Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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La Pentecoste d’Italia

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La Pentecoste d’Italia

[viii giugno mcmxix]

E, come il giorno della Pentecoste fu giunto,

tutti erano insieme di pari consentimento.

atti, 2

Se questa è la domenica di Pentecoste, se questo è il giorno dello Spirito e della Fiamma, questo è veramente il giorno di Fiume, questa è la solennità di Fiume, che tutti gli Italiani di qualunque credenza devono celebrare nella chiesa o fuori della chiesa, con un sacrifizio d’amore o con un atto di fervore, radunati o in disparte; perché la religione della Patria non ebbe mai un comandamento così alto.

Bisogna osservarlo.

Se nell’Alpe, se nel Carso, se nel Piano veneto, accanto ai cimiteri dei soldati c’è qualche cappella costruita dai superstiti con le pietre della trincea e c’è nel suo palco di legname una di quelle campane rozze che il Vescovo castrense battezzava come le martinelle dei carrocci, il battaglio oggi suona da sé, suona a stormo per Fiume che arde.

Se negli ospedali, se negli asili ci sono feriti che ancóra portano le fasce, infermi che non guariscono ancóra, mutilati che non sono ancóra assuefatti alle loro membra meccaniche, ciechi che ancóra cercano nel loro buio il nuovo senso, essi oggi soffrono per Fiume che soffre, ardono per Fiume che arde.

«Soffiò loro nel viso, e disse loro: Ricevete lo Spirito.» Questa è la parola del vangelo di Giovanni.

Fiume oggi soffia nel viso di tutti noi Italiani, ci avvampa il viso col suo soffio, e ci dice: Ricevete lo Spirito, ricevete la Fiamma.

Quando eravamo sul Piave, quando stampavamo di noi la riva disperata, qualcuno domandò: «Vi sono in Italia altre correnti? vi sono forse altre acque in tutta la Patria nostra? v’è oggi una sete d’anima italiana che si possa estinguere altrove?»

Qualcuno deve pur ricordarsene, se Dio ci aiuti.

Così Fiume appare oggi la sola città vivente, la sola città ardente, la sola città d’anima, tutta soffio e fuoco, tutta dolore e furore, tutta purificazione e consunzione: un olocausto, il più bello olocausto che si sia mai offerto da secoli sopra un’ara insensibile.

Anzi il nome giusto della città non è Fiume ma Olocausta: perfettamente consumata dal fuoco tutta.

Chi se la può imaginare oggi mattone e pietra, mucchio di case e di fondachi sopra un golfo, luogo di approdo e di traffico? Chi può cianciare d’un porto franco? d’una strada ferrata di San Pietro? d’un distretto liburnico? d’un capitanato di Volosca?

C’è da una parte un famoso sepolcro farisaico, imbiancato di fuori; e dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte un famoso banco di usure ricoperto con un finto lenzuolo di Arimatea; e dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte un nostro miserabile truffiere che in cambio di buffetti e guanciate saliva e lacrime; dall’altra c’è uno Spirito.

C’è da una parte una gente inclinata a rinunziare, a dimenticare, a condonare, ad acconciarsi, a rassegnarsi; dall’altra c’è uno Spirito.

Non ci fu mai, davanti alla coscienza umana, uno spettacolo più doloroso e più glorioso, né più solitario.

La grande guerra aveva sprigionato dall’uomo tutte le essenze sublimi; aveva abolito i limiti noti del coraggio e del patimento; sopra tutte le atrocità dell’odio aveva dato al viso dell’amore una illuminazione non mai veduta. Veramente la bellezza eroica precipitava e traboccava sul mondo come un torrente di maggio. Ci sembrava di non aver petti abbastanza capaci per raccoglierla e contenerla.

L’armistizio male imposto c’incolse a un tratto come una pestilenza senza scampo. All’improvviso tutto si pervertì, s’infermò, si corruppe. Il crepuscolo degli eroi fu rapido come una nebbia in palude. Il sangue non ebbe più splendore, né peso. Nessuno parve si ricordasse che c’era chi aveva dato il sangue, chi aveva dato il pianto per giustificare la speranza dell’uomo. L’uomo si sentì un’altra volta disperato. La terra ridivenne la vecchia tavola aleatoria dove i potenti e i mercanti giocarono le spoglie sanguinose. La tunica senza cuciture «tessuta tutta d’un pezzo di cima in fondo», che gli antichi crocifissori avevano lasciata intiera, i novissimi non si peritarono di stracciarla.

