Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Per la bandiera dei volontarii di guerra

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Per la bandiera

dei volontarii di guerra

[iv luglio mcmxix]

Non io vivo, ma la Patria vive in me.

Compagni, dall’atrocità e dall’afa di questa lotta civile, dove combatto tuttavia come volontario di guerra sostenuto da quello spirito di sacrificio che è oggi il respiro della vostra tristezza coraggiosa, o miei compagni d’armi e d’amore, io vi mando il meglio di me, il meglio della mia memoria e della mia speranza, in una tregua che mi lascia rivedere ancóra una volta, sopra un vertice eroico qual fu la cima dimenticata del Vodice o la vetta obliata di Plava, la bandiera d’Italia, la vostra bandiera, la nostra bandiera.

È una tregua, nell’atrocità e nell’afa, per riprender lena, per mondarsi, per ritrovare e rimirare la faccia del dio che non ci abbandona. Se la gola è secca, l’avidità dell’anima crede di ribevere a un tratto quel vento fresco e chiaro della battaglia, che soffiava laggiù dall’Adriatico su le paludi putride, su i calvarii brulli. Mi tornano nella memoria le soste dei combattenti ai ruscelli, alle fontane, ai fiumi della Patria insanguinata, quando ogni lavacro era un battesimo, ogni sorso era una eucaristia. Mi torna nella memoria la vigilia notturna di Pentecoste, in San Giovanni di Tuba, quando i soldati arrivarono alle fonti del Timavo, e riebbero la sete dei legionarii di Roma e bagnarono la faccia le mani i ginocchi nell’acqua latina, e sentirono la divinità della Grande Madre entrare come alla foce del Tevere, entrare nel fiume e nei precordii, e furono Italiani nella notte presente e nella notte secolare.

Così prendiamo noi sollievo e conforto, così ci comunichiamo noi nella nostra sete e nella nostra fede, così ci rivolgiamo noi all’apparizione della Grande Madre, e ci vogliamo prostrare, e la vogliamo adorare. Ci mettiamo in ginocchio non su una riva combattuta, come allora, ma nel mezzo della Patria combattuta da un nemico ancor più bieco, noi che siamo i suoi figli umili e i suoi figli orgogliosi, noi che siamo accorsi prima che ella ci chiamasse, noi che l’abbiamo servita per bramosìa di servire, noi che abbiamo avuto per appello il nostro solo amore e per obbligo il nostro solo amore, noi che ci chiamiamo con un nome d’anima, con un nome di offerta, con un nome di libertà: i Volontarii.

Alzate la bandiera! Sventolate la bandiera!

È nuova? tessuta di recente? cucita di recente? inchiodata ieri all’astile?

Io dico che già sventolava in Quarto dei Mille, al vento della nostra Sagra; e che la teneva in pugno il più vecchio dei superstiti, il seniore dei santissimi vecchi, uno che era partito da quel sasso per il folle volo, uno che aveva veduto, veduto coi suoi occhi viventi, da vicino il Capitano come la Veronica aveva veduto il Cristo, e portava la faccia di lui nell’anima come quell’altra faccia restò nel sudario impressa. Io mi ricordo di averla sentita fremere sul bronzo marino, mi ricordo di aver sentita la mia voce perdersi nelle sue pieghe immense.

Era immensa, come anche la vostra si fa oggi immensa. La può tenere anche oggi in pugno uno dei Mille immortali, o il più giovane dei Volontarii oscuri: un eroe di sedici anni. Ma è immensa, come quando s’andava all’assalto di un gòlgota fragoroso, e v’era innanzi a tutti una bandiera, e ogni carne era un lembo del tricolore palpitante.

I tre lidi d’Italia sono oggi, per la nostra passione, i tre orli del tricolore palpitante.

E il quarto lido è come il quarto lembo inchiodato all’astile. È quello che rimane fisso, che nessun turbine porta via, che non straccia nessuna ràffica. È il lembo inflessibile.

Non è un drappo, è uno spirito. Non è un’opera di telaio, è la veste della nazione eterna.

Chi vuol mutare il tricolore? chi vuole andare alla nuova battaglia con un altro segno?

Davanti agli eroi risorgenti nel bronzo, su quel lido garibaldino, uno gridò: «Delle lor bende funebri noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere

Oggi, delle nostre ire, dei nostri furori, delle nostre tristezze, delle nostre ambasce, di tutta la nostra bile generosa o ingenerosa, rifacciamo il verde. E che sia un verde più acre di quello che fu detto della speranza, non importa. Diamo pure l’acredine del nostro fegato come demmo la purezza del nostro cuore. Non importa.

Ma se il sangue versato non basta a crescere lo splendore del rosso, ma se tutto il sangue versato – dalle primizie di Aquileia all’ultimo fiotto di Paradiso – non basta a fare del rosso una fiamma impenetrabile, noi vogliamo riaprire le nostre vene, vogliamo dare alla Causa quanto ci resta, vogliamo consumare quanto ci fu lasciato, noi: i Volontarii.

Volontarii d’Italia nella selva epica dell’Argonna, innanzi che lo spirito di sacrificio entrasse nella nazione incerta e precorresse la grande primavera, Volontarii d’Italia vollero porre il primo suggello al patto che oggi, non da noi, è ciecamente violato. Volontarii, d’Italia di dal mare, dove una soldataglia ubriaca e rognosa traballa nel suo vomito contro una nobile gente che cammina diritta nel suo proprio sangue, Volontarii d’Italia senza soprassoldosoldo taglieranno il nodo delle sorti aggrovigliato dalla prepotenza e dal dolo.

