Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Il comando passa al popolo

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Il comando passa al popolo

[xxiii giugno mcmxix]

Or è un anno la battaglia del Solstizio sfolgorava in un mattino lavato e rinfrescato dall’acquazzone notturno. C’era nell’aria l’odore della Marca Gioiosa, la fragranza di quella felice campagna trivigiana dove i contadini e le massaie continuavano a lavorare sotto la folgore. C’era in ogni sorso d’aria il sapore dell’Italia giovine, un sapore di novità così forte che tutti i combattenti ne erano inebriati come da un filtro di gioventù. Nessuno aveva più di vent’anni. Anche i veterani avevano vent’anni. Tutta l’Italia aveva vent’anni per combattere, per vincere, per vivere, per morire.

Non per morire. Abbattuto nel grano o nel sabbione, con una palla nella testa o nello stomaco, il fante non credeva di morire: credeva di entrare in una vita più vasta e più altera. Il suo ultimo respiro era come il suo primo respiro.

Chi non ha respirato quella potenza e quella freschezza, in quei giorni tra i più divini della grazia italiana, non può sapere quel che sia oggi veramente l’Italia nuova. Era una vita che rinnovava trasmutava moltiplicava esaltava in ciascuno dei suoi attimi tutte le forze e le forme che fecero il passato dell’uomo, suscitava quelle che violentemente scórtano la storia e violentemente avvicinano il futuro all’uomo, cosicché per respirarla l’anima stessa doveva rompere e trascendere i suoi confini più distanti.

Tutta l’aria aveva una tempra eroica. La tempravano i nembi, la tempravano la grandine e il vento. Bagnati di piogge improvvise, il grano e la vigna sembravano carichi di rugiada fino a mezzogiorno, fino a vespro. I fanti accosciati succhiavano le spighe e i viticci. I carri colmi di truppe passavano su la linea del fiume inghirlandati di fronde e di fiori. I soldati cantavano. Le donne si levavano dal lavoro agitando le falci e cantavano, a tenzone. Le falci e le baionette, le roncole e i pugnali davano lo stesso guizzo. La battaglia ferveva come il lavoro. I contadini gridavano: «Non passano.» E mietevano. I soldati gridavano: «Non passano.» E combattevano.

E il Fiume maschio trascinava grappoli di cadaveri austriaci, da Nervesa al mare.

Così portasse via il Tevere tutte le infezioni della cloaca che oggi ci ammorba!

I combattenti che da Vidor a Salgareda, da Zenson a Fossalta, da Musile a Revèdoli bevvero con aperta gola il profumo del cuore d’Italia, oggi assistono alla fermentazione della disfatta con le narici turate. Penso a quei cavalieri dei nostri vecchi affreschi cimiteriali, fermi davanti ai cadaveri verminosi nelle bare senza coperchio.

Non giova oggi incrudelire su questi morti che parlano per aver ragione di quegli altri morti che non parlano più. Ma credo che giovi all’igiene popolare persistere nel gesto di turarsi il naso, ché le consultazioni regali e le negoziazioni ministeriali non sono se non un sommovimento di putredine; e il puzzo sembra che cresca di ora in ora. C’è un puzzo più tetro di quello delle cattive coscienze?

I combattenti avevano le maschere preservatrici. Ora non le abbiamo più. Ma quando ci risolveremo noi a deviare il disonorato Tevere per nettare alfine Roma da questo vile carnaio che non deve più ingombrarci e infettarci? Abbiamo lottato e penato perché in perpetuo l’Italia resti una terra di sorgenti infette e di cuori disperati?

Volgiamoci verso lassù, fra tramontana e levante, per sentire se non venga ai nostri polmoni un soffio di quell’altro solstizio. E chiamiamo a gran voce il nome di quel piccolo fante che con la punta della baionetta incise la sua sentenza nel muro superstite, a Sant’Andrea di Piave. «È meglio vivere un giorno da leone che cent’anni da pecora.» Forse egli avrà anche una volta la buona ispirazione e la darà a noi tutti; e onorerà del suo graffito eroico la facciata di quell’albergo a cui il Tritone volge per disprezzo la schiena muscolosa soffiando al sole di Roma il suo getto di acqua pura.

Io so quel ch’egli inciderebbe col suo ferro bene riaffilato. Ma non lo dico. Dico soltanto l’ultima parola.

