolo di roma

vietato dal capo del governo

il xxiv maggio mcmxix]

Romani, Italiani,

se oggi la volontà di tutti gli uomini liberi nella nazione ingannata e sopraffatta deve parlare per la bocca di un solo, ritorni nel nostro cuore il silenzio sublime della notte di maggio, della prima notte di guerra, quando Roma tacquedopo tanto tumulto, dopo tanto sforzo, dopo tanta ambasciatacque; e del suo silenzio umano e del silenzio che riempie la bocca dei suoi Archi, dei suoi Fòri, delle sue Terme, dei suoi Circhi fece una potenza nuova, una potenza vivente e formidabile.

Avevamo serrato la nostra anima intorno alla nostra verità e le nostre mascelle sul nostro proposito. Maschio esempio. Insegnamento per oggi.

In quella prima notte di guerra, sotto un cielo tumultuante di nuvoli e di chiarori, il popolo non gridò, non ingombrò le vie, non agitò le bandiere, non minacciòingiuriò il nemico, non danzò intorno alle colonne venerande e alle statue illustri. Rimase in una gravità silenziosa che sembrava fare di lui una massa più compatta di quella che voi fate, qui, nel chiuso.

Tra i monumenti che la torbida notte rendeva più vasti e più solenni, la volontà del popolo sembrava inalzarsi come il più vasto e il più solenne dei monumenti. Roma ridiveniva romana, come al tempo austero della sua republica.

Nell’atto di offrire il sacrifizio, sapendo qual sacrifizio ella offrisse, non esclamava più, non parlava più. Severo spettacolo, maschio esempio. Rimaneva taciturna come chi guarda il proprio fato e si sente a lui pari, anzi a lui sovrastante.

Oggi noi vogliamo celebrare quel silenzio, Italiani, non altro che quel silenzio guerriero.

L’Italia aveva partorito il suo futuro con uno spasimo atrocissimo; aveva ansiato prima di assalire; aveva sanguinato prima di combattere. Nelle ultime notti, le grida della moltitudine sembravano grida d’implorazione verso un dio redentore.

Ed ecco taceva, quando la sua gente cominciava a morire sul suolo, quando la sua gente cominciava a morire sul mare, quando il suo sangue cominciava a scorrere, quando il suo miglior sangue cominciava a fumare davanti a una grandezza invisibile che era la sua grandezza promessa.

Oggi vogliamo celebrare quel silenzio.

Ve ne ricordate? Io me ne ricordo. Vegliai. Aspettai l’alba. Credetti.

Il destino era senza misura, e l’aspetto di Roma gli era pari. La speranza non aveva limiti. Il sogno non aveva confini. I muti lampi, che a tratti illuminavano l’orizzonte dietro le cupole, parevano i bagliori di un’opera in fusione, i riverberi d’una creazione rovente. Il solco di Romolo, disegno della città quadrata, sembrava divenuto la cintura della terra.

Vogliamo celebrare quel silenzio, Italiani.

Con un atto dello spirito, vogliamo riedificare e riaprire il tempio della Fede publica, che il Lazio già venerava prima dell’avvento di Romolo. Con un’opera d’anima, accanto al tempio della Fede vogliamo riedificare e riaprire quello della Costanza virile.

Vogliamo sentire la nostra romanità e la nostra italianità sino alle infime radici, sino al rudere più profondo, sino alla più occulta testimonianza. Vogliamo sentire la nostra italianità in tutto il tempo, in tutto lo spazio degli evi, sino al crepuscolo in cui i nostri mari cominciarono a essere illuminati dalla bellezza dei nostri lidi, sino all’ora fatale in cui per la prima volta su la spiaggia latina sonò dall’alto di una prua il nome d’Italia, e sino alla rivendicazione e alla rivincita di domani, e sino alla fecondazione e alla conquista del più remoto avvenire.

Siamo Italiani dall’eternità e per l’eternità.

E, se oggi Cristo ci ribattezza nel dolore, Roma ci ristampa nell’orgoglio.

Fratelli in Roma e in Cristo, il tempio della Fede e quello della Costanza sono a noi un tempio solo: sono la nostra basilica.

E la Fede e la Costanza non sono due divinità del culto esterno ma due virtù dell’anima popolare.

E, dov’è commemorato il sacrifizio, ivi è la basilica ideale.

Questa è la basilica. E qui celebriamo il rito di maggio: non l’officio dei morti ma la santificazione del sangue effuso.

Oggi è l’Ognissanti della Patria.

E l’Ognissanti della Patria non è un giorno d’autunno ma un giorno di primavera: un giorno di primavera piena, un giorno che cresce, un giorno che culmina.

