Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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Italia o morte

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Italia o morte

[ix settembre mcmxix]

Bisogna riconoscere agli Italiani una lesta facilità di sbarazzarsi dell’eroismo vivente, che è incomodo e importuno, imbalsamandolo in frasi storiche da custodire negli archivi o da riporre nelle epitomi, così come oggi lestamente essi affettano e trinciano e minuzzano la vittoria e la rimescolano e rimpasticciano con avanzi innominabili e ne fanno un lungo beverone da sagginare i porci.

Or è poche settimane, Fiume pareva lo spasimo d’Italia come l’Italia era lo spasimo di Fiume. Per la Pentecoste, che è la festa dello Spirito e della Fiamma, credemmo ingenuamente di celebrare il giorno della Città Olocausta per «tutti gli Italiani di qualunque credenza». Alludendo alla parola del vangelo di Giovanni, un interprete scrisse: «Fiume oggi soffia nel viso di tutti noi Italiani, ci avvampa il viso col suo soffio; e ci dice: Ricevete lo Spirito, ricevete la Fiamma.» Or è tre mesi appena.

Al soffio divino non risponde oggi se non il rutto sconcio. Tutta la nazione è soddisfatta d’aver digerito il suo pasto cotidiano, e non pensa se non a quello di domani e di doman l’altro. Il salmista lucano, che infiora di citazioni peregrine i suoi componimenti esortativi all’unione ventrale e alla concordia escrementale, può parafrasare il salmista ebraico: «D’adipe e di grassezza sia ripiena l’anima mia come la vostra.»

Non c’è neppur bisogno della prudente cera d’Ulisse per turarsi le orecchie contro le strazianti sirene del Carnaro. Basta l’adipe.

Il famoso «grido di dolore», che giungeva al cuore del secondo Emanuele, non turba l’Italia del terzo intenta a consumare coi cadetti americani in conviti propiziatorii i viveri mal concessi e a imitare diligentemente il sorriso meccanico del despota quacquero ascoltando il buon colonnello pedagogo che rimastica i suoi primi studii geografici per dirci come l’Italia gli sia sempre apparsa «in forma di un piccolo stivale pieno zeppo di antichità».

Orgoglio latino, alza tre volte il bicchiere in onore della gente che alfine riesce ad esercitare la polizia punitiva in Fiume d’Italia alternando col coriaceo «detective» inglese i suoi rigori.

Si grida tuttavia «Italia o morte» laggiù?

È un grido storico che il colonnello West mette con le altre antichità nel «piccolo stivale» della sua geografia puerile. Agli Italiani enfii del beverone di Caporetto deve sembrar più remoto e più fioco della sentenza scritta con l’indice intinto nel sangue nero dal fuoruscito fiorentino di Montemurlo. Deve sembrar più leggendario delle tre parole che la mano invisibile tracciò sul muro del convito di Balthazar mentre il nemico penetrava in Babilonia.

Il nemico è penetrato nell’intima carne d’Italia; perché l’Italia non è in quelli che di lei vivono trafficandola e falsandola senza pudore ma in quelli che per lei sola vivono e per lei sola patiscono e per lei sola sono pronti a morire.

«L’Italia conosce la fame, non conosce il disonore» disse il ciarlone che nella immunità di Vallombrosa restaura oggi le sue forze compromesse dalle troppe salivazioni e lacrimazioni intempestive, mentre a lui colpevole di grazianeria (gli Italiani capiscono ancóra l’italiano, almeno quello dei bisticci?) converrebbe fosse applicata la ragion sommaria del generale Graziani punitore encomiabile.

«L’Italia, se non conosce la fame, conosce il disonore» chiosa un altro parolaio senza lacrime, imprimendo l’estremo sussulto dell’applauso all’assemblea moribonda che perisce di coprofagia col muso nel trògolo dell’Inchiesta.

Sì, l’Italia oggi conosce il disonore, e senza rossore, senza rivolta. Fisa al ventre cinico ed emblematico di chi la sbigottisce e la inganna, di chi la moralizza e la corrompe, di chi la esorta e la spossa, l’Italia non pur si volge al grido filiale che dal fondo del Carnaro le ricorda una promessa d’amore e d’onore, un patto d’amore e d’onore, un pegno giurato e inviolabile. Non ode una voce viva, ma vede dileguarsi nei vani vènti i fogli volanti in cui sono impresse le tre parole vane e confondersi con quelli che vantano i prodotti alimentari e le vernici lustre. Il giuramento sanguinoso non è più se non un cartellino gualcito e scolorito che il buon borghese regnicolo fisserà con uno spillo, tra la scheggetta di granata e il sassolino del Grappa, nel suo museo domestico di guerra.

Furit ardor edendi. La nazione fa i suoi pasti: non cinque, come i nuovi poliziotti inglesi di Fiume, ma almeno tre. La consueta gozzoviglia domenicale non può essere soppressa. Il trinciante mariuolo, come lo chiamerebbe il Redi, ammonisce ogni giorno con un risolino terribile ma paterno, allungando ogni giorno d’un punto la sua cintura nella fibbia lucida: «Se oggi non ti prosternerai, domani non manducherai. Se oggi non ti calerai le brache, domani ti s’aggrinzeranno intorno alla tua consunzione certa.» Il coro docile risponde: «Dove si manduca, il tuo senno ci conduca.» E pare musica postuma dell’elefantesco autore di quel melodramma nazionale che s’intitola I pagliacci.

