Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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L’ala d’Italia è liberata

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L’ala d’Italia è liberata

discorso agli aviatori in centocelle

[ix luglio mcmxix]

Compagni, dopo giorni e giorni d’irosa tristezza, ecco che il mio cuore balza di gioia. Ecco che anche una volta io sono per voi un messaggero di gioia. Vi porto un grande annunzio. L’Ala d’Italia è liberata.

Mi sembra di tornare al tempo che giungevo d’improvviso su i vostri campi lontani, su i bei campi del Veneto e del Friuli, quando per compiere un’impresa ardita era necessario lottare contro l’inettitudine e il malvolere dei capi (mi ci vollero quasi tre anni di pertinacia per ottenere licenza di volo su Vienna); e, avendo alfine strappato un consenso difficile, gridavo alla vostra ansietà: «Si vola! Si vola

Era uno scoppio d’allegrezza delirante, come nella notte fra il 2 e il 3 d’agosto, nella prima notte di Pola. E il lungo divieto dei capi si fondava sul convincimento che nessuno di noi sarebbe tornato indietro! Danzavate su l’erba rasa del campo, intorno agli apparecchi pronti, prima di andare verso l’inferno delle batterie e dei proiettori. Avevamo dovuto argomentare e supplicare per questo. Facevamo tripudio per questo.

«Si vola! Si vola!» L’annunzio di oggi sotto il cielo di pace è come l’annunzio di allora sotto il cielo di guerra. Un soffio eroico rompe l’aria morta.

Comandante Ernesto La Polla, capitano Renzo Leveroni, miei vecchi compagni della Comina, non vi sembra oggi di fiutare su questo campo romano di Centocelle l’odore del nostro bel campo veneto? E laggiù i monti del Lazio sono aerei come i monti di Pordenone, quasi sul punto d’involarsi come le nostre ali e come i nostri ardiri. Ve ne ricordate? Le allodole cantavano il più italiano dei canti come nella Terza rima; e i nostri spiriti salivano con esse; e per noi l’ultima dolcezza era nella morte gloriosa. Non ci siamo saziati di quella. Non siamo sazii. Noi non usciamo dalla guerra sazii. Fra tutti i combattenti siamo i privilegiati: possiamo ancóra vincere, possiamo ancóra morire; vogliamo ancóra vincere e vogliamo ancóra morire. I nostri campi non si mutano in piazze d’armi, ma restano campi di prova e di battaglia. Ogni giorno possiamo noi di qui partire per la maravigliosa avventura, per l’ultima avventura. Come alla guerra noi demmo i nostri eroi, così li abbiamo dati all’armistizio, così li daremo alla pace.

Si vola! Si vola! L’Ala d’Italia è liberata.

C’è qui, tra voi, qualcuno del campo d’Aiello? Dov’è il mio buon capitano Gordesco dall’arguzia crepitante come il sale nel fuoco pugnace?

Chi si ricorda di quella povera aquila triste e malata, dal maestro di bizzarrie e di prodezze Guido Keller tenuta prigioniera in una gabbia e nutrita con brandelli di qualcosa che sovrabbondava tra gli aviatori? Di fegato.

Era un’aquila spennacchiata, con le ali mozze, col becco tronco. Si era mai veduto sospirare un’aquila? E quella sospirava. S’era mai veduto sbadigliare un’aquila? E quella sbadigliava.

Un asinello dalle zampe sbilenche e dal ventre intamburitotrovato a ragliare disperatamente su la proda di un fosso nei dintorni di Palmanova e per pietà issato sul carro comune e coperto d’un pastrano grigioverde e introdotto nel campo sotto la specie del «superiore» – girava intorno alla gabbia come se spingesse la stanga invisibile d’una mola; e di tratto in tratto mostrava le gengive giallicce alla prigioniera, con una smorfia che non si capiva se fosse d’irrisione o di compassione.

Non c’è nessuno di voi che se ne ricordi? Il capitano Gordesco elegantissimamente istruisce a Cervéteri i giocolieri dell’aria; e mi rammarico di non veder qui i suoi occhi di gatto selvatico. Se egli ci fosse, interpreterebbe da par suo l’imagine rievocata.

