Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il sudore di sangue
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«Non abbiamo sofferto abbastanza»

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«Non abbiamo sofferto abbastanza»

[xi settembre mcmxix]

Per l’Italia di qua dal mare i morti sono morti, l’ossame è ossame. Ce ne sono tuttora di insepolti nell’Alpe, a centinaia; e sappiamo i nomi dei luoghi deserti. Le domande d’un tempo atroci possono essere iterate; le visioni lugubri possono essere risollevate nella memoria. C’è tuttora in quella fòiba del Carso, di dal Vallone del Sangue, laggiù, verso Nova Villa, quello scheletro scoperto dalla frana, lavato dalla bufera, rimasto in piedi contro il terriccio rosso, con i buchi del teschio rivolti contro il nemico? C’è tuttora, , presso l’Osservatorio delle Bombarde, a ponente del Veliki, in quello scheggione d’inferno, quel braccio levato fuori dei sassi, col pugno chiuso, tutto un seccume tenace di cartilagini, di tendini e di ossi, rivolto contro il nemico?

Ma non bastano due occhiaie, non basta un pugno. Il nemico è oggi da per tutto: davanti, dietro, a destra, a manca. I morti, per difendersi, fanno il cerchio e il quadrato, in mezzo alla nazione.

Nella terra di San Vito i nostri morti sono sicuri. Nella terra della passione i nostri morti sono in pace. Se i vivi temono, essi non temono. Se i vivi dubitano, essi non dubitano. Sono sepolti nella pura fede, nella fede profonda.

L’arcivescovo Ubaldo, a Pisa, fece trasportare dalle cinquantatre galere la terra del Calvario per empirne il suo Camposanto. Nel giro di un sol giorno aveva essa la virtù di consumare il corpo sepolto e di ridurlo in candide ossa. Le ossa splendevano in occulto come le radici dell’albero eternale.

Verrà un giorno che le madri degli eroi, le sorelle degli eroi, le donne degli eroi trasporteranno la terra di Fiume per magnificarne le fosse. Ci sarà un console del popolo che rinnoverà l’atto religioso dell’arcivescovo pisano. Ci saranno uomini liberi che con un grano di quella terra si comunicheranno, inginocchiati come Andrea Bafile su la riva sinistra del Piave, prima d’intraprendere la loro battaglia, cruenta o incruenta.

Non dirò se non un solo gesto sublime: quello della donna che, disprezzando la sua vita, volle rischiarla per un attimo d’estasi nel guardare la faccia del primo eroe italiano caduto dal cielo della città.

Nel principio d’agosto del 1916 apparve sopra il porto una squadriglia da bombardamento nostra. Tutti i cuori balzarono al rombo, come se si approssimasse l’Italia, come se l’aria a un tratto diventasse tricolore. Contro gli ordini aspri del Comando austriaco, in onta alle repressioni brutali, tutte le vie e tutte le piazze si riempirono d’un fervore incoercibile. La città fu una sola faccia levata, un solo sguardo appassionato, un’ansia sola, un solo anelito, mentre le batterie tonavano e l’azzurro si lacerava di scoppio in scoppio.

Ma il grido dei petti superò ogni tuono, ogni stridore. Uno degli apparecchi, colpito, precipitava al suolo. Dallo schianto e dal mucchio balzarono due combattenti illesi. Impigliato nei rottami un corpo sanguinoso restava immobile; e della tela, del metallo, del legno faceva una sola cosa umana, un solo strazio umano, come se tutto fosse scheletro e carne della Patria, essenza e sangue della Patria.

Il popolo s’inginocchiò, e pianse. Silenziosamente ricevette su le sue braccia quella salma, la prese sul suo cuore, la chiuse nella sua anima come nell’arca della fedeltà, ne fece un altro altare della sua preghiera.

Dagli sbirri ungheri il cadavere del tenente Caparello fu deposto nella camera mortuaria del cimitero. Sul far della sera, una donna fiumana – che soleva portar fiori alla tomba del suo figliuoloattese il buio per tentar di penetrare nel luogo dove giaceva il giovine pilota. Riuscì. Non temette di scoperchiare la cassa per conoscere il viso eroico del suo fratello d’Italia. Lo baciò, lo rimirò, lo sparse di fiori; bagnò il fazzoletto nel sangue che stillava da un fóro del capo. Lo ricoperse.