A chi appartenesse quella tunica inconsùtile gli Italiani sanno. Ma anche sanno gli Italiani che, nell’oscuramento di tutte le forze ideali, v’è un luogo solo del mondo ove rimane accesa la bellezza eroica, ed è un luogo d’Italia?

È la città olocausta, la città del sacrifizio totale, la rocca del consumato amore: quella che riempie di fuoco le occhiaie bianche di tutti i nostri morti marini radunati nel Carnaro a mirarla e a bearsi.

Luminosa m’era apparita nella notte di febbraio, per tutta la costiera da Volosca a Zùrcovo, coronata di luci «come per una festa votiva»; e già il suo aspetto notturno era spiritale a chi avesse scosso da sé il corpo misero e il pensiero del ritorno. Già non era disegnata tra l’aria e l’acqua se non dal suo splendore, già non viveva se non del suo ardore, già non era se non una fedeltà incorrotta.

O Costanzo Ciano, grande compagno, che hai ricordato e dimostrato a tutti i marinai del mondo come basti il cuore a operare grandi cose con uno scafo di minimo stazzo, rivendicatore dell’uomo solo contro l’enormità tonante, oggi rivedo la tua maschia faccia illuminata dal riflesso di Fiume e il tuo gesto di passione strappato dalla tua bontà alla tua rudezza.

Qual saluto di amante all’amata può eguagliar quello? Era il saluto del morituro, era il bacio lontano del perdimento. Se a poppa c’era l’amore, a prua c’era la morte. La distanza era distrutta. Le luci lunghe nella scìa erano vive come lunghe chiome che di sottomare ci attirassero e c’intricassero.

Allora Luigi Rizzo disse, con una doratura di Sicilia nella voce bassa e calda: «Verremo, verremo anche a te, bedda. Non dubitare

Eravamo tre compagni e una devozione, tre compagni e una promessa. Quello poteva essere l’ultimo saluto, l’ultimo sguardo. Stavamo per penetrare nella stretta, per forzare la gola nella baia nemica coi tre brulotti disperati. Potevamo non più rivedere la corona di luce, laggiù. Eppure la rivedemmo, esciti dall’insidia incolumi.

Se Fiume notturna era un’anima, noi le aggiungemmo la nostra anima. Né potemmo mai distoglierci da quell’incanto, pur nelle vicende della nostra guerra senza tregua. Fummo sempre divorati dal desiderio di tornare nel golfo, di rifare la rotta, di rientrare nella fauce, di mantenere la promessa. Aspettavamo le notti scure, le notti lunghe. Costanzo preparava un colpo di mano più audace che quello di Buccari. Da un certo guizzo di riso nel bianco de’ suoi occhi tremendi, indovinavo com’egli fosse riposseduto dal dèmone dello stratagemma.

Un giorno dal Lido mandai Antonio Locatelli a compiere una esplorazione aerea del canale di Farasina e del porto lontano. Non c’era posto per me nell’apparecchio, né per la mia fortuna. Egli doveva partir solo. La costrizione abituale non valeva a dominare il mio palpito. Rivedo il mio campo di sabbia soda e d’erba arsiccia, la larga pista di cemento abbagliante, l’ombra rigida delle tettoie camuffate; e la macchina sottile, le ali brevi, la porpora e l’oro dell’insegna di San Marco su i fianchi inflessi della fusoliera; e quel viso di giovine tiranno lombardo del Quattrocento, costrutto alla maniera di Jacopo de’ Barbari, chiuso nel coppo di cuoio bruno; e quel giovine torso, d’un vigore incomparabile temprato in mille ascensioni alpine, stretto nella casacca di pelle nera e nelle cinghie dell’imbraca che dalla vita gli riescivano alle spalle come i vincoli d’Icaro atti a legare il fato dell’uomo duro alla sorte dell’ala fragile.

Partì verso il Carnaro, verso il Golfo, verso Fiume; e non ritornò. Non cessai di udire in me il suo rombo.

Colpito nel cielo fiumano, precipitò in fiamme. Vide nella caduta la città avvicinarsi e tendersi a lui come per riceverlo, come per abbracciarlo, come per prenderlo e avvolgerlo nelle bende delle sue chiare vie. Udiva nel ritmo della rapidità la parola del suo cuore: «Ti amo, ti amo, ti amoToccò terra in vicinanza d’uno sterpeto. Fu salvato da quella parola invincibile.

Attivò l’incendio dell’apparecchio. Poi si nascose negli sterpi, lasciando gocciolare il sangue del ginocchio ferito. La gente accorse intorno all’ala ridotta in carbone e cenere. Nascosto, egli ascoltava le donne del popolo esprimere il compianto in una lingua melodiosa come quella di Rialto. Una gridò di dolore, perché s’era bruciate le mani tentando di sottrarre un rottame ancóra ardente.

