Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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L’erma bifronte

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L’erma bifronte

[xxv giugno mcmxix]

M’accadde l’altrieri, non senza ilarità, di vedere male impressi nella carta floscia di un giornale meridiano i più o men noti grugni dei nuovi ministri.

Non si può dire che sia gente ben costrutta, quantunque ben pasciuta. Ispirano una ripugnanza simile a quella che si prova nei musei di cere in un giorno di canicola, quando i personaggi ben dipinti, ornati di peli veri e di veri capelli, vestiti di panni nuovi, incrovattati con diligenza, cominciano a doventare sudaticci e untuosi quasi umanamente. Sono di una falsità indimenticabile, più fissa che quella dei cadaveri imbalsamati. L’attenzione li compendia in un particolare della bruttezza.

Io, per esempio, quando considero i detti e i gesti del dottor Clemenceau, non so difendermi dal rivedere, con una intensità allucinante, l’orecchio villoso e deforme che egli ha nella cera del museo Grévin; e comprendo come la sua energia senile sia d’ordine meccanico e perché la vita sia assente da ogni suo atto e verbo, se bene possa egli sembrare agli imbecilli un rude costruttore. Ben turate nel boccale la sua pace acida e la sua italofobia callosa, fenomeniche gemelle, non è egli per rientrare nel suo museo immobile, con la sua vecchia zucca reverentemente ritoccata dal ceraiuolo e raggiata d’un’aureola in oro di massello offerta dal buon prete Korosec?

Rimirando i grifi di questi altri salvatori del Paese, rimessi a nuovo dallo zelo del barbiere e del parrucchiere ufficiosi, imagino con raffinata crudeltà che, prima d’esser collocati in fila dietro il banco di Montecitorio, essi siano sottoposti a una ordinazione di guerra e costretti a spogliarsi davanti a un consiglio medico di Arditi o di altra simile genìa incomoda.

Un mio incomodo amico diceva:

«Ho l’occhio di un mercante di schiavi per giudicare con un solo sguardo la qualità del carname umano anche dissimulato dal sarto.» Lo eleggo presidente tecnico di questo consiglio, dove includo alcuni di quei ragazzi che guadarono il Piave la notte del 26 ottobre 1918 a Moriago e a Sernaglia, alcuni di quelli che lavorarono al Col della Berretta o all’Asolone, di quelli del maggiore Messe. Sta bene?

C’è chi ha schifo di palpare questa specie di sacchi bianchicci. Prendeteli dunque pei piedi o pel sedere, e capovolgeteli. Squassateli e vuotateli. Che cosa ne esce? Qualcosa che, davanti al popolo italiano, dovrebbe essere la sublimazione della nostra guerra guerreggiata e vinta.

Combattenti, noi abbiamo combattuto, operai, noi abbiamo travagliato, cittadini, noi abbiamo patito e resistito, per ritrovarci oggi dinanzi a questo mucchio di povera immondizia che non può servire neppure da concime al cavolo nazionale.

Mi sembra che l’indignazione sia inopportuna. Bisogna considerare questa oscena avventura come un intermezzo comico. L’ilarità è un refrigerio in questi giorni d’afa.

L’altra sera, passando sotto le fronde dei Cappuccini, nel vedere i nostri fanti bigi accosciati lungo il muricciolo come contro il parapetto della trincea, con gli elmetti e le baionette, non potemmo non metterci a ridere e a motteggiare. E il riso si propagò leggermente a tutti i compagni, come attraverso una pattuglia nella zona di Fossalta o in quella di Losson, quando la facezia scoppiava con la granata in arrivo.

I soldati in assetto di guerra proteggevano il grasso cuoco di Basilicata tuttora sudante a rimescolare il suo intruglio nella sudicia casseruola giolittiana! E i poliziotti dall’ombra sorvegliavano i combattenti.

Mi tornava nella memoria una beffa di Arditi inventata e attuata in un attimo. Un carro di belle Fiamme correva a precipizio verso la linea della battaglia, quand’ecco apparire in distanza su la strada polverosa un gruppo di gendarmi dalla lucerna color di talpa, pronto a moderare la corsa folle. Quattro ragazzi sùbito strizzarono un occhio e s’intesero. Come il carro raggiunse il gruppo arcigno, due dei quattro puntarono il moschetto e due spararono in aria senza farsi scorgere. Il gioco ebbe un effetto stupendo. Sotto la mira e sotto la scarica, i pedoni non dubitarono d’esser stati colpiti, e stramazzarono nella polvere. Ma, tastandosi a vicenda, si accorsero d’aver tuttora le cuoia sane, mentre il riso dei beffatori crepitava nella rapidità come il preludio del combattimento a oltranza.

