Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il trionfo della morte
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A FRANCESCO PAOLO MICHETTI

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A

FRANCESCO PAOLO MICHETTI

 

Pongo il tuo nome anche in fronte a questo libro che sopra tutti singolarmente tu prediligi, o Cenobiarca: in fronte a questo libro che io ti ho scritto con curiosa lentezza nella sede dell'Arte Severa e del Silenzio.

Poi che l'ultima pagina fu compiuta, tu avesti comune con me quella sùbita ingannevole gioia su cui più tardi il crepuscolo primaverile diffuse un così puro velo di malinconia. E avesti comune con me il rammarico per le già lontane sere quando tu salivi alla mia cella remota e quivi, nella gran quiete conventuale, mentre fumigava entro le tazze la bevanda favorita e parevami si spandesse nell'aria il calore delle nostre intelligenze, io ti leggeva ad alta voce la mia scrittura recente. Era dolce per me quella tregua, e molto aspettata, dopo l'acerba lotta diurna. Il soprano gaudio cui possa oggi aspirare un artefice altero non sta forse nel rivelar l'opera ancor vergine e segreta a colui che è il suo pari, a colui che comprende tutto?

Avevamo più volte insieme ragionato d'un ideal libro di prosa moderno che - essendo vario di suoni e di ritmi come un poema, riunendo nel suo stile le più diverse virtù della parola scritta - armonizzasse tutte le varietà del conoscimento e tutte le varietà del mistero; alternasse le precisioni della scienza alle seduzioni del sogno; sembrasse non imitare ma continuare la Natura; libero dai vincoli della favola, portasse alfine in sé creata con tutti i mezzi dell'arte letteraria la particolar vita - sensuale sentimentale intellettuale - di un essere umano collocato nel centro della vita universa.

Tu ritroverai il riflesso di quella idea (ahimè, troppo pallido forse!) in questa opera quando vorrai considerarla tutta quanta nella sua interezza.

Qui è una sola unica dramatis persona, ed è rappresentata qui - con tutte le potenze dello strumento d'arte concessomi - la sua particolar visione dell'universo; o meglio: perocché l'uomo sia, secondo il verbo del tuo divino parente Leonardo, «modello dello mondo»: è qui rappresentato il suo universo. Il gioco delle azioni e delle reazioni tra la sua sensibilità singola e le cose esteriori è stabilito su una trama precisa di osservazioni dirette. I suoi sentimenti, le sue idee, i suoi gusti, le sue abitudini non variano secondo le vicende di una qualunque avventura svolta di pagina in pagina con l'aiuto di una logica più o meno severa; ma presentano il principal carattere d'ogni vita organica, consistente in un equilibrio definito tra ciò che è variabile e ciò che è stabile, tra le forme costanti e le forme avventizie fugaci illogiche. Una sensazione, un sentimento e un'idea iniziali, apparsi nelle prime pagine, si vanno sviluppando - secondo le leggi che governano i fenomeni - a traverso una selva innumerevole di segni varii che tutti corrispondono in una stessa anima comprensiva e perspicua. Dalla vana acredine di parole esalata sul sedile del Pincio alla feroce lotta notturna sul margine del precipizio, la persona sente pensa e si commuove in un continuo succedersi di stati della sua conscienza sempre vigile. Non v'è qui, in somma, la continuità di una favola bene composta ma v'è la continuità di una esistenza individua manifestantesi nel suo triplice modo per un limitato periodo di tempo.

V'è sopra tutto - se bene io sembro forse ambire che lo sforzo da me tentato, per rendere la vita interna nella sua copia e nella sua diversità, abbia un valore trascendente quello della pura rappresentazione estetica - v'è, sopra tutto, il proposito di fare opera di bellezza e di poesia, prosa plastica e sinfonica, ricca d'imagini e di musiche.

Concorrere efficacemente a constituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna: ecco la mia ambizione più tenace.

La massima parte dei nostri narratori e descrittori non adopera ai suoi bisogni se non poche centinaia di parole comuni, ignorando completamente la più viva e più schietta ricchezza del nostro idioma che qualcuno anche osa accusare di povertà e quasi di goffaggine. Il vocabolario adoperato dai più si compone di vocaboli incerti, inesatti, d'origine impura, trascoloriti, difformati dall'uso volgare che ha loro tolta o mutata la significazion primitiva costringendoli ad esprimere cose diverse e opposte. E questi vocaboli vengono coordinati in periodi quasi sempre eguali, mal connessi fra loro, privi d'ogni ritmo, che non hanno alcuna rispondenza col movimento ideale delle cose di cui vorrebbero dare un'imagine.

La nostra lingua, per contro, è la gioia e la forza dell'artefice laborioso che ne conosce e ne penetra e ne sviscera i tesori lentamente accumulati di secolo in secolo, smossi taluni e rinnovati di continuo, altri scoperti soltanto della prima scorza, altri per tutta la profondità occulti, pieni di meraviglie ancóra ignote che daranno l'ebrezza all'estremo esploratore.

Questa lingua, rampollata dal denso tronco latino con un rigoglio d'innumerevoli virgulti flessibili, non resiste mai ad alcuna volontà di chi abbia vigore e destrezza bastanti a piegarla e ad intesserla pur nelle ghirlande più agili e nei festoni più sinuosi.

