Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il trionfo della morte
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LIBRO SECONDO LA CASA PATERNA

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LIBRO SECONDO

 

LA CASA PATERNA

 

 

 

I

 

Verso gli ultimi di aprile Ippolita partì per Milano, chiamata dalla sorella a cui era morta la suocera in quei giorni. Giorgio doveva anche partire, alla ricerca del paese sconosciuto. E verso la metà di maggio dovevano ritrovarsi insieme.

Ma in quei giorni appunto Giorgio aveva ricevuto una lettera della madre, piena di cose dolorose, quasi disperata. E oramai egli non poteva più differire il ritorno alla sua casa paterna.

Quando sentì che doveva senza altri indugi accorrere dove era il vero dolore, fu occupato da una torbida angoscia in cui la primitiva pietà filiale venne a poco a poco sopraffatta da una irritazione crescente che aumentava d'acredine come più chiare e più spesse sorgevano nella conscienza le imagini della lotta prossima e come più alte sonavano dal profondo le voci dell'egoismo intollerante. E quella irritazione si fece così acre che in breve dominò sola, durevole, mantenuta dai fastidii materiali della partenza, dagli strazii del commiato.

Il commiato fu doloroso come non mai. Giorgio era in un periodo di sensibilità acutissimo. Tutti i suoi nervi tesi ed esacerbati lo tenevano in uno stato di inquietudine incessante. Egli pareva incredulo della felicità promessa, della quiete ventura. Quando Ippolita gli disse addio, egli domandò:

- Ci rivedremo?

Quando egli su la soglia le diede in bocca l'ultimo bacio, notò che ella calava su quel bacio un velo nero; e quel piccolo fatto insignificante lo turbò a dentro, gli s'ingigantì nell'imaginazione come un presagio sinistro.

Giungendo a Guardiagrele, alla città natale, alla casa paterna, egli era così estenuato che nell'abbracciare la madre pianse come un fanciullo. E pure né da quell'abbraccio né da quelle lacrime provò conforto. Gli parve d'essere nella sua casa un estraneo; gli parve d'essere in mezzo a una famiglia non sua. Quel singolar sentimento di distacco, ch'egli già altre volte aveva provato verso i consanguinei, ora gli risorgeva più vivo e più molesto. Mille piccole cose, nella vita familiare, lo irritavano, lo ferivano. Certi silenzii, durante il pranzo, durante la cena, riempiti dal tintinno delle forchette, gli davano un fastidio insopportabile. Talune sue abitudini di finezza ricevevano ad ogni tratto una scossa brusca, un urto rude. Quell'aria di dissenso, di ostilità, di guerra, che pesava su la sua casa, gli toglieva il respiro.

La madre lo aveva chiamato in disparte, la sera stessa dell'arrivo, per raccontargli tutti i suoi dolori, tutti i suoi patimenti, tutte le sue ansietà, per raccontargli tutti i disordini e tutti gli eccessi del marito. Ella gli aveva detto con la voce tremante di collera, guardandolo con gli occhi pieni di lacrime:

- Tuo padre è un infame!

Ed ella aveva le palpebre un po' gonfie, arrossite dal lungo piangere; aveva le gote scarne; aveva in tutta la persona le tracce d'una sofferenza lungamente durata.

- È un infame! È un infame!

Salendo alle sue stanze, Giorgio conservava ancóra nell'orecchio il suono di quella voce; rivedeva l'attitudine della madre; riudiva le accuse ad una ad una, le accuse ignominiose contro l'uomo di cui egli portava nelle vene il sangue. E il cuore gli si gonfiava così ch'egli credeva di non poterlo trascinare più oltre. Ma un'aspirazione improvvisa e furiosa verso l'amante lontana lo alterò diversamente; ed egli sentì che non era grato alla madre di avergli rivelate tante miserie, egli sentì che avrebbe preferito ignorare, non occuparsi d'altro se non del suo amore, non dover soffrire d'altro se non del suo amore.

Entrò nelle sue stanze, si chiuse. La luna di maggio splendeva su i vetri dei balconi. Ed egli aprì le imposte, provando un gran bisogno di respirare l'aria della notte; si appoggiò alla ringhiera, bevve, come a lunghi sorsi, la freschezza notturna. Un'immensa pace regnava nella valle sotto stante; e la Maiella, tutta ancóra candida di nevi, pareva ampliare l'azzurro col suo semplice e solenne lineamento. Guardiagrele dormiva, simile a un gregge biancastro, intorno a Santa Maria Maggiore. Una sola finestra, in una casa vicina, era illuminata, d'una luce gialla.

Egli dimenticò la ferita recente. Innanzi alla bellezza della notte, egli non ebbe se non un pensiero: «Ecco una notte perduta per la felicità

Stette in ascolto. Gli giunse nel silenzio, da una stalla vicina, lo scalpitìo d'un cavallo; poi, un tintinno fioco di sonagli. Guardò la finestra illuminata; e vide, nel rettangolo di luce, passare alcune ombre, ondeggianti, come di persone che nell'interno si agitassero. Stette in ascolto. Gli parve di sentir battere leggermente all'uscio. Andò ad aprire, nel dubbio.

Era la zia Gioconda.

- Mi dimentichi? - disse ella entrando, abbracciandolo.

Non avendola veduta all'arrivo, egli l'aveva dimenticata, infatti. Si scusò. La prese per mano, la fece sedere, le parlò con voce affettuosa.

Ella era la sorella del padre, la maggiore, sessantenne. Zoppicava, per una caduta; ed era un poco pingue ma d'una pinguedine malaticcia, floscia, esangue. Tutta immersa nelle cose della religione, ella viveva in una stanza remota, all'ultimo piano della casa, quasi separata dalla famiglia, trascurata, non amata, ritenuta inferma di mente. Il suo mondo si componeva d'imagini sacre, di reliquie, di emblemi, di simboli. Ella non altro faceva che seguire le pratiche della divozione, assopirsi nella monotonia delle preghiere, soffrire le crudeli torture che le dava la sua golosità. Ella era ghiotta di dolciumi, provando nausea d'ogni altro cibo; e i dolciumi spesso le mancavano. Prediligeva Giorgio perché egli ad ogni ritorno le portava una scatola di confetture e una scatola di rosolii.

- Dunque - ella diceva, balbettando tra le gengive quasi vuote - dunque... tu sei tornato... eh... sei tornato...

Ella lo guardava, con un po' di peritanza, non sapendo dir altro; ma aveva negli