Lo stratagemma burlesco può convenire al nostro caso. Ma forse non c’è neppur bisogno della mira e della scarica perché questa gente si creda spacciata e a terra.

C’è tuttavia chi stima che il turpe ingombro possa rimanere nella vita nazionale per un tempo indefinito, come quei cumuli d’immondezza che all’epoca della guerra fermentavano nel trivio per mancanza di un qualunque somiero o d’una qualunque carretta.

E allora?

Gli Italiani aspetteranno che lo spirito di ribellione faccia prima scoppiare quei sepolcri del Carso davanti a cui, l’altro giorno, Emanuele Filiberto di Savoia osò per la centesima volta celebrare la santità del sangue effuso e della compiuta immolazione?

Una tal voce sembra remota e importuna. L’androne barberino nereggiante di carabinieri occhiuti è più reale che una fòiba o una dolina dove il legno delle croci solitarie si spacca al sole tristo. I lacci e le tagliuole che prepara il ben rimato e arrotondato furbacchione basilisco sono più reali degli spineti di ferro che s’arrugginiscono nella ignuda malinconia del Montello. I paletti divelti bruciano laggiù sotto le pentole miserabili che non sfamano i profughi ritornati; e le tracce del sangue risecco non stridono alla fiamma.

Il sangue è silenzioso, fuori delle vene umane. Non è vero che possa gridare, che i vivi l’odano gridare. Se fosse vero, l’Italia tutta non dormirebbe più.

Ma laggiù la vedova e la madre infelice, che seggono su lo scalino della porta desolata o all’ombra del muro fesso, pensano che in riva al Piave omai la gloria degli eroi val meno d’un piatto di cavoli riscaldati se a Roma è assunto chi latrò contro il nome di Patria la parola da Pietro Cambronne lanciata contro il nemico con lo stesso animo divinamente plebeo ch’ebbe Enrico Toti nello scagliare le sue grucce.

Ora i Romani decretano un monumento al sublime schernitore, ma gli levano di dosso i panni e lo piantano sul piedestallo come il torso di Orazio Coclite o di Muzio Scevola. Allontanano anche lui nell’immemorabile storia. Non altrimenti il fante simbolico avrà il suo trofeo su la groppa brulla dell’Ermada, mentre il fante contadino seguiterà a curvarsi su la terra non sua e a rosicchiare il non suo tozzo, dopo aver tenuto nel fango marcio della trincea per tre anni le gambe gonfie e dopo aver per tre anni ingoiato il rancio freddo tra un servizio e un assalto.

Già nel tavolato d’una baracca un veterano con le tasche piene di petardi e di sipe, dopo la discorsa d’un generale sedentario, scrisse col gesso la sentenza sdegnosa in suo latino: No voglamo ingomii. Già la madre aspra di Gian Guglielmo Rebora rifiutò di ricevere dalle mani di Maurizio Gonzaga, di quello del Vodice, la medaglia pel suo inutile morto. Così oggi i fanti, contadini e non contadini, gridano a una voce, di sopra la terra e di sotterra: «Non vogliamo monumenti

Se c’è da porre su quella che i retoricastri mutilati e feriti non cessano di chiamare «la santità della guerra» una buona pietra alfine, perché non se ne parli più, facciamo un’erma bifronte e biventruta dei due uomini ben rimati, e collochiamola non in cima a un calvario doloroso ma in mezzo a un luogo dilettoso, magari al Pincio dove qualche eroe recente è messo per riverire al passaggio le meretrici dei due sessi. E incidiamo nella guaina quadrata, che assommi il cinquantenne e l’ottantenne in venticinque lustri di adipe e di sconcezza, l’iscrizione onoraria:

Il grande e puro sacrifizio d’Italia fu compiuto perché, in onore di questa doppia imagine, in gloria di questi due padri della Patria congiunti da una sola paternità, nell’anniversario del Solstizio vittoriale i morti fossero uccisi una seconda volta.



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