È l’imagine della nostra aviazione quale l’hanno ridotta, fino a ieri, i nostri capi, nemici mal dissimulati del volo e dei volatori: vecchi stanchi o ambiziosi tardivi, inesperti degli strumenti nuovi e avversarii del divino istinto, incapaci di comprendere il genio della razza e di secondarlo e di eccitarlo.

Con quali mezzi avete voi fatto la guerra? Col solo vostro istinto divino, col nuovo senso improvvisamente creato in voi e disconosciuto e avversato dagli inetti e dai sedentarii. Per quattr’anni di durissime prove, superando ogni giorno voi stessi nell’arte e nella prodezza, ogni giorno crescendo di esperienza e di potenza in combattimenti singolari, in scorrerie di squadriglie, in esplorazioni sempre più lontane, in mettere a guasto le opere, in dar continuo travaglio alle forze nemiche, in sopperire con l’audacia ostinata alla scarsezza dei mezzi e alle avverse fortune, voi, voi soli avete costruita istruita invigorita l’Ala d’Italia, la avete fatta pari alla severità di quel comandamento che grida al coraggio di ciascuno e di tutti: «Più alto e più oltre.»

E vi fu un altro comandamento, nelle nostre giornate carsiche, nei nostri mattini dell’Ermada: «Più da presso, sempre più da presso.»

Le Fiamme nere avevano adottato l’arme corta. Non volemmo noi essere da meno, Fiamme blu. Lo sanno le fanterie austriache a cui il vento rasente dell’ala strappava il fazzoletto di su la nuca pavida. Bombardieri della Comina, di Aviano, di Campofòrmido, presenti e assenti, miei Arditi dalle ali forate, chi non si solleva e non lampeggia al ricordo sublime?

Ci ricaricavamo di bombe e ripartivamo contro il nemico, con le ali che parevano crivelli, senza contare i buchi e senza curarci delle toppe, alla gran ventura. Le eliche scheggiate, le crociere di comando spezzate, i timoni squarciati, le tubazioni rotte non c’impedivano di tenere il cielo. Le api di fuoco mellificavano negli alveari metallici dei nostri radiatori. E ciascuno di noi sa l’ebrezza di quel miele marziale.

Chi non la sente riscoppiare dal cuore? Nel prossimo agosto, per placare i nostri morti, vogliamo celebrare i nostri anniversarii eroici. Francesco Baracca ci sarà testimone. Il divino abbattitore, che ci faceva la scorta, ci ridirà quella parola ch’egli ci mandò quando con rapimento vide le nostre carlinghe risalire l’Ermada più e più volte come carri ostinati che lo arassero.

Avevamo osato l’inosabile.

Compagni, oseremo ancóra l’inosabile. Basta che ci lascino osare, basta che ci lascino tentare le vie dell’Infinito, a noi che fummo le guardie alate del confine e i precursori aerei dei nostri eserciti. Di da ogni confine, di da ogni orizzonte, di da ogni limite noto e ignoto: ecco il nuovo proposito.

Una verità è manifesta. L’istinto icario, l’istinto umano del volo, che già travagliava l’inquietudine del Vinci e si rivelava nei disegni esatti e nei congegni reconditi, non s’è approfondito e non ha preso vigore e ardore in nessuna stirpe come nella nostra. La volontà dell’Aquila romana, che precedeva per tutta la terra la marcia cadenzata dei legionarii, sembra rinascere nei nostri giovani stormi. Essa non è più una insegna di milizie pedestri; è una crescente rapidità di conquistatori aquilei. Pareva che fra vent’anni, fra trent’anni, fra cinquanta dovessimo avere una generazione in cui l’ansia del volo fosse già trasmessa come un retaggio. Per una di quelle anticipazioni che sono i prodigi del nostro genio, l’ansia s’è risvegliata nella gioventù presente. Il giovine corpo della nostra aviazione ha l’istinto spontaneo dei grandi migratori alati: il bisogno di migrare, di peregrinare, di spandersi nei quattro vènti. Più perfettamente che le due nature nel centauro, l’uomo e il velivolo fanno una sola forza veloce.