Non importa che questo luogo sia chiuso. Abbiamo tutti su la nostra divozione il nostro cielo, il nostro più alto privilegio, il nostro più arduo amore: il nostro cielo eroico, quello che affisavano i feriti cadendo, gli uccisi spirando, quello che fu bevuto dall’ultimo sguardo degli eroi, quello che penetrò nei loro petti quando il respiro fu esalato.

C’era un cielo sul San Michele, c’era un cielo sul Monte Nero. Dal Vodice all’Ermada, da Tolmino al Pecinca, da Sagrado a Plezzo, da Plava a Doberdò c’era un cielo disteso. Dai ghiacciai del Cevedale alle fonti del Timavo c’era un cielo di coraggio e di concordia. Tra il Montello e il Grappa c’era un cielo di offerta e di sacrifizio, di anelito e di fuoco.

E un potere, mille e mille volte più forte di quello che voltò la vostra cupola vaticana e soffiò nella vostra Sistina lo spirito di creazione, oggi volta su noi tutti quei cieli in un solo arco di gloria.

E, se la parola fa tutto presente, se il verbo si fa carne e il verbo si fa pietra, i ventiquattromila morti del Grappa – come quegli angeli che a miracolo traslatavano per l’aria le Case di Diosorgono, e sollevano il monte e trasportano il monte all’orizzonte di Roma perché sia veduto.

Io lo vedo. Non lo vedete voi? Tutti lo vedono, tutti lo vedranno.

È senza crollo, su gli omeri dei fanti.

E, se il Figliuol d’uomo – il vivo che fu rimesso orribilmente in croce dal nemico di ieri ed è ribadito dai nemici di oggi, il Cristo delle nostre battaglie, che vedemmo nel crocicchio sotto il fuoco perdere i due piedi come un fante colpito da una grossa scheggia e rimaner tuttavia fisso al legno per la mano sinistra, e protendere contro l’avversario la mano destra tuttora irta del chiodo come di un’arme disperata – se il Figliuolo di Dio dovesse eleggere un monte per una nuova Trasfigurazione, io dico che eleggerebbe quello.

Lo elegge l’Italia, che nell’ora oscura ci parve avere un volto somigliante a quel volto, quando senza prezzo pativa e lottava pel riscatto del mondo.

Vi ricordate di quel passo? «E i discepoli, udito ciò, caddero col viso a terra, e furon presi da gran timore. Ma Gesù, accostatosi, li toccò e disse: Levatevi, e non temete. Ed essi, alzati gli occhi, non videro se non Gesù tutto solo.»

Alzate gli occhi. Vedete tutta sola l’Italia, sfolgorante.

Agli Italiani l’Italia viva e vera grida oggi, nel senso della prova e della lotta: «Levatevi, e non temete

Siamo tutti levati, i primi come gli ultimi; e non temiamo.

Non temiamo la luce e non temiamo la verità.

Ecco la verità.

Separiamo nettamente la virtù del popolo dall’inettitudine dei Capi.

Da tanta somma di errori, di colpe, di falsità, di viltà, il popolo esce mondo. Quel che fu fatto di bene, non fu fatto se non da lui: dal suo istinto, dal suo genio, dalla sua fortuna. Quella veste che sfolgora sul monte è la sua veste, «di un tal candore che nessun tintore su la terra sarebbe capace di produrre», come dice la Scrittura. I tintori paesani e stranieri, che oggi ritingono ogni cosa e anche la loro canizie non veneranda, riesciranno a cangiarla o a macchiarla?

La guerra fu bandita dal popolo generoso, con un impeto di generosità fraterna che giunse a dimenticare ogni rancore, ogni esperienza, ogni diffidenza. Dimenticammo Nizza e la Corsica, dimenticammo Mentana, dimenticammo l’amarezza di chi aveva combattuto e vinto a Digione, lo stupore di chi s’era lasciato prendere ingenuo nel laccio di Tunisi. Dimenticammo i fornimenti concessi contro di noi al nemico abissino, trasbordati a Marsiglia, sbarcati in Obuk. Dimenticammo le avversioni palesi e nascoste alla gesta d’oltremare, all’impresa di Libia, e il contrabbando di guerra praticato ai nostri danni, e i carichi di cartucce tunisine pel Turco. Dimenticammo i nostri morti di Amba Alagi e di Adua, stesi nella sabbia dalle armi giunte in Etiopia attraverso i porti di Francia e d’Inghilterra. Dimenticammo anche l’episodio crudo delle due navi nel nostro Tirreno, delle quali una portava un nome che evoca la pertinacia ostile dell’antico Censore. Tutto dimenticammo, per non ricordare se non il «latin sangue gentile» e per non obbedire se non alla necessità di salvare la Francia e l’Europa, come affermavano con salmi subitanei di amore e di lode quelli che oggi ci spogliano e ci vilipendono.