La mattina dopo, i seppellitori profani, riaperta la cassa, videro con meraviglia il corpo fiorito. Quando l’ebbero sotterrato, la sepoltura sùbito si fiorì come la bara. Per impedire l’offerta gloriosa, la polizia mise a guardia del sepolcro due dei suoi sgherri più occhiuti. Non valse. Le donne fiumane per un anno, per due anni, fecero a gara nello sfidare il rischio, in qualunque ora, con qualunque tempo. Sempre l’eroe d’Italia ebbe fiori e fronde, in fasci, in ghirlande. La tomba del primo caduto fu venerata come il tabernacolo della promissione. Ogni madre fiumana v’andò pellegrina e vi s’inchinò credente. Coronò in quel morto i cinquecentomila morti della guerra nostra, i cinquecentomila morti della nostra guerra santa, i cinquecentomila figli della più grande Italia.

E la donna, che prima e sola aveva contemplato il caro viso, fu avvolta d’onore e d’amore come una Veronica dal sudario non effigiato.

Quale è il suo nome? Se dianzi ho scritto il nome d’una misericordiosa, d’una consolatrice d’infermi, d’una donatrice di sole, di una creatura umile che donava il sole come aveva donato il pane tolto alla sua povertà nascosta, l’ho scritto per ispirazione di mia madre, l’ho scritto per volontà di mia madre che mi vigila di laggiù, dalla mia terra natale, dalla terra natale di quel beneficato. Ho espresso così la gratitudine della mia gente, che s’affatica tra l’Adriatico e l’Appennino.

Ma il nome di tutte le donne fiumane è Ardenza; ma il nome di tutte le donne fiumane è Pazienza. Non mai il «pazientissimo ardore» dei Santi Padri fu testimoniato con una vigoria così maschia. Non mai, nella storia delle grandi lotte civiche, le ispiratrici e le sostenitrici rivelarono uno spirito così potente. Le donne di Aquileia facevano delle loro trecce corde per gli archi, nella resistenza estrema. Le donne di Messina portavano in grembo la calce il mattone la pietra, portavano a spalla le tavole le fascine i barili, per riparare la breccia. Le donne di Fiume tendono senza fine l’arco dello sforzo, a furia di anima. La muraglia dell’italianità la sostengono e rincalzano a furia d’anima. L’arco dice: «O spezzar o giungere.» La muraglia dice: «Né per tremuoto né per sostegno manco.» È linguaggio dantesco, idioma del Carnaro. È fierezza comunale.

È bello che l’antica libertà comunale si ristampi, di generazione in generazione, nella matrice eroica. La risposta cruda di Caterina Sforza, dall’alto della torre romagnola, è appropriata a questo coraggio feroce. «Qui n’ho il conio

I figli sono stampati a simiglianza delle madri, come abbiamo veduto. Hanno bevuto un latte così forte che possono resistere lungamente al digiuno e al disagio. Pare che la mammella materna li sostenga anche quando è inaridita: la sinistra sotto cui batte il cuore infaticabile.

Quella vedova poverella, che tuttora vive coi suoi piccoli in una delle case popolari presso il Silurificio, la cercheremo, la ritroveremo, per baciarle le mani. È ammalata, poco può lavorare, vive a stento; ha i figli gracili perché mal nutriti. E una mattina di novembre del 1917 ode picchiare all’uscio di casa. Apre; e le appare un prigioniero italiano, esausto logoro scalzo intirizzito, che le chiede ricovero e ristoro per sé e pel suo compagno disteso fuori, davanti alla soglia, morente di fame e di freddo. Non esita. I piccoli sono radunati intorno alla tavola per ricevere un poco di caffè nero e di pane nero. Ella dice: «Figliuoli, siamo poveri, ma qui ci sono due più poveri di noi. Volete che li aiutiamo con questo poco che abbiamo? Offriamo questo fioretto all’Italia nostra. Sì?» I piccoli consentono, rinunziano quel che hanno, accettano il digiuno. Più che della carne sono i figli dello spirito. Non vivono di solo pane; vivono di fervore.

Come nel Comune sciolto dalla servitù feudale alcuna donna sonava a stormo la campana del palagio, tre donne furono le prime – quando l’esercito sconfitto non aveva ancóra ripassato il Tagliamento – furono le prime a issare il tricolore in cima della torre civica. Su le nostre bandiere s’inginocchiarono tutte, rimasero tutte carponi, con qualcosa di umile e di fiero, con qualcosa di gentile e di selvaggio, nell’alba nefasta in cui fu consumato contro la loro fede il tradimento di Roma.