Andate al campo di Cervéteri. Vedrete un turbine di voli umani più fiero che le risse delle rondini su la Trinità dei Monti o su l’Aventino in queste sere d’estate. Un piccolo sergente imberbe, il Mariani, percorre dieci chilometri con l’apparecchio rovescio, a testa in giù. Un altro, il Coia, da mille e cinquecento metri scende a terra con una serie continua di cerchi vertiginosi. Il prodigio è divenuto un gioco facile. L’audacia è una consuetudine. L’uomo è l’emulo dell’uccello ma più libero dell’uccello perché non ama il nido e non ama la mèta. Vuole andare di nido in nido e di mèta in mèta, e di morte in morte.

Lasciatelo dunque andare, lasciatelo osare, o canuti portinai dei ricoveri, o tetri proibitori. Lasciate che s’orienti, che scelga le sue vie, che le intraprenda.

C’è oggi una Italia che vuol vivere dal ventre, che vuol curvare il collo, che vuole imbestiarsi, che vuol pascersi nel chiuso? Ma c’è anche un’Italia che guarda in alto, che mira lontano, che spia i vènti del largo, che ama le vie senz’orme e le lontananze senza rifugi.

Questa Italia vigorosa animosa avventurosa c’è. Basta guardarvi nelle pupille. Basta sentire il battito del vostro polso, il tono della vostra volontà, il fremito della vostra impazienza.

Ci furono età in cui demmo piloti e capitani a tutto il mondo. A tutto il mondo possiamo oggi dare ali e maestri d’ala.

Avete veduto su questo campo atterrare apparecchi stranieri in sosta per seguire le rotte di levante. Al paragone, i nostri erano come il purosangue di Federico Tesio accanto all’alfana di Mambrino. Non appariva in quelli nessuna cura della linea, della leggerezza, della proporzione. Nei nostri già appare lo stile; il quale non è se non il giusto rilievo formale della forza e della destinazione di essa forza.

Considerate il carattere potente di quel SIA 9 B che adoperai nell’ultima offensiva. Considerate il carattere grazioso di quello SVA 5 che maravigliò Vienna. Nell’uno e nell’altro è raggiunto un tipo singolare di bellezza conveniente, come in un oggetto dell’industria antica, come in una lanterna del Caparra, come in un violino di Andrea Guarneri.

Già, durante la guerra, affermammo il nostro primato nella costruzione dei nostri apparecchi da battaglia. Nessuno degli Stati alleati o avversi era riuscito a costruirne e a usarne di così robusti e ingenti. In condizioni infauste, nuove forme, nuove qualità, nuove misure erano via via create dai costruttori per adattare gli apparecchi a nuovi servizii. L’arte degli antichi maestri italiani conduceva la mano degli operai nel pulire cèntine e travi, nel sagomare ali e timoni, nell’inflettere fusoliere e carlinghe. Tutte le potenze dei motori erano provate di grado in grado, fino alla massima di circa settecento cavalli. Con un solo motore andammo a Vienna e ne tornammo. Con un solo motore io e Natale Palli venimmo dalla fronte dell’Aisne al Po in poco più di tre ore. Con un solo motore seguiremo l’itinerario dell’Estremo Oriente per tappe cotidiane di circa duemila chilometri.

Con apparecchi terrestri, per la impresa di Cattaro, facemmo quattrocento cinquanta chilometri di mare, in tempo torbido e notturno. I grandi bombardamenti notturni e diurni di Pola sono una gloria di quegli stessi «Caproni» che portavano a prua la testa dell’ariete ossidionale e il motto di guerra: Senza cozzar dirocco.