Ma c’è chi, per questo popolo onnivoro condotto dal più furbo degli scalchi, c’è chi s’è tolto il pane di bocca, c’è chi ancóra si toglie il tozzo di tra i denti.

Ieri un povero ragazzo fiumano, che suo padre m’aveva condotto, l’ho udito singhiozzare nel raccontarmi quel che avevano fatto i suoi compagni, durante gli anni della guerra disperata.

Pativano la fame, per sfamare i prigionieri. Ogni giorno rinunziavano alla loro scarsa razione di pane, alla loro misera fetta di polenta, per sfamare i grandi fratelli infelici. Pigliavano bastonate e scapaccioni dalle sentinelle, ma non si sgomentavano; e nascondevano sul loro piccolo cuore fedele, come reliquie sante, come amuleti miracolosi, le stelline di metallo a loro offerte dai beneficati.

Un’ordinanza della polizia ungherese stabiliva seicento corone di multa, cinque anni di carcere duro e la perdita dei diritti civili per chiunque desse ospitalità o in qualsiasi modo soccorresse un prigioniero italiano. Dopo la rotta di Caporetto, ogni giorno una mandra fangosa e ansante di vinti attraversava la città, cacciata innanzi col pungolo della baionetta e col calcio del fucile dalla sbirraglia croata. I cittadini piangevano, bevevano le lacrime in silenzio; e si struggevano di aiutare i fratelli scalzi, laceri, seminudi, divorati dalla febbre e dalla fame, vivi soltanto negli occhi supplichevoli.

I prigionieri marcivano chiusi in un recinto, davanti all’Accademia; e dall’Accademia i marinai austriaci vigilando avvertivano sùbito le sentinelle se mai un cittadino tentasse di portar qualche aiuto. Ogni tentativo diretto essendo fallito, stormi di bimbi scalzi andavano allora incontro alle donne del soccorso, si empivano d’involti le tasche e le camicie; poi, balzando sul tranvai in corsa, li lanciavano di dal reticolato e dalla ringhiera. Una volta un pezzo di pane bianco urtò contro la sommità del reticolato e rimbalzò fuori. Un bimbo ardito lo raccolse e riuscì a metterlo sul muricciuolo fra le sbarre della ringhiera. La sentinella bosniaca non lo tolse; ma con una verga sferzava a sangue la faccia e le mani di ogni uomo che tentasse di afferrarlo. Con un prodigio di destrezza il bimbo riuscì a giungerlo e a spingerlo di dal muro. Con gli occhi raggianti di felicità e di lacrime, ritrasse le dita che gli sanguinavano e scosse le gocciole al sole.

La sera, dal recinto dell’Accademia i prigionieri si trasferivano alle baracche del sonno e dell’insonnio. Durante il cammino, profittando dell’ombra, i più sofferenti erano tratti dalle file e condotti dentro le porte e confortati con minestre calde e con altri ristori. Nessun rischio sconfidava quell’ardore di carità.

Gli infelici passavano la notte sotto una tettoia, in un cortile della Pilatura di riso, posto tra una casa e un muro di cinta. Alcune bambine studiarono il modo segreto di giungere fino ai prigionieri. Guadarono una gora profonda di dalla quale era un porcile addossato al muro. Si arrampicarono non viste, riescirono a togliere una pietra. E nel buco praticato ponevano gli involti, attente al segnale che dalla casa annunziava l’allontanarsi della sentinella croata.

Centinaia di famiglie, incuranti della pena, raccolsero nelle loro case i fuggiaschi. Li tennero nascosti nell’ansia e nella pazienza di mesi e di anni. Per nutrirli, soffersero moltiplicate le privazioni della loro povertà. Per alleviarne la tristezza e il tedio, permisero che essi si abbandonassero a imprudenze che potevano costare agli ospiti la libertà e la vita.

Uno dei prigionieri, un seminarista fante, sentendosi molto ammalato e in punto di spegnersi, trovò tuttavia la forza di fuggire. Sfinito, stramazzò dinanzi a una porta, sul lastrico. Raccolto da una famiglia di operai, fu messo a letto. Un medico pietoso, chiamato di nascosto, lo riconobbe infermo di tifo. Allora il suo rifugio per tutti i vicini, per tutti i popolani del quartiere, divenne un focolare segreto di carità patria. Ciascuno febbricitava per l’infermo, si consumava per l’infermo, vegliava per l’infermo, palpitava per lui, tremava per lui. Nel polso del giovine ricoverato batteva la passione d’Italia.

