Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Ai piloti della «Serenissima»

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Ai piloti della «Serenissima»

[ix agosto mcmxviii – ix agosto mcmxix]

Oggi è il primo anniversario del nostro volo su Vienna. Vi raggiungano il ricordo e il saluto del vostro Comandante in quel triste campo di Aiello che fu tante volte la sua sosta di fortuna tra l’Ermada e la Comina.

Vi sono oggi Italiani a cui un tal ricordo è importuno, come ogni altro ricordo di vittoria. Non si rinnova il fremito d’orgoglio che in quel meriggio d’agosto percorse tutta la Nazione ansiosa. Si può pensare che a Vienna la memoria sia più vivace, e che gli occhi cerchino nel dubbio cielo bolcèvico il fantasma dello stormo ammonitore e gli orecchi riodano il rombo della sentenza di morte.

Avevamo ammonito il nemico:

«Il destino si volge. Si volge verso noi con una certezza di ferro.» Nel 9 di agosto era già la certezza del 4 novembre. La maturità del nostro autunno era già nello splendore della nostra estate. Il nostro miracolo del Solstizio pareva che avesse tessuto di raggi impenetrabili le nostre ali.

Un anno è trascorso. E il ferro è tuttavia bollente, e il maglio del destino lo batte tuttavia su l’incudine; e non v’è una mano maschia che alfine lo tuffi nell’acqua dell’Adriatico senza tema dello stridore.

Ma noi, se stamani dovessimo ripartire, con che forza gitteremmo il nostro grido! L’udrebbe Natale Palli nella sua sepoltura del Monferrato. L’udrebbe Gino Allegri che dorme laggiù in braccio alla grazia dei Colli Euganei «con quella foglia d’erba mattutina nella commessura della bocca verace». L’udrebbe Antonio Locatelli che ci appare solitario nel cielo delle Ande come quei due sotterra, e forse più, aquila trasformata in condòre.

Ecco che sùbito lo stormo sarebbe ricomposto: Palli, Allegri, Locatelli, Finzi, Massoni, Censi, Granzarolo, Sarti. Sopra la foce del Piave eravamo otto. Prima della mèta, l’ottava stella si consumava come una delle lacrime di fuoco che risolcano l’aria in queste notti di San Lorenzo. Anche una volta il numero settenario della nostra costellazione fatale doveva prevalere.

Siamo tristi come quando portavamo su le spalle la cassa di Fra Ginepro, che poco pesava; e molto più dei suoi resti pesavano i miei fiori. Siamo tristi come quando guardavamo la madre di Natale Palli girare selvaggiamente intorno alla cassa del figlio suggellata e tentare di scoperchiarla con le unghie che le si rompevano.

Chi ci renderà l’ebrezza chiusa delle nostre vigilie? Lo schianto che avemmo in quei due funerali, davanti a quelle due fosse, oggi si rinnovella. Il rimpianto si aggrava. Chi di noi, compagni, non rimpiange le notti e le albe che precedettero il «folle volo»? Veramente la vita era assottigliata come la fusoliera che ha tutte le sue linee disposte a secondare la penetrazione celere nella resistenza dell’aria. La medesima volontà ci affilava e ci aguzzava contro la fortuna, parendo affilare e aguzzare non soltanto gli spiriti ma gli aspetti.

«Li miei compagni fec’io sì acuti…»

Non eravamo noi più acuti che i rematori nel legno di Ulisse? Né la più severa macerazione monastica avrebbe potuto eguagliare quella disciplina libera che aboliva in noi ogni pensiero estraneo. Il grande ricovero di San Pelagio, con i suoi tramezzi di stuoia e con le sue travature nude, pareva ordinato dalla regola d’un convento guerriero.

Quando risonerò io per voi, fratelli, e per tutti, il Mattutino?

Le parole che io dissi a cinque di voi, in un angolo del ricovero, radunati dietro la stuoia di giunchi sospesa «non dissimile a quella dove si giaceva il penitente nella Tebaide», le parole del giuramento mi tornano a bruciare l’anima.

Ve ne ricordate? Io me ne ricordo. Voglio ricordarle oggi a chi mi ama. È la migliore delle mie orazioni di guerra e di pace.

«Ascoltatemi. Sarò brevissimo. Ieri mattina, sopra le linee nemiche, fui costretto a virare, a dare il segnale del ritorno e a ridiscendere nel campo, per la vostra scarsa disciplina di volo. Avevo raccomandato allo stormo la massima compattezza, come condizione di salute e di vittoria; e voi vi siete dispersi, quasi che andaste a diporto. Se non v’ebbi in pugno col comando, vi avrò in pugno col giuramento. Voi cinque vi giurerete a me, su l’anima e su l’onore.

Mi è stato ordinato di partire con una squadriglia di undici. Mi è stato ordinato di non proseguire se nella rotta la squadriglia si riduca a meno di cinque.

Voi dunque siete i miei cinque, giurati a mantenere tra la mia ala e la vostra, sino alla mèta, la distanza prefissa, l’ordinanza prefissa. Nessuno di voi si arresterà se non con l’ultimo battito del motore. Non vento, non nuvolo, non tempesta, non malessere, non ostilità alcuna, non avversità alcuna potrà essere causa di arresto o di ritorno. Parlo chiaro?

Mi intendete? Ciascuno di voi atterrerà, o precipiterà, quando il motore abbia cessato di battere senza speranza di ripresa.

Se fallisce anche questa partenza, non ci sarà più permesso di partire. Tanti giorni, tante notti di spasimo saranno stati vani. Tutto sarà perduto. L’ordine del Capo è irrevocabile.

Se non arriverò su Vienna, io non tornerò indietro. Se non arriverete su Vienna, voi non tornerete indietro.

Questo è il mio comando. Questo è il vostro giuramento.

Natale Palli, Antonio Locatelli, Gino Allegri, Aldo Finzi, Piero Massoni: ciascuno di voi cinque mi guardi negli occhi e mi dia la mano.

Bene. È detto. È fatto.

I motori sono in moto. Bisogna andare.

Ma io vi assicuro che arriveremo. Anche attraverso l’inferno.

Alalà!»

Partimmo. Arrivammo. Tornammo. La nostra prua, ferrata di volontà, aveva la potenza del cuneo. Avrebbe scisso la roccia, come fendeva la nuvola.

Tre volte il mio motore si arrestò, nel ritorno: su Lubiana, su la selva di Ternova, su Grado. Lo sapete. Tre volte ebbi nella mano il rimedio di tutti i mali. Tre volte, a me che lo salutavo silenziosamente attraverso lo schermo, i puri occhi di Natale Palli dissero: «Aspetta.» E tre volte il motore riprese.

Che cosa mai, nel mondo, vale quello sguardo pacato e forte fra due compagni fedeli, a tremila metri sopra la terra?

Che importa se, come in quel punto del cielo ostile, oggi io sono solo con la fede nel mio volere?

Compagni, sul campo arido di Aiello, nella vertigine deserta delle Ande, nell’ombra dei Colli Euganei, nella sepoltura del Monferrato, ricordatevene. Avrà ragione chi non fu mai stanco e non sarà mai stanco.

La vera Italia è bella, e merita la suprema devozione.


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