Il 21 agosto 1918 io e il tenente Alberto Barberis, di pieno giorno e senza scorta, col nostro solo SIA 9 B carico di quattordici bombe, e con tutte le insegne al vento, andammo a fare su quella piazzaforte una rappresaglia beffarda, ridendoci dei cacciatori che non riescivano a raggiungere un apparecchio da bombardamento tanto veloce né a comprendere dove fosse collocata la terza mitragliatrice che di sotto la coda li prendeva di mira con tanta giustezza. Un fratello del SIA, più finito e più spedito, collegato da pochi fili e da pochi montanti, con la cellula più libera, con un’ala quasi direi più fluida, con tutte le sue linee acutamente disposte alla penetrazione massima, «modellato dall’aria per l’aria», il BR, domani andrà in meno di sette ore da Roma a Londra condotto da quel tenente Brack Papa alla cui valentia si conviene l’epiteto romano della saetta e della fortuna: volucris. Fra breve una macchina del medesimo tipo, ma capace d’un volo continuo di quattromila chilometri, porterà nel giro della sua elica l’astro dell’Italia nova ai nostri fratelli del Brasile e dell’Argentina, che l’invocano e l’aspettano.

Non ci sono ancóra nella terra lontana campi battuti per l’atterrata delle grandi aquile? Ma ci sono fiumi laghi mari, ci sono foci e porti, per l’arrivata dei grandi àlbatri.

L’ala marina sta per emulare l’ala terrestre in apertura e in robustezza. Come dal lago di Varese i piccoli m5, m7, m9 si levavano di continuo rinnovandosi e trasformandosi, l’uno più celere dell’altro nell’ascensione, più saldo nella struttura, più obbediente nella manovra, invidiati e male imitati dallo straniero, formidabili nel cielo della battaglia, così dal medesimo specchio lombardo sta per balzare il novissimo M12, munito d’un battello a due code che si partono dall’unica prua, tratto da un solo motore di quattrocento cinquanta cavalli che porterà un carico assai grave a una velocità non mai raggiunta da un apparecchio acquatico.

Ma, mentre nell’officina pertinace e precisa di Sesto Calende, che già con prove e riprove aveva saputo riunire nel suo S13 le qualità più rare, sta per uscire dai lunghi studii il modello originale di un triplano vastissimo, qual meraviglia ci prepara il solitario di Vizzola? quale colosso aereo, quale smisurata diomedea oceanica, quale profonda carena alata costruisce egli per lanciarla pesante di uomini e di merci ai più lontani approdi?

Il genio e l’ansia dei costruttori resistono al divieto, all’oppressione, all’ingiustizia, all’ottusità. Il genio del volo, l’ansia del volo sono irrefrenabili in un popolo di artefici che diedero all’amore del mondo le più belle creature alate: le Vittorie e i Chèrubi. Come Dante giovine disegnava sopra certe sue tavolette figure d’angeli, così non v’è oggi fanciullo italiano che non disegni figure di velivoli su i margini dei suoi quaderni e non senta il suo cuore d’uccello salire per il filo del suo aquilone.

Che un nuovo fervore si accenda nelle officine svigorite! Che gli operai aguzzati dalla guerra, poi fiaccati e dispersi da questi otto mesi d’armistizio incerto e vile, tornino a radunarsi, ricompongano le maestranze, ritrovino la loro arte insuperata, mostrino allo straniero come soli sieno essi i veri figli di Dedalo fabbro mortale e immortale!

Il popolo italiano fu sempre il più sagace dei migratori. Quando non aveva l’ala senza battito, gli archi dei ponti e le lastre di pietra che le legioni lasciavano dietro di loro, sopra i fiumi e nelle paludi, segnarono i suoi cammini. Nell’Evo medio, nel Rinascimento, nell’età più tarda, l’uomo italiano fu re in tutti i mari, fu signore in tutte le terre, sino agli ultimi orizzonti, sino agli estremi confini. Quell’Africa e quell’Asia, che oggi gli sono contese dalla perfida avarizia altrui, furono sempre alla mercè de’ suoi ardiri. Ma non importa che gli sieno contese. Teneo te, Africa è una parola romana da rendere italica. Teneo te, Asia è una parola romana da rendere italica. Chi può reprimere in noi questa volontà, questa attitudine, questa tradizione? Non era possibile quando non avevamo se non la chinea ambiante e il cavallo di san Francesco, o la vela e il remo. Sarà possibile oggi che il nostro vecchio istinto migratorio ha messo le ali, le sue giovani ali?