Quali premii non ci furono offerti? quali ricompense non ci furono vantate e promesse?

Riconosciuto il nostro diritto adriatico e mediterraneo, riconosciuta la nostra preponderanza nella Balcania, la nostra influenza nell’Asia Minore e nell’Africa. Io stesso, il 25 e il 27 aprile 1915, pochi giorni prima di partire per la Sagra dei Mille, feci publiche in Francia con la solita nettezza due dichiarazioni, delle quali l’una intitolata L’amarissimo Adriatico, l’altra intitolata Il cemento romano, determinando i nostri confini e i nostri diritti, tutti i nostri diritti, specialmente quelli che non considera il magro Patto di Londra e neanche la rattoppatura di Moriana. Non fu, intorno a colui che partiva solo con la sua fede sincera nella Resurrezione latina, non fu se non un coro di consensi quasi ebro!

Per prendere le armi, lottammo. Avendole prese, le moltiplicammo e le portammo alla vittoria: anzi alla sola intera vittoria di tutta la guerra, alla sola vittoria piena ottenuta in campo aperto.

Non eravamo preparati. Non dovevamo levare se non un mezzo milione di uomini. Ne levammo cinque milioni, ordinati in un esercito gagliardo e flessibile che s’avanzava al modo romano, assodando le strade e combattendo « dove non era pur giunto l’artiglio dell’aquila».

Il popolo fu il legionario eroico.

Non avevamo se non scarse industrie a foggiare le armi e gli arnesi, non avevamo se non fiacche officine, confuse opere; e da per tutto si accesero i fuochi, la macchina e l’uomo si collegarono, l’ingegno allo sforzo sfavillò come l’acciaio sotto il maglio, l’invenzione fu un aspetto della prodezza.

Il popolo fu l’operaio eroico.

Non avevamo le materie brute, non miniere da forzare, non biade da accrescere, non alimenti da distribuire, non navi bastevoli al traffico; e dovemmo tutto comperare a caro prezzo dallo straniero. Sopperimmo alla penuria con un regime così duro che ci anche il primato nel patimento e nella pazienza. Ardemmo i tre quarti della nostra ricchezza. Potemmo vivere e combattere in terra e in mare, non consumando se non un terzo del carbone necessario ai bisogni. Per le nostre industrie, per le nostre navi, per le nostre locomotive non bruciammo più della quantità di carbone che serviva agli Alleati per riscaldare le case. Le nostre erano fredde. Ogni attività non utile alla guerra fu soppressa, ogni comodità abolita. Una lunga disciplina silenziosa, una abnegazione oscura, una virtù inesauribile nell’esaurimento di tutto.

Il popolo fu il paziente eroico.

Così, per mille giorni, sopra alle fiacchezze, ai dissensi, alle frodi, ai tradimenti, a tutti gli errori e a tutte le miserie, creammo ogni giorno il nostro coraggio la nostra arme il nostro utensile la nostra perizia il nostro credito il nostro numero, come il profeta inventa il futuro sotto l’inspirazione del suo dio.

Il popolo ritrovò le migliori impronte della razza per ristamparsi in quelle. Poi respirò i quattro vènti del mondo. E tutte le novità lo trovarono pronto e spedito come se fossero nate dal suo stesso genio.

Così, con la nostra volontà novissima e con le nostre armi improvvise, decidemmo le sorti della grande guerra non tre volte ma cinque.

La prima volta quando rifiutammo di aggredire la Francia già invasa e le demmo il modo di compiere il suo miracolo della Marna.

La seconda quando entrammo nel gran gioco mentre i Russi da Leopoli a Riga piegavano all’urto austro-tedesco che dal nostro accorrere fu menomato, deviato e interrotto.

La terza quando il tradimento e il dissolvimento della Russia ci lasciarono soli contro l’Austria intera; e non ci disanimammo, e ancóra avanzammo, e poi fummo di sùbito percossi da un destino che non era davanti a noi ma dietro di noi, e soli ci ritrovammo al Piave, e soli tenemmo quel «confine tremendo», e soli ci dissetammo tutti di quell’acqua sapendo che non ce ne poteva essere altra per noi in tutta la terra, e soli nella nostra anima demmo il nome di Caporetto alla nostra «dodicesima vittoria», da scolpire sul frontone dell’Arco, la più severa dopo le più severe di Roma.

E la quarta volta fu nel combattimento e nella mietitura del Solstizio, nella vittoria solare di giugno, quando la falce diede ai feriti la paglia fresca e la baionetta protesse il pane nuovo.