Gli Italiani hanno occhi da logorare su le pagine del vituperio, hanno buoni occhi per scorrere le liste dei renitenti ostinati, dei disertori ostinati, dei traditori ostinati che la grazia sovrana riscatta al disonore della patria; ottimi occhi hanno per leggere le lunghe omelìe ambigue di quel salvatore obeso che ha ridotto la patria un «corpo vile» su cui esperimenta i suoi falsi miracoli. Hanno gli occhi della carne, induriti come i precordii. Non hanno gli occhi divini dell’anima per vedere in perpetuo le creature della città ingannata, le creature della città abbandonata – quelle che della loro fame sfamarono gli affamati d’Italiadistese sopra le bandiere o abbrancate alle ruote delle carrette per impedire l’inganno, per scongiurare l’abbandono, per essere calpestate e schiacciate dalle calcagna fraterne sopra il segno della loro fedeltà.

Non importa. Stroncata dal dolore, bruciata dalle lacrime, una di loro ha detto umilmente: «Non abbiamo sofferto abbastanza.» E s’è preparata a più patire.

Quale è la gerarchia sovrana degli Angeli? Quella solamente può raccogliere una tal parola e recarla al cospetto del Santo dei Santi. Noi non ne siamo degni.

L’Italia grande non è più di qua dal mare. Che è l’uomo senza orgoglio? Che è, senza orgoglio, la nazione? L’Italia grande è di dal mare, dove i pochi la difenderanno, dove quelli del maggio 1915 la ricondurranno alla vittoria dolorosa.

Chi si ricorda di quel maggio lontano, se non per esecrarlo? Chi si ricorda del maggio recente, se non per rinnegarlo?

Le donne di Fiume prostrate su le bandiere distese non rammentano a nessuno un’altra bandiera distesa? non rammentano a nessuno una promessa e un giuramento?

In quella sera di maggio qualcuno disse alla ringhiera del Campidoglio: «Anche una volta è sospesa nell’ignoto l’anima della nazione, che nella durezza della solitudine aveva ritrovato tutta la sua disciplina e tutta la sua forza. Attendiamo in silenzio, ma in piedi. Nell’attesa la parola d’ordine è questa: “Ricordarsi e diffidare; diffidare di tutti, confidare in noi stessi; ma, sopra tutto, ricordarsi ricordarsi ricordarsi.”»

La vasta bandiera del Timavo, la bandiera del fante, fu spiegata alla ringhiera e battezzata nell’acqua capitolina, ché il lembo del rosso giunse a bagnarsi nella tazza della fontana sottostante. Tutto il popolo gridò al presagio.

La stessa voce disse: «L’imagine sublime del fante, che vi poggiò la testa, v’è rimasta effigiata; ed è l’imagine di tutti i morti perché tutti quelli che sono morti per la Patria e nella Patria si somigliano. È il sudario del sacrifizio

Nella visione dell’anima le donne di Fiume v’erano già inginocchiate, e singhiozzavano.

La voce soggiunse: «Io, perché l’aspettazione sia votiva e il raccoglimento sia vigile e il giuramento sia fedele, voglio abbrunare la mia bandiera finché Fiume non sia nostra.»

Una lunga banda di crespo nero fu gettata su la bandiera, ma il vento la investì e la sollevò come se volesse distogliere il lutto. E tutto il popolo gridò al presagio.

La voce riprese: «Ogni buon cittadino abbruni in silenzio la sua bandiera finché Fiume non sia nostra.»

Dove sono le bandiere abbrunate? Senza lutto, hanno fatto ombra alle ottuse gozzoviglie dei cadetti americani, misere bandiere di questura, stracci di cotone tinto, rimesse fuori dai nauseabondi ripostigli della gionitteria ereditaria.

Anche la mia, la nostra, è oggi senza lutto. Il crespo nero l’abbiamo arso dove gli sbirri austriaci agguantarono Guglielmo Oberdan e l’atterrarono. Il rosso ha tuttora i segni del torcimento, ché i miei compagni l’attorsero per spremerne l’acqua del battesimo capitolino, prima di riporla nella custodia simile a uno zaino di fante. Il bianco ha qualche macchia di sangue e di sànie. Il verde è pur sempre amico dell’asta più difficile e più robusta.

È una bandiera d’assalto. Roma la consacrò per vóto dichiarato, per promissione solenne, per comando a cui obbedisco.

Sopra non vi piangeranno le donne di Fiume. Noi la daremo al vento del Carnaro e della Libertà.



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