Chi ’l tenerà legato? Il motto di Nicolò Crasso e mio è da gettare in viso, non senza scroscio, a chi tenta e a chi s’illude.

Il generale Sailer, un gran soldato coloniale che nelle bolge carsiche si sentiva a suo agio, mi diceva l’altrieri: «Come si può non serbare la fede, anche in questa miseria? Venivo da Buttrio. Prima di lasciare la Patria del Friuli, m’ero riempito gli occhi di quel colore del Natisone che tu ricordasti alle reclute del ’99. E avevo respirato quell’odore di frutti denso che spira dal Collio. Per tutte le vie dell’altura e della pianura era la stessa fecondità. A ogni borgo, a ogni villaggio, a ogni casale i bambini robusti e coloriti erano tanti che pareva schizzassero dalle ruote della mia automobile, come schizzano le gocciole quando s’entra in un guado. Che soda materia umana! Chi può dubitare delle sorti di questa nostra razza inesauribile e incoercibile? Dimmelo

Di quella buona materia umana una parte rimarrà attaccata alla sua terra; ma una parte s’involerà verso l’avventura e la conquista, una parte metterà le ali, intraprenderà le mille e mille vie azzurre, andrà di dai mari dai deserti e dalle montagne senza più temere l’ostacolo, aprirà i tramiti senz’orme e le rotte senza scìa verso quell’Oriente estremo dove giunsero con lenta fretta i «tre Latini».

Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole. Volgiamo le spalle all’Occidente che ogni giorno più si sterilisce e s’infetta e si disonora in ostinate ingiustizie e in ostinate servitù. Separiamoci dall’Occidente degenere che, dimentico d’aver contenuto nel suo nome «lo splendore dello spirito senza tramonto», è divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica.

L’Italia che «sola è grande e sola è pura», l’Italia delusa, l’Italia tradita, l’Italia povera si volga di nuovo all’Oriente dove fu fiso lo sguardo de’ suoi secoli più fieri. Non ode l’appello degli Arabi e degli Indi oppressi appunto da quei giusti che tengono la nostra Malta e ci strappano la nostra Fiume? Ad appello d’amore risposta d’amore, che non può essere se non alata, cioè spiritale. Le ali secondano oggi il senso vero della vita, che è la bramosìa di ascendere per fatica e dolore alla conquista dello spirito.

Oggi le «primavere sacre» si propagano per l’aria come il polline. Non v’è impedimento che le arresti, non v’è distanza che le affanni. Se il tempo è ringiovanito, lo spazio è riassunto. Lo stil novo del mondo è lo scorcio. Come il Mantegna scorciava una figura, ecco che una guerra scorcia la storia, ecco che un’ala umana scorcia i più lunghi itinerarii dei mercatori, i più vasti peripli dei navigatori, e d’un tratto ci fa finitimi al Cataio di Marco Polo o alla Primavista di Sebastiano Caboto.

L’Italia sia maestra anche di questi scorci aerei. L’arte del Tintoretto, che serrava in pochi palmi di tela la veemenza della folgore, passi alle calotte degli emisferi e alle carte degli atlanti.

«Si vola! Si vola!» L’annunzio di oggi sotto il cielo di pace è come l’annunzio di allora sotto il cielo di guerra.

I divieti sono aboliti, le restrizioni sono infrante. In questi otto mesi tetri di armistizio i vecchi capi sedentarii hanno opposto alle nostre impazienze: «Perché volete rischiare la vita? Perché volete consumare una tanto costosa materia? A che pro? Restate tranquilli a terra

Avevamo il primato nella costruzione, avevamo il primato nell’arditezza. Ciascuno dei nostri apparecchi aveva fatto un lavoro per cento, ciascuno dei nostri piloti aveva fatto un lavoro per mille. Avevamo lottato contro i capi e contro il nemico. Avevamo vinto i capi e il nemico.