E la quinta fu l’estrema: fu la vittoria massima, fu la vittoria classica: la forza del cuneo romano che spezza l’avversario in due tronchi convulsi.

Erano cinquanta e una divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca e un reggimento americano, contro settantatre divisioni austrungariche.

Queste cifre sono omai incise nel marmo e nel bronzo, per tutta l’Italia, e ogni comune italiano oggi inghirlanda di lauro e di quercia la lapide.

Gli Alleati tentarono e tentano e tenteranno di cancellarle. Mandate stasera a Versaglia méssi che rechino ai Triumviri tre tavole di bronzo perenne, per buona memoria. E meglio sarebbe sbatterle su le dure cervici che consegnarle nelle mani sleali.

Noi rileggiamo il principio e la fine dell’annunzio, come l’entrata e la chiusa di un’ode.

Tutti in piedi!

«La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di S. M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e con tenace valore condusse ininterrotta e asprissima per 41 mesi, è vinta.

«I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.»

Tutti in piedi!

E viva l’Italia!

Viva l’Esercito d’Italia!

Viva il Re!

Ecco la verità.

Per gli Alleati eravamo, ieri, i necessarii salvatori della Buona Causa. Per gli Alleati oggi non siamo se non piccola gente importuna da elemosine, bòtoli da tozzi e da ossi.

Sola la loro vittoria vige e mangia: non leonessa vorace, ché a tutto ciò che è leonino si congiunge qualcosa di nobile; ma gozzo gargantuesco, mascella pantagruelica, sacco senza fondo, alla bisogna nel paese di quel buon Rabelais che nel nostro vecchio albergo dell’Orso gustava le insalate romane condite con l’olio di Tivoli.

Per un momento, secondo l’alchìmia dell’Associato, non vi furono più né vincitorivinti. La pace doveva essere senza vittoria; la vittoria doveva essere senza frutto. Tutti i valori reali dovevano trasmutarsi in essenze ideali.

Poco dopo, per un’altra operazione occulta della medesima alchìmia, non vi furono se non tre vincitori; e tutti gli altri furono collocati nel novero dei vinti. Tutto il sangue fu convertito in oro battuto in tre conii. Anche il nostro.

L’Italia del Piave e del Grappa, l’Italia della Riscossa e della Resistenza, la grande Italia di Vittorio Veneto, fu trattata come vinta e giudicabile.

Ho già avuto occasione di ricordare ai miei amici francesi quella famosa polvere che manipolava nella Francia regia un uomo escito dalla mia vecchia razza d’Abruzzi: l’uomo scelto singolarmente dalla sorte a firmare il trattato che appunto dava l’Alsazia alla Francia.

«Il Mazarino si vantava di aver disciolto con un pizzico di polvere d’alchìmia quel nuvolo di pretensioni» narra Paolo Gondi cardinale di Retz.

Le nostre pretese non sono se non i diritti d’un milione di morti e d’invalidi, i diritti di un milione di feriti e d’infermi, i diritti di due milioni di Italiani puri sacrificati, senza mescolanzecolori; i diritti del patimento e della pertinacia, della povertà e della gloria, del sudore e del sangue, e anche delle lacrime: ben poca cosa, certo, men che un nuvolo inopportuno, da distruggere con quel pizzico.

Come hanno vinto la guerra questi vincitori? Su la sola fronte francese, contro una sola nazione di sessantasette milioni d’uomini, aggravando tutte le forze della Francia, dell’Impero Britannico e degli Stati Uniti, oltre le milizie ausiliarie italiane portoghesi polacche e le leve delle colonie di ogni tinta e di ogni culto.

Come abbiamo noi vinto la guerra? Soli, sempre soli, d’anno in anno, con una fedeltà che diveniva più generosa a misura che gli Alleati ci riducevano o ci sopprimevano gli aiuti promessi. Rimanemmo soli a far lo sforzo contro un impero militare di cinquantadue milioni d’uomini affrancato dal cómpito di fronteggiare il nemico a oriente. E, se avemmo con noi tre divisioni inglesi, due francesi, una cecoslovacca e il reggimento americano, noi mandammo un grosso corpo d’armata in Francia, cinque divisioni in Albania, due in Macedonia, altre truppe in Siria, in Siberia, in Murmania. Combattemmo contro il Tedesco, contro il Turco, contro il Bulgaro. Stroncata l’Austria, rivolgemmo la minaccia contro la Baviera e affrettammo così la resa della Germania.

Quale nazione è dunque più puramente e pienamente vittoriosa dell’Italia?