Era un’ala d’Italia, un’ala eroica, quella di Vienna, quella della sentenza ineluttabile. Di pura divinazione tremavano i cuori semplici.

Che cosa non darebbe oggi Antonio Locatelli, esiliato di dall’Oceano e angosciato da tutti i dubbii, che cosa non darebbe per andare a ritrovare le gocciole del suo sangue e le ceneri delle sue ali e il suono di quella pietà, tra gli sterpi di Fiume rinverditi?

Non tornò. Ma la nostra impresa navale fu stabilita per la notte del 3 novembre, per la notte della luna nuova. Con grazia fraterna, Costanzo Ciano aveva scelta quella data sapendo che si rappresentava a Milano appunto La Nave di musica e di parole. Egli voleva condurmi verso una ben altra orchestra e una ben altra ribalta.

L’imminenza dell’armistizio nefasto troncò l’azione. Come nel giorno di Buccari, i gusci erano pronti con le loro mitragliatrici nere e coi loro siluri d’oro fulvo, lungo la riva della Giudecca. Ci fu impedito di partire. Il Capo dell’Italia vittoriosa, sùbito a Parigi convertito in servo umilissimo di tre padroni, fu anche una volta l’inibitore dell’eroismo. Rimanemmo storditi e avviliti, come sotto il colpo di un tradimento insospettato. Il rammarico ci travagliava il cuore con l’acredine del rimorso. Ogni impeto spezzato, ogni sforzo interrotto genera una tristezza irosa. Il gran marinaio si mordeva i pugni, come il fante arrestato dallo scocco dell’ora, di dal Tagliamento.

In breve, come la sua forza fu delusa, il suo naviglio fu disperso. Anch’egli, l’eroe di Cortellazzo, ha dovuto concludere la sua gloria di combattente rassegnando il comando e ritraendosi in disparte per preservare la sua dignità e la sua libertà. Ma oggi, nella Pentecoste d’Italia, su quale fronte più nobile può posarsi il segno di fiamma?

Costanzo Ciano, Luigi Rizzo, e tutti i dispersi dei Trenta, e tu con noi, Antonio Locatelli che ardesti e sanguinasti nel cielo sublime, salutiamo oggi la città olocausta come se fossimo tuttora dritti su le nostre prue e avessimo il fondo del Carnaro per promessa di requie.

Non c’è menzogna, non c’è astuzia, non c’è viltà, non servilità che resista alla potenza di questo Spirito. Esso ci impedirà di servire, ci impedirà di fallire, ci impedirà di perire. Ci aiuterà a ritrovare il suolo e l’istinto, la volontà di rivolta e la volontà di rinnovazione. Ci condurrà a ben collocare nel solco il vomere che scinde e sovverte. Ci insegnerà a bene adoprare le nostre armi novissime contro le vecchie armi di cui non sanno più neppur servirsi gli oppressori. Ci insegnerà a foggiare fieramente i modi di questa nostra vita che oggi in abbondanza trabocca dal cerchio delle istituzioni sterili e delle leggi esauste. Ci insegnerà a rovesciare tutte le strutture che c’ingombrano – quelle nate dall’utilità ingiusta come quelle nate dall’idea vana –, e a conciare le pietre e a squadrare le travi che affideremo alla generazione sorta dal sacrifizio di sangue e di sudore perché le aduni e le congegni in monumento statuale, in opera civica.

Se beato è quel discepolo che avanza il maestro, più beata è quella figlia che avanza la madre. Ora Fiume è l’esempio d’Italia: è l’onore della nostra coscienza, l’onore della grande coscienza latina che sola nei secoli formò e oggi forma i veri uomini liberi.

Ha un’anima di servo chi senza fremito può oggi pronunziare il nome del più nobile Comune che illustri il mondo.

Riconoscere un qualunque giogo, prima di aver combattuto con le unghie e coi denti per scuoterlo o spezzarlo, è il segno certo della servitù.

L’appello al diritto è un diritto quando chi sorge, anche solo, anche male armato, ha la costanza eroica necessaria ad affermarlo, e a sostenerlo.

Questo c’insegna l’eroina fedele del Carnaro infido.

Il suo insegnamento corrisponde alla rozza sentenza che il fante graffì con la punta della baionetta nel muro della casa rovinata a Sant’Andrea di Piave.

Celebriamo oggi, nella gloria di Fiume e nella gloria di quel giovine leone d’Italia, la festa dello Spirito.


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