Ed ecco, finita la guerra, eravamo condannati a marcire nell’ozio dei campi come in principio, come quando il primo comandamento era di volare il meno possibile, di fare il meno possibile, di rischiare il meno possibile. Finita la guerra, rimaneva sospeso su i nostri coppi di cuoio quest’ordine rigido: «Non è lecito di volare se non per necessità belliche.» E le necessità belliche si riducevano a ruminare e a ingoiare le umiliazioni cotidiane che ci infliggeva la Conferenza. Il sangue di Francesco Baracca, di Ugo Niutta, di Maurizio Pagliano, di Ignazio Lanza, di tanti altri eroi severi, era barattato con le lacrimette del «leguleio molle». Quella era la rugiada di pace per le nostre ali rattoppate che sapevano la guazza delle notti adriatiche!

Compagni, non è più proibito di volare. Anzi da oggi la sentenza marina diventa celeste: volare necesse est, vivere non est necesse. E il comandante della Prima Squadriglia Navale S. A. ha l’onore di dirvi che basteranno duecento siluranti aeree ad aver ragione di tutta la massa navale britannica nel nostro Mediterraneo.

Come càmpano nei ritrovi solitarii di Tripoli e di Bengasi le nostre belle squadriglie? Oziano ancóra? risognano gli inseguimenti e i combattimenti nel cielo del Piave e del Grappa? Perché gli aquilotti restano prigionieri nelle gabbie roventi? Perché guatano verso il sud e non spiccano il volo? Mandate un’aquila romana a liberarli. Consegnate a ciascuno il segno di Roma, il nome d’Italia. Fate che vadano a cercare i nuovi cittadini d’Italia nei villaggi e negli attendamenti più remoti. Fate che annientino il deserto di sabbia, fate che annientino il deserto di sale. Fate che fra Tripoli e Murzucco, fra Tripoli e Tummo la via gialla si muti in via cerulea, e che l’oasi di Cufra veda giungere nel vento le ali tricolori come le bandiere tese della nuova Patria. Congiungete la Tripolitania all’Eritrea, la Cirenaica alla Somalia. I vittoriosi del cielo carsico, del cielo veneto, del cielo istriano mandateli a consolare i morti di Adua.

Lasciate che gli aviatori abbiano la lor sola guida nel loro istinto, come le rondini, come le cicogne, come le gru. Lasciateci andare, lasciateci osare. Lasciateci seguire i nostri destini, di mèta in mèta, di morte in morte, di gloria in gloria. Lasciateci il nostro privilegio di combattenti che possono e vogliono ancóra vincere, che possono e sanno ancóra morire. Quando le Fiamme nere, le Fiamme verdi, le Fiamme cremisi saranno disperse, si raduneranno tuttavia le Fiamme blu per andare «più alto e più oltre» verso l’ignoto, per tentare l’intentato, per osare l’inosabile.

Andiamo! Tentiamo! Osiamo!

Quando io dicevo una di queste tre parole, tutti balzavano in piedi, laggiù, sotto le tettoie piene di rombo; e sùbito i cuori toccavano la mèta proposta. Pareva che sùbito all’orizzonte periglioso i cuori fraterni facessero un astro rosso: l’astro umano infallibile, segnale sicuro di tutte le rotte tremende.

C’è qui qualcuno che si ricordi di quella sera grigia, nel campo di San Pelagio, quando per la prima volta, dissipando col gesto il fumo delle sigarette e delle malinconie, io proposi la rotta dell’Estremo Oriente?

Piovigginava. Ci opprimevano la tristezza dell’ozio costretto, il tedio della vana attesa, l’ambascia della vittoria mutilata e agonizzante, l’odio meschino delle oche per le aquile. A un tratto una finestra si spalancava su l’infinito. Il bel Rischio dal profilo tagliente si appoggiava al davanzale, e mirava lontano.