Invece, no: non siamo i vincitori, siamo i vinti. Siamo più vinti che i Prussiani. Il conte di Brockdorff parla fermo e seduto, con il troncone di una lancia d’ulano per osso del dosso. La nostra ambasceria balbetta inchinata e obliqua, non a faccia a faccia, non cogli occhi negli occhi, non coi pugni chiusi come quelli degli Arditi che sfondarono Ca’ dei Briganti al Grappa.

Vinto è chi assume l’aspetto del vinto. Si può spogliare il vinto, e noi siamo minacciati di spoliazione. Si può affamare il vinto, e noi siamo minacciati di fame. Si può bloccare il vinto, e noi siamo minacciati di blocco.

Intanto a San Germano vien coronato col lauro petrarchesco di Pierre de Ronsard l’allegro viennese Lammasch che già ci pronostica e ci minaccia la rivincita nell’Alto Adige. Intanto a San Germano è inghirlandato con le novelle rose della Pleiade italianeggiante il gentil boia Schumacher, presidente del Tribunale che impiccò Cesare Battisti.

Italiani, ricordiamocene.

Ecco la verità.

I Triumviri sono collegati insieme con buone saldature d’oro, non soltanto per lo schiacciamento della Germania ma per l’annientamento della vittoria nostra. Gli Alleati e l’Associato vogliono vietarci ogni grandezza, serrarci ogni via di sviluppo e di espansione, limitare la nostra libertà politica, ricostituire sul nostro fianco orientale un’Austria più torbida e più pericolosa di quella da noi abbattuta, imporci una servitù più dura di quella che patimmo dall’altra Triplice, escluderci dalla gara europea e mondiale, metterci fuori dell’Adriatico, fuori del Mediterraneo levantino, fuori dell’Asia Minore, fuori dell’Africa.

Italiani, ricordiamocene.

Le carte dei patti solenni, per noi impresse dal sigillo rosso del miglior sangue, sono lacerate con un piglio che scimmiotta il grifo del vecchio Cancelliere prussiano. Contro il Patto di Londra il Presidente del Congresso sceneggia una commedia nella quale il Transatlantico recita per comodo la parte di protagonista; e la sua lesta abilità scenica ci richiama i tempi in cui, come autor comico dilettante, egli fu cliente di qualcuno che in Regina Coeli attende l’ora di riprendere il commercio delle farse remunerative. Con meno precauzione il trattato di Moriana è dato per stoppaccio ai vecchi schioppi delle bande greche in fustanella non immemori della via di Berlino e del rancio alemanno. E già i vecchi moschetti smirnioti lo ricacciano bruciacchiato in gola ai saccheggiatori di bazar che, avendo praticato in Asia e altrove tutti i mestieri ignobili, oggi hanno per mestiere illustre la restaurazione dell’Impero di Bisanzio.

Italiani, ricordiamocene.

Oggi la Turchia asiatica scarsamente produce e quel che produce non ha modo di trasportarlo. Ma essa cova da secoli la sua fecondità primiera, divenuta più profonda. La cultura vi troverà la più ricca delle terre promesse. Il ferro, il rame, il piombo, il zinco, l’antimonio, il cromo, il borace, il mercurio, abondano sotto il suolo. Abonda il carbone nei bacini di Eraclea e di Amastra, nei monti di Erzerum, nella valle del Tigri. E nelle alture e nelle bassure del Tigri si trovano il petrolio, la nafta, il bitume, il salgemma. Per ciò noi ne siamo esclusi con la beffa della scarna Adalia, mentre l’annessione larvata della Saar e la bene accorta assegnazione delle altre terre minerarie agli Stati favoriti pongono in una sola mano il monopolio europeo delle materie prime.

Italiani, ricordiamocene.

Noi gridammo sopra Vienna, io stesso gridai dall’alto di un’ala sopra Vienna attonita: «L’Austria è una decrepita menzogna che crolla. È giusto che crolli: è giusto davanti a Dio, davanti agli uomini e davanti alla storia degli uomini. È giusto ed è inevitabile che si disfaccia e spariscaSospendemmo la sentenza, eseguimmo la sentenza. Combattemmo come combattono i ribelli, con un viso di fiamma. Sentivamo nell’anima il malore della lunga servitù come la salma di Luigi Pastro quasi centenaria serbava tuttavia intorno ai fùsoli delle gambe i solchi impressi delle catene. L’ombra di Belfiore e l’ombra dello Spielberg si stendevano talvolta su le nostre trincee fangose. Oberdan sorgeva dalle macerie di Ronchi, e tutto l’Isonzo ci risonava del suo grido. Filzi e Battisti balzavano sempre innanzi alle ondate dei nostri battaglioni. Nazario Sauro d’acque in acque seguiva i siluri di Trieste, di Cortellazzo, di Durazzo, di Buccari, di Pola e di Premuda.