Ed è quella che nell’Augusteo, quella che nel Campidoglio, quella che nella piazza delle Terme abbiamo tante volte ripetuta: la parola culminante del nostro disgusto e della nostra minaccia: «Basta

Perché il popolo non la grida oggi, con tutta la forza dei suoi innumerevoli polmoni, su la piazza del Quirinale, su la piazza di Montecitorio, e su ogni piazza d’Italia? Ma tenendo anche il pugno serrato e pronto.

È necessario che la nuova fede popolare prevalga, con ogni mezzo, contro la casta politica che con ogni mezzo tenta di prolungare forme di vita menomate e dispregiate. Lo spirito di rivolta, fin da quando nacque, ha il privilegio di rimaner sempre puro, sopra ogni mezzo, di da ogni mezzo.

Bisogna rompere e distruggere una buona volta il vecchio intrico degli interessi e dei pregiudizii che non si mantengono se non per appoggio reciproco. C’è, in tutte le cronache dell’ignominia politica, uno spettacolo più basso e più vano di questa «crisi» che si svolge e si conclude contro lo spirito di giustizia e contro lo spirito di vittoria?

Io chiedo, per la mia nausea, un sorso del più aspro vino popolare.

Il comando oggi passa al popolo vivente, a quello cui la Patria può dire la parola sacra: «Voi siete nettati, ma non tutti

L’ordine nuovo non può sorgere se non dal tumulto del fervore e dalla lotta, misurato dal battito di tutti i cuori fraterni. E dico, senza tema dello sciocco sorriso altrui, che sarà un ordine lirico, nel senso vigoroso e impetuoso della parola.

Ogni vita nuova d’una gente nobile è uno sforzo lirico. Ogni sentimento unanime e creatore è una potenza lirica. Per ciò buono ed è giusto che ne sia oggi interprete un poeta armato.

Or è un anno, innanzi che l’ardore e il tuono della battaglia cadessero, dall’anima di chi l’aveva così furentemente sostenuta fu scoperta un’armonia non prima da altri intesa.

Quell’armonia si deve compiere. Il mio ufficio è di mostrare e di rilevare la bellezza schietta e robusta della conquista ideale e reale ch’io ho presentita.

Ogni lotta non è se non uno sforzo verso l’espressione. Io debbo e voglio aiutare la nostra lotta a esprimersi intera.

Ecco un’imagine.

Or è alcuni giorni, in San Zanipolo, su la piazza publica, quel Bartolomeo Colleoni che i Romani conobbero rifugiato nel Palazzo di Venezia, il condottiero della Dominante, rimontò in sella, inforcò di nuovo il suo stallone, per non essere scavalcato mai più.

Nella notte ero andato a rivederlo tuttora disteso nella peata, supino su la graticola di legname come un paziente in vincoli. Ma la sua immobilità e il suo silenzio erano formidabili.

Pareva l’imagine attuale del popolo italiano.

Pareva il perfetto antagonista di quel cavalocchio senza muscoli che laboriosamente digeriva i lauti pasti e le più laute burle nel mal famato albergo parigino. Possedeva quel che manca interamente ai successori: le tre paia di attributi del potere.

Pensavo che da un momento all’altro fosse per dare una grande stratta e per rompere le funi e per rimettersi in piedi, pronto al castigo fulmineo.

Mi veniva fatto di gridare: «Forza del popolo, levati e punisci! Il comando è passato a te.»

Sentivo che quella figura di bronzo, fusa dal gagliardo campanaro, non aveva più il suo nome storico, non era un capo di fanti o di lance, non era al servigio della Republica o dell’Impero. Era qualcosa di più.

Era una potenza nuova, una potenza in cammino. Quel suo piedestallo non era se non una pietra miliare già sorpassata.

Ora la mèta è duplice: nella terra e nello spirito.

La mèta terrestre è di dal mare, voi lo sapete: è a levante. E sarà raggiunta.

La mèta spirituale è di da tutte le menzogne e da tutte le oppressure, sul vertice della libertà. E sarà raggiunta.

Avanti, volere d’Italia, bronzo di buona lega popolare!

Al passo o al galoppo, arriverai.

E se c’è bisogno dello sprone, io son quello.

E se ci sarà bisogno di sonar la carica, io la sonerò.

E tutto il resto è putredine certa.



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