Dissi a Natale Palli: «Bisogna che andiamo a Tokio, in dieci o dodici tappe

Tutti vibravano, tutti erano pronti. Pareva che tutti avessero già nell’anima il medesimo sogno, e che io non fossi se non l’indovino e l’interprete improvviso. «Andiamo!» E tutti volevano partire sùbito; come quando il condottiero il segnale a uno stormo di migratori e l’aria è mossa da un solo frullo concorde.

L’Oriente! L’antica magìa trasfigurava il nostro ricovero di legno in una pagoda di Delhi o in una casa da ; e ciascuno già si sceglieva la sua baiadera e la sua geisha. E c’era chi aveva poco più di diciassette anni, come Marco Polo quando Nicolò e Matteo fratelli lo presero con loro e lo condussero a Layas, nella baia di Scanderun, di dove le carovane partivano per il paese mirabile.

Era dolce fantasticare. Avevamo dinanzi a noi su la mensa le piccole mele verdi che si gettano ai porci. «La sera del terzo giorno discenderemo a Basra, sul Golfo Persico, e andremo a cercare i migliori datteri del mondo ne’ suoi palmeti che fanno vento alle stelle. A mezzo del sesto giorno discenderemo presso la porta di Aladino, in una città morta del Gran Mogol, e ci disseteremo con l’uva moscata che si matura nei monti del Cabul, grossa come uova di colombe, conservata in una scatola di foglie spesse cucita con fili esatti di gramigna. E quanta pena avremo a salvare gli apparecchi dall’insolenza delle scimmie che salteranno su da le rovine come i “liquidatori” e gli “alienatori” dagli “uffici”!»

Gli occhi cesii di Natale Palli s’illuminavano come se riflettessero lo splendore del Tai-Mahal. Poi la sua fronte di ventitre anni si corrugava come la fronte stessa della saggezza meditabonda. Diceva: «Bisogna che il motore ci renda da mille e cinquecento a duemila chilometri per giorno, divisi in due tappeConsiderava la carta, davanti a sé. Soggiungeva: «Da Calcutta a Mandalay ci sono ottocento cinquanta chilometri. Da Mandalay a Hanoi, novecento cinquanta. Bisogna farli in una sola giornata, con una sosta intermedia per riempire i serbatoi

Già meditava la prova, da San Pelagio a Parigi, da Parigi a Roma, in una sola giornata, per superare il previsto. E si proponeva di precedere a ogni costo il rivale di Francia. Pensava che in quel momento il suo dovere d’Italiano gli comandasse di conficcare un’altra spina del valore italiano nel cuore geloso di chi, credendo al miracolo della Marna, negava i miracoli del Piave e di Vittorio Veneto.

Gli dicevo sorridendo: «Invece di scendere clamorosamente su una brutta terrazza delle Galeries Lafayette, come il caro Védrines, noi scenderemo in una sera di luna verso il fiume Giumna, sopra l’immensa loggia di marmi bianchi, nella reggia silenziosa del Gran Mogol, nella sala scoperta delle udienze dov’è il trono di marmo nero; e la notte sarà così chiara che distingueremo nel bianco i disegni sottili d’oro, d’argento, d’onice, di turchese e di porfido

Fu questa l’ultima favola che raccontai all’eroe fanciullo. Era il pomeriggio del 19 marzo. Nel commiato egli lasciò non so che bagliore su la mia soglia, come se dalla predestinazione fosse già fatto divino.

Non calò egli sopra il candore dei marmi regali, in una sera calda di Agra; ma nella solitudine della neve perpetua, in un mattino di tormenta. Visse due lunghi giorni con sé, col suo sacrifizio e col suo coraggio. Per due giorni fu più che umano, prima di farsi divino in eterno. Poi si addormentò col capo sul braccio, come si sarebbe addormentato accanto a me, in un vespro di bragia, presso Giaipur la Rosea o presso Benares la Santa, all’ombra dell’insegna di San Marco dipinta su la nostra fusoliera ormeggiata in un campo color di gruogo sparso di corvi nerazzurri.