Come lui tanti altri furono celati, provveduti di tutto da chi aveva bisogno di tutto, accompagnati di giorno e di notte da una casa all’altra, col rischio urgente, da una famiglia all’altra, per sviare le ricerche della polizia di confine. I più poveri gareggiavano di liberalità e di coraggio coi men poveri. Una lavoratrice levava il pane di bocca ai suoi figliuoli e metteva insieme a stento la corona con cui corrompeva ogni sera il soldato austriaco perché portasse qualcosa da mangiare a tre prigionieri che scaricavano il carbone al Molo lungo. I tre un mattino furono avvertiti che dovevano partire per l’Albania a morire di malaria e d’inedia. Scamparono, e si rifugiarono nella casa della donna che li nascose nella soffitta mentre gli sbirri li cercavano di soglia in soglia. Come l’ospite, carica di figliuoli, non poteva più sostentarli, e come tutto il quartiere era povero, essi furono nutriti a vicenda ora da una famiglia ora da un’altra; ma la prima soccorritrice volle sempre averne uno, e le sue creature erano contente della minestra scarsa. Te ne ricordi, Annibale Tiberti della mia Aquila d’Abruzzi?

Questo Tiberti era così malato di scoramento, così accasciato e smorto, che il medico (un vero dottor serafico per nome Garofolo, guaritore affettuoso di tutti i prigionieri venuti in salvo) gli consigliò di passeggiare al sole lungo la riva perché non intristisse ancor di più e non finisse di languore. La donna lo accompagnava sempre, contenendo il palpito a ogni incontro. Ogni volta prima di uscire col fratello pallido, prima di compiere quell’atto di pietà, s’accomiatava dai figli perché sapeva che avrebbe potuto esser còlta dalle guardie e non più ritornare. Te ne ricordi, fratello d’Abruzzi? Ella diceva ogni volta: «Non importa. Sarò fiera di andare in prigione per questo.» Ti ricordi del suo nome? Si chiamava Amelia Martinato Zanghi l’eroina oscura.

Cento nomi, mille nomi come questi risplendono nella memoria dei beneficati, dei salvati. O anche i loro cuori si sono oggi induriti? o anch’essi oggi sono infedeli alla fedele? anch’essi oggi la rinnegano, prima che il gallo di Francia canti per la terza volta il roco mattutino jugoslavo?

Un giovine di nome Vincenzo Giusti, addetto all’ospedale militare di Fiume, non aveva se non un pensiero, non aveva se non una cura, una passione, una divozione: aiutare i prigionieri, far qualche bene ai fratelli italiani, consolare la sua gente sciagurata.

Venuto in sospetto, fu rimosso dall’officio e spedito alla fronte. Essendo riuscito a disertare, restò undici mesi nascosto. Poi, munito di documenti falsi, ritornò a Fiume per continuare l’opera pia. Ritrovò i compagni di fede e di fervore, coi quali pur nella lontananza aveva comunicato fornendo notizie, dando e ricevendo coraggio e speranza.

Era giunto in città dopo la rotta. Nell’autunno sinistro, le lamentevoli mandre umane traversavano le vie, sostavano, ripartivano: cenciosa agonia trascinata da piedi gonfii, accompagnata da una sete e da una fame che succhiavano la mota e la selce. Una sera, fatto il buio, si presentò al suo ospedale dove la sua gente moriva di stanchezza e di digiuno. Aveva seco un sacco di viveri e un rotolo di lane.

L’ospedale era vigilato con estremo rigore, guardato da più cerchie di sentinelle, percorso da ronde frequenti. Sagace quanto audace, deliberato di affrontare ogni pericolo e di morire per l’Italia non avendo voluto morire contro l’Italia, superò la prima sentinella; penetrò nella corte, si appiattò nella prossima cucina, e stette in agguato per cogliere il momento favorevole a intromettersi nell’andito che correva lungo la corte e a raggiungere la corsìa dove erano ricoverati i prigionieri. Trattenendo il respiro, smorzando il passo, soffocando il cuore, profittando di ogni ombra e di ogni nascondiglio, giunse a poche braccia dalla soglia; quando udì la voce che annunziava alla corsìa l’ispezione del medico croato. Si tenne perduto, ma non perdette né l’ardire né l’ardore. Sùbito entrò come un soffio del vento d’Italia; gettò ai fratelli il sacco e il rotolo; strinse qualcuno fra le sue braccia. E tutto il silenzio spasimoso ch’egli aveva divorato nell’attesa e nell’approccio riscoppiò in questa sola parola, sommessa come una preghiera, alta come una invocazione: «Ricordatevene, fratelli. Fiume è italiana

Poté fuggire, poté salvarsi. Poté ritornare dieci volte, cento volte, di sopra ai muri, su per le finestre, giù per le cappe dei camini, con miracoli di amore. Ogni volta ripeteva: «Ricordatevene. Fiume è italiana

Gli assiderati si riscaldavano, gli affamati si sfamavano. Tutti erano consolati dalla generosità di un solo.

Oggi tutti sono collegati a tradire e a punire la generosità di una sola. Quella fame, che fu sfamata dalla povertà eroica, oggi si drizza contro lei come un arnese iniquo di asservimento e di estorsione.

Edendi insatiatus amor dice il latino di Roma. Moriendi insatiatus amor dice il latino del Carnaro dantesco.

Ma, come nei giorni di Caporetto, morire non basta.

Se morire è cessare di combattere, non si può morire.



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