Finalmente la lugubre carceriera, la lugubre impiccatrice era morta. Essendo già marcia, non poteva marcire. Non c’era da attendere la putrefazione essendo già putrefatta.

Iam fœtet. Non fu infatti attesa. Ci fu sùbito chi chiamò fuori il cadavere, chi risollevò il cadavere, chi gettò al cadavere la voce profana della risurrezione!

Italiani, ricordiamocene.

Tra quali Alleati, sotto la specie cauta dei mandati coloniali, furono partite le terre e le imprese tedesche d’oltremare? Tra Francia Inghilterra e Giappone.

Italiani, ricordiamocene.

Tra quali Alleati fu statuita sopra un fantasma di Lega delle Nazioni un’alleanza intesa a sopraffare l’Italia con tutta la prepotenza delle forze economiche e militari riunite contro il suo impoverimento e il suo isolamento? Tra Inghilterra, Francia e America.

Italiani, ricordiamocene.

La carta di essa Lega fu stipulata in nostra assenza, fuor dei principii che pur servono contro di noi, fuor d’ogni nostro bisogno e interesse. Se non c’è la bolla di Roma, c’è la bolla di Ginevra ch’ebbe il suo papa in Calvino. E, per sollazzo, possiamo ricordare esser nato appunto a Ginevra quel Giangiacomo Rousseau il quale, a proposito d’un altro disegno ciurmatorio di pace perpetua, scrisse che gli pareva almeno «inutile per produrla e per conservarla superfluo: inutile pour la produire et superflu pour la conserver». Ma anche la carta del Lavoro fu stesa in onta ai diritti dei nostri operai e dei nostri emigranti. Ma la confisca degli Alleati s’è perfino impadronita del nostro naviglio triestino, s’è impossessata del naviglio appartenente ai porti italiani di Fiume e della Dalmazia, considerandolo come bottino di guerra da ripartirsi fra tutti, cioè come proprietà del nemico.

Italiani, ricordiamocene.

E ora basta con la «feccia versagliese» come la chiamava Giuseppe Garibaldi nel luglio del 1870.

Lasciamo da parte tutto il resto. Non ci curiamo del minimo, imitando il pretore romano, se bene anche nel minimo si riveli ogni giorno lo spirito ostile.

Adottiamo la vecchia opinione di Alfonso d’Este ch’era un duro Italiano e fabbricava ogni giorno «un bonissimo acciaio».

È vero che la vecchia storia e la vecchia gloria oggi non ci aiutano; ma i nostri bei motti sono sempre vivi e serbano sempre aguzza la punta.

State a sentire.

Quel gran gittatore di «artiglierie grandissime», trovandosi a una battaglia nel Ravennate, su l’Acquadussa, dopo aver mostrato ai suoi bombardieri quel che voleva fare dell’artiglieria, prese una lunga volta verso il mare e la indirizzò tutta alle spalle e ai fianchi dei nemici. La fece però sparare così spesso e con tanta furia che batteva non solo i nemici ma anche gli amici, imbrogliati in una falsa manovra. Del che fu avvertito affinché non lasciasse più tirare e non mandasse per terra anche i suoi Alleati stranieri. Con una scrollata di spalle, e con libertà italiana, come scrisse il Giovio, rispose il duca di Ferrara gridando: «Traete pur dovunque voi volete e senza sospetto alcuno, bombardieri miei, che voi non potete errare, perché son tutti nimici

Ebbene, Italiani, noi avremo salute dai nemici nostri, fabbricando come quell’Italiano ogni giorno «un bonissimo acciaio».

L’acciaio della volontà, l’acciaio della disciplina, l’acciaio del proposito, il migliore di tutti.

Come nel principio abbiamo nettamente separato la virtù del nostro popolo dall’inettitudine dei nostri Capi, separiamo intanto i popoli stranieri dai governi stranieri.

Nella decrepita Tigre celtica non è tutta la Francia, non è certo la Francia giovine ed eterna, quella che amammo, quella da cui vorremmo essere amati. Né la sana Inghilterra è nel Gallese gioviale che getta in acqua giovialmente quanti non più gli servono, anche i suoi compari giornalai.

Ne attendiamo, ne attenderemo la prova e la conferma. E forse le più belle aurore latine non sono ancor nate.

Ma oggi noi dobbiamo essere e dobbiamo sentirci e dobbiamo scolpirci tre volte italiani. Fummo due volte italiani dopo Caporetto. Siamo tre volte, davanti a questa ingratitudine e a questa ingiustizia inaudite se non inattese.

Con spirito italiano facemmo la guerra. Con spirito italiano sapremo volgere il male in bene.