Il suo ultimo pensiero fu per la madre che lo portò, degna di portarlo. Ma sono certo che il penultimo fu per me, e che di me pensò: «Egli andrà, proseguirà. Questa è la prima tappa

Per lui, come per ogni spirito eroico, «il sogno è fratello dell’atto» e anche la morte non è se non un atto creatore, il più misterioso e virtuoso degli atti creatori.

Quando nel meriggio d’agosto atterrammo sul campo di San Pelagio tornando da Vienna, e non c’eravamo ancóra liberati dei nostri calzari e dei nostri camauri, il Capo ci domandò nella prima commozione: «Che cosa possiamo fare per voi?» Pronti rispondemmo, con un solo cuore: «Mandarci a Berlino

Se domandassimo al suo spirito presente: «Che cosa possiamo noi fare per te?» egli risponderebbe: «Andare alla mèta che mi fu proposta e promessa

Andremo.

Egli era una volontà di vittoria. La sua carne non era stata messa al mondo se non per servire una volontà di vittoria. E quel che di lui non è morto, quel che di lui non poteva morire, e non potrà mai morire, è la volontà di vittoria.

Egli divenne un piccolo cadavere livido nel lenzuolo di neve; ma in tutta l’Alpe non v’era picco che fosse acuminato ed eccelso come la sua volontà di vittoria. E in tutta l’Italia non v’era luogo che fosse tanto spiritualmente italiano quanto quel poco di suolo apparito di sotto la neve sciolta dall’ultimo calore del suo piccolo corpo e secondo la forma esatta del suo piccolo corpo.

L’alpigiano che lo trovò e lo palpò, disse in sé: «È morto.» Ma il compagno che primo si chinò su la sua faccia immobile, disse in sé: «Ha vinto

Se, com’egli divenne un piccolo cadavere livido, io mi riducessi un mucchio di carboni e di scorie in una valletta della Mesopotamia o su la riva sinistra del Gange un rimasuglio di rogo tra i roghi, prima di raggiungere la mèta prefissa, io avrei vinto; perché altri ineluttabilmente porterebbe più oltre la mia volontà di vittoria. E in tutta l’Italia non vi sarebbe sepolcro che fosse tanto italiano quanto quel mucchio solingo.

E dico che questa fede mia e di pochi, o di molti, è infinitamente più forte di tutte le dottrine radicate nel ventre e di tutte le menzogne radicate nella viltà. Per ciò non può non vincere.

L’Ala liberata d’Italia si leva contro tutte le potenze avverse allo spirito. Per ciò la salute è in essa.

Fu già detto come l’ombra della macchina alata sia simile all’ombra del legno di sacrifizio e di salvazione.

Le sue doppie ali traverse, fra la prua e i timoni, formano la croce cruenta. E v’è un canto dei morti, v’è un canto degli immortali, che la confessano. Tutti i nostri martiri si levano gridando: Credo. Ecco che il grido si ripercuote da questo romanissimo campo in tutti i campi d’Italia.

O amore d’Italia, o amore di terra lontana, andremo, tenteremo, oseremo. Nulla via invia. Fu la parola della Comina, compagni. Era scritta su la mia prua liscia. Ve ne ricordate? È oggi la parola di Centocelle.

Quando i tre Polo, i «tre Latini», si partirono da Acri pel maraviglioso viaggio, recavano un’ampolla d’olio del Santo Sepolcro, considerato dai divoti e dai convertiti come tutela contro ogni periglio e come rimedio contro ogni male.

Così potessimo noi portare un’ampolla di sangue dei nostri martiri, che ci riscaldasse nel gelo, che c’illuminasse nel buio e nel dubbio, che ci sanasse da ogni pensiero impuro, che ci rinnovasse in ogni ora il coraggio, che c’inspirasse in ogni ora il sacrifizio, che ci preparasse in ogni ora a ben morire, che in ogni alba c’infondesse una nuova speranza, che ogni sera evocasse sul nostro patimento e su la nostra stanchezza di figli fragili il soffio divino dell’Italia eterna!



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