Alzate la bandiera! Sventolate il tricolore!

Vi ho rimemorato la Pentecoste, e San Giovanni di Tuba, e il fiume di sette fonti, e i «lupi di Toscana» ebri d’acqua notturna. Se c’è oggi chi di continuo tenta di cancellare o di smorzare le visioni della guerra, io mi sforzo di arroventarle; e mi dolgo che la parola non abbia assai più di potere. E, se io degnassi domandare per me qualche cosa alla gloria che troppo ha concesso a ogni specie di falsi e d’impuri, non le domanderei se non di perpetuare nell’anima italiana gli accenti e i segni di questo mio fervore.

Dopo la mezzanotte, iniziammo l’assalto all’altura che precedeva Duino. Come in tutta la nostra guerrafin da quando i nostri fanti lavoravano contro gli spineti di ferro con cesoie da giardiniere e sconficcavano i paletti con le mani ignude e l’uno dopo l’altro morivano impigliati nei fili – l’animo sopperiva alla miseria dei mezzi. Il sacro Timavo fu superato con una passerella di una sola tavola sostenuta da vaghe scatole galleggianti! La tavola brandiva; l’acqua arrivava all’inguine; i soldati fallivano e davano un tuffo; raggiungevano a nuoto la ripa. I reticolati avevano resistito al tiro piantati nel cemento. La difficoltà non accasciava il coraggio ma lo rallegrava. La quota fu assalita in silenzio ma fu presa cantando, come se la mitragliatrice avesse la cadenza dello scacciapensieri, che anche è d’acciaio.

Tutto era impeto, invenzione, prodigio, come a Oslavia, al Pal Piccolo, al Passo del Cavallo, al Monte Nero. Il borino portava l’alito di Trieste nell’odore delle paglie marine. La quota era tenuta. Già si cominciava la polizia delle caverne. Bastava un rinforzo per snidare l’ultimo nucleo di resistenza.

Ecco che, ripassata la passerella, mentre correvo verso il posto telefonico, mi voltai e scorsi nel primo albeggiare su la quota occupata un che di bianco. Pareva il segno della resa. Pensai, con un balzo del cuore: «Gli Austriaci si arrendonoAguzzai l’occhio. Non era il segno della resa nemica. Era lo straccio miserabile della fellonìa, era il ciarpame floscio della viltà.

All’improvviso, nel soffio mattutino della vittoria, per una malvagità incredibile, un battaglione di fanti – non quello del mio glorioso reggimento, non quello dei «lupi» – s’era ammutinato, aveva tirato contro gli ufficiali, aveva inalzato su le baionette i suoi cenci bianchi, la sua biancheria sporca: le sue camicie e le sue brache!

Erano i precursori di Caporetto, gli annunziatori della vergogna autunnale, i primi assassini della vittoria viva.

Compagni, se aguzzate la vista non scorgete nel crepuscolo di Roma biancicare non so che biancheria sporca su le baionette vittoriose? Gli uomini della disfatta e del baratto infiggono alle baionette dei nostri fanti le brache che a loro cascano dalla paura.

Spiegate la bandiera! Coprite l’ignominia! Sventolate il tricolore in tutto il cielo!

C’è chi sta per assassinare anche il tricolore?

Ai primi d’ottobre del 1916, alla vigilia della prima azione contro il Veliki, mentre in una dolina il Colonnello del 78° reggimento di fanteria comentava agli ufficiali l’ordine del giorno che avevo avuto l’onore di stendere, un «trecentocinque» colpì in pieno la baracca uccidendo gran parte del gruppo e maciullando la bandiera.

Dai rimasugli della carne e delle ossa furono sceverate le reliquie sante: i brandelli del drappo, le schegge e i chiodi dell’asta, la lancia contorta. E le reliquie furono raccolte e avviluppate divotamente. E a me fu dato il carico doloroso di portarle alla sede del Comando.

Se avessi tenuto su le mie braccia il corpo esangue di mia madre, se avessi tenuto su le mie ginocchia il corpo straziato di mio figlio, avrei forse potuto domare il tremito della mia vita. Ma di quel tragitto dalla dolina al vallone, con quel fardello più sensibile del sangue che ribolle e riarde a miracolo nelle teche dei martiri, me ne ricorderò fino alla morte, oltre la morte.

Avevo le schegge confitte nel cuore, i chiodi confitti nel cuore, i brandelli profondati nella carne come quei pezzi di grigioverde che restavano nelle ferite; e la lancia nel costato.

Sol per quella pena, per quella pietà, per quella divozione, mi sia perdonato quel che tuttora in me è debole e tardo.

Rifacemmo la bandiera nuova. La portammo di dalla dolina orrenda, sempre più avanti, sempre più lontano.

Ma questa, la vostra, la nostra, nuova e antica, o compagni, sarà immune da ogni colpo.

È la bandiera della volontà pura.

Il nemico la guata e la teme. E il nemico non è più negli inferni del Carso ma nei sette colli quiriti. Lo cacceremo.

Volontarii d’Italia, a voi la Patria il più fiero dei privilegi. Voi non disarmerete mai. Per la libertà e per la grandezza, il vostro combattimento non può aver mai fine.



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