«Perché facciamo la guerrachiesi una sera a un mucchio di reclute del ’99, dietro un argine del Fiume maschio. «Per riacquistare un serto di alpi, la falce di un golfo, un grappolo di terra appeso al mare, un orlo gemmato di spiaggia latina? Sì, certo, anche per questo. Ma la grande causa non è la causa del suolo, è la causa dell’anima, è la causa dell’immortalità

Siamo tutti in piedi oggi e serrati, e col cuore saldo e con la vista chiara, a difendere la causa dell’anima, a lottare per la causa dell’immortalità.

Come allora, come in quell’autunnale sera veneta, il gioco estremo è fra noi e il destino, fra noi e la vita futura.

E anche in quest’altra lotta nessuno veramente ci aiuta, fuorché la nostra volontà unanime. Come noi soli abbiamo dato a noi la nostra vittoria, così noi soli daremo a noi il frutto della nostra vittoria. Sappiamo quale, noi soli.

E, come nessuno ci aiuta, nessuno ci comprende. Aggiungeremo orgoglio a orgoglio.

Questa è una parola del Piave.

Il pregio del sacrifizio è sempre in misura della forza che l’uomo ne riceve.

Anche questa è una parola del Piave, una parola del Grappa. Ma, perché la forza del nostro sacrifizio non sia in noi oppressa, è necessario distruggere tutte le menzogne che tuttavia ci ingombrano.

«Basta!» fu il comando del popolo italiano nel primo maggio della guerra giusta.

«Basta!» è il comando del popolo italiano in questo quarto anniversario severo e fiero.

Il 25 aprile voi accoglieste tra acclamazioni trionfali chi aveva abbandonato con animo di vinto la tavola delle sorti dov’era rimasto seduto fin dal primo giorno con animo di vinto. Quest’animo, mal dissimulato dalla volubile eloquenza, persistette anche quando la volontà nazionale si alzò imperiosa e sembrò sanare l’altrui debolezza.

Qui, da questa tribuna, fu detto tra il consenso unanime: «Se i delegati tornassero a quel banco, tutto sarebbe perduto, anche l’onore

Qui aggiungiamo: «Il loro onore, non l’onore d’Italia. L’Italia vera è altrove.»

La volontà nazionale aveva parlato, aveva comandato. Il Capo del Governo la tradì con una fuga notturna. Il cinque maggio, data due volte a noi solenne, data di due dipartite fatali, egli partì di nascosto, fuggì in un movimento di terrore. Senza ripugnanza andò verso il gelido sogghigno nemico! Questo leguleio molle – com’egli stesso chiama sé stesso – è dunque ebro di tortura e di mortificazione?

Lasciamolo ai suoi lacrimosi negoziati, lasciamolo alla sua triste fatica di schiena. Lasciamogli recitare anche nell’ultimo atto della commedia la sua parte servile, sino in fondo.

Poi basta. La nostra vita publica non può più essere un continuo esercizio d’indulgenza plenaria. Fin dal cinque maggio i delegati non sono se non accusati davanti alla coscienza nazionale.

Quando torneranno, toglieremo alla bandiera la gramaglia che le ponemmo su la loggia capitolina. La toglieremo non per segno di festa, non perché la nostra Fiume ci sia data, non perché ci sia data la Dalmazia nostra, non perché sia a noi liberato tutto l’Adriatico; ma perché in quel giorno l’Italia giovine avrà finalmente l’impeto di liberarsi dalla menzogna, dalla servilità e dalla viltà omai troppo consuete e annose, per chiamare alla riscossa i suoi uomini nuovi.

Qui, da questa tribuna fu detto: «La nostra salute è soltanto nel nostro ardire, Italiani

Fu detto per l’impresa esterna. È qui ridetto per l’impresa interna.

Se il popolo italiano avesse l’ardire di trapassare, senza esitazioni e senza conciliazioni, da un regime rappresentativo bugiardo a una forma di rappresentanza sincera che rivelasse e inalzasse i produttori sinceri della ricchezza nazionale e i creatori sinceri della potenza nazionale contro i parassiti e gli inetti dell’odiosa casta politica non emendabile, le sette e sette vittorie dell’Alpe, del Carso e del Piano impallidirebbero davanti a questa meravigliosa vittoria civile.

Ma non abbiamo noi fatto la guerra per giungere a questa? La nostra guerra non l’abbiamo noi guerreggiata per giungere a un rinnovamento vittoriale? Non intendevano che fosse questa la causa dell’anima le reclute del ’99 e del ’900, «gli ultimogeniti della madre sanguinosa»?