Uscendo dalle figure, dico che la lingua italiana non ha nulla da invidiare e nulla da chiedere in prestito ad alcun'altra lingua europea non pur nella rappresentazione di tutto il moderno mondo esteriore ma in quella degli «stati d'animo» più complicati e più rari in cui analista si sia mai compiaciuto da che la scienza della psiche umana è in onore.

E gli psicologi appunto, poiché sembra che i nuovi romanzieri d'Italia inclinino a questa scienza, gli psicologi in ispecie hanno per esporre le loro introversioni un vocabolario d'una ricchezza incomparabile, atto a fermare in una pagina con precisione grafica le più tenui fuggevoli onde del sentimento, del pensiero e fin dell'incoercibile sogno. E, nel tempo medesimo, insieme con questi esattissimi segni, hanno elementi musicali così varii e così efficaci da poter gareggiare con la grande orchestra wagneriana nel suggerire ciò che soltanto la Musica può suggerire all'anima moderna.

Certo, in questi ultimi scrittori non può palesarsi alcuno dei caratteri che distinguono la tradizione novellistica paesana troppo remota e troppo discordante dallo stato presente della conscienza comune. Fra gli antichi novellatori di nostra lingua nessuno, rappresentando gli atti, fu mai curioso dei motivi. Presi negli intrichi delle tristi e liete avventure, essi tutti limitarono il loro officio a creare una vita schiettamente sensuale, lasciando agli uomini di chiostro l'officio di compor trattati su la natura dell'anima.

Se dunque i nuovi psicologi vogliono riallacciarsi ai padri, debbono ricercare gli asceti, i casuisti, i volgarizzatori di sermoni, di omelìe e di soliloquii; debbono comunicare col Frate da Scarperìa, con Bono Giamboni, con Caterina da Siena, con Giordano da Ripalta, col Cavalca, col Passavanti; debbono studiosamente mirarsi negli Specchi di Croce e pensosamente errare nei Giardini di Consolazione e alternare pazientemente la compagnia di Origene con quella di San Bernardo.

Né per trovar esempii di bella prosa musicale debbono essi escire dai buoni secoli. I nostri più grandi artefici della parola ereditarono dall'eloquenza latina lo studio del ritmo. In Roma la musica verbale fu parlata e scritta; prima si dilatò aerea dai rostri, poi si fermò per segni nei libri. Come Marco Tullio Cicerone modulava con bocca quasi canora i suoi periodi per produrre nell'intimo degli ascoltanti un moto veemente, - così Tito Livio nelle Decadi gareggiava di numeri con i poeti per amplificar la grandezza dell'anima romana nei fatti dal suo stile espressi. Entrambi sapevano che le sillabe, oltre il significato ideale, hanno una virtù suggestiva e commotiva ne' loro suoni composti.

Principe nella lingua nuova, il Boccaccio non ignorò e non trascurò questo mistero. Egli intese talvolta un assai dotto orecchio a variar le cadenze delle sue frasi abondevoli, per meglio esprimere la lenta lusinga feminile e la dolcezza degli amorosi errori. Nella voce limpida e volubile del Firenzuola fluiva talvolta la melodia dei ruscelli dechinanti per i colli sereni al Bisenzio. E certo Annibal Caro, prima di vergar sul foglio i segni, ascoltò dentro di sé le elette parole risonare a lungo come nella segreta caverna e nel golfo lunato ove mescevano ingenue lascivie i suoi due pastori.

Tu ritroverai dunque, o Cenobiarca, in questa prosa che ti ho scritta, qualche precisa imagine e qualche nobile ritmo. Durante un lustro io ho portata in me questa prosa per arricchirla e per addensarla. Come negli antichi Trionfi della Morte il pittore adunava le fuggitive grazie della Vita, così in questo Trionfo io più volte

 

le feste ho celebrato

de' suoni, de' colori e de le forme.

 

Io ho circonfuso di luce, di musica e di profumo le tristezze e le inquietudini del morituro; ho evocato intorno alla sua agonia le più maliose Apparenze; ho disteso un tappeto variopinto sotto i suoi passi obliqui. Dinanzi a colui che perisce, una bella donna voluttuaria, terribilis ut castrorum acies ordinata, alta su un mistero di grandi acque glauche sparse di vele rosse, morde e assapora con lentezza la polpa d'un frutto maturo mentre dagli angoli della bocca vorace le cola giù pel mento il succo simile a un miele liquido.

E ti ho anche raccolta in più pagine, o Cenobiarca, l'antichissima poesia di nostra gente: quella poesia che tu primo comprendesti e che per sempre ami. Qui sono le imagini della gioia e del dolore di nostra gente sotto il cielo pregato con selvaggia fede, su la terra lavorata con pazienza secolare. Sente talvolta il morituro passar nell'aria il soffio della primavera sacra; e, aspirando alla Forza, invocando un Intercessore per la Vita, ripensa la colonia votiva composta di fresca gioventù guerriera che un toro prodigioso, di singolar bellezza, condusse all'Adriatico lontano. Ma, come si spensero entro le mura ciclopiche di Alba de' Marsi il re numida Siface e l'ultimo dei re macedoni Perseo crudele, il tragico erede di Demetrio Aurispa si spegne qui ne' suoi brandelli di porpora straniero ed esule e prigione. Pace a lui nell'ombra della Montagna, ultimamente!

Noi tendiamo l'orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra, o Cenobiarca; e prepariamo nell'arte con sicura fede l'avvento del Uebermensch, del Superuomo.

 

G. d'A.

Dal Convento di S. M. Maggiore,

nel calen d'aprile del 1894.

 

 

 


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