La rivincita non è sognata e non è premeditata se non dai vinti. Ma, se tanto il popolo italiano volesse e potesse, per una volta i vincitori veri avrebbero la rivincita vera.

L’Italia deve dare alla vita del mondo quest’altro miracolo.

Come nel bandire la guerra il popolo precorse lo Stato, così nel conseguire la sua purificazione la sua rivelazione e la sua comprensione deve avanzare lo Stato.

Senza indugi.

Sopporterete ancóra d’essere condotti dai superstiti di Adua e dai complici di Caporetto?

Lascerete l’attività politica nelle mani di coloro che anche oggi non si tendono se non per mendicare, eredi dei tempi vili, quando l’abito della servitù e della paura era diventato negli uomini di governo una seconda pelle?

Continuerete a permettere la dipendenza del potere politico dall’alta banca meticcia al servizio dello straniero, come quando l’uomo che qui non si nomina riduceva la nostra vita publica a un commercio furtivo tra le sue clientele ignobili e la degenerazione parlamentare?

Ebbene, cittadini, il pericolo è sopra. State in guardia. Tra i non desiderabili candidati alla presidenza del Consiglio italiano è un altro uomo che qui non si nomina, congiunto al primo non soltanto dalla rima innocente. E costui, che di dall’Atlantico fu già covato dall’alta banca al servizio di quel recentissimo «civis romanus» a voi noto e non più caro, ora si fa covare da una banca paesana che sostituisce non senza compiacenza la prima covatrice.

Se perfettamente i due nomi rimano fra loro, non possono essi avere nessuna assonanza con l’Italia bella, con l’Italia dei morti immortali. Lo sapete. Ricordatevene. E state sempre in guardia. E rompete il nuovo agguato, sventate la nuova congiura, con un castigo diritto come il getto del lanciafiamme maneggiato dall’Ardito.

Altrimenti il vostro divino Enrico Toti vi riapparirà, con la sua gamba tronca e con la sua ferita aperta; e senza motto riscaglierà la sua gruccia contro voi.

Italiani, oggi, dopo tanta guerra, dopo tanta vittoria, dopo tanta iniquità, il fuoco e il ferro ritornano a noi sotto altra specie ma egualmente acerrimi.

Il fuoco è l’inestinguibile amore d’Italia, il ferro è il duro dovere nazionale.

Il nostro Primo Soldato, che sul campo di battaglia non temette mai né l’uno né l’altro, ci sia mallevadore della sincerità necessaria ai nuovi ministri del culto operoso.

Egli disse pur ieri: «Sono agli ordini del mio popolo. Dov’esso è io sono e quel che vuole io voglio.»

Onore a lui!

E fede intemerata in lui!

Così, non altrimenti, i vincitori veri avranno la rivincita vera. Lo spirito di vita è con noi. Lo splendore del sangue è su noi.

Dove si commemora il sacrifizio, ivi è la basilica ideale.

Questa è la nostra basilica di un’ora fraterna. E qui celebriamo il rito del buon sangue italiano.

Trabocca dalla tazza senz’orlo. Si versa dalla coppa senza labbro.

Una parola ripete, come nel Cenacolo chiuso: «Bevetene tutti.»

Ripete ancóra, ed esclama: «Bevetene tutti.»

Per la terza volta ripete e grida: «Bevetene tutti.»

È il sangue che colorò l’Isonzo fino alla Sdobba.

È il sangue del San Michele dai quattro gioghi.

È il sangue del Dèbeli.

È il sangue del Veliki.

È il sangue del Faiti.

È il sangue di tutti i calvarii roventi, di tutte le valli inferne.

È il sangue di tutte le nostre vittorie sitibonde.

È il sangue che rifecondò il solco di Trieste abbandonato, la via sterile.

È il sangue che fu lavato nel Timavo fiume lustrale.

È il sangue che fu deterso nel Piave fiume lustrale.

È il sangue che sfolgorò sul Grappa, che sfolgora per sempre su quel Grappa in cui videro la Patria e s’affisarono cantando i fanciulli schiavi di Fonzaso.

Ecco che i ventiquattromila uccisi del Grappa sorgono, e sollevano il monte, e trasportano il monte eterno nel mezzo della città eterna.

Oggi non vogliamo avere altro altare che quello. Vanisce l’altare di pietra scialba con le sue statue d’oro. Non vogliamo avere altro altare che quel masso di forza e di coraggio, quel diamante indomito di volontà e di fede.

Le oche ci vietano oggi il Campidoglio, cosicché il Campidoglio sembri un’altra volta salvato dalle oche.

Ma tutte le mani del popolo, levate come la mia, giurano per quest’altra rupe.

Ora e sempre, o Italia, di te sola, per te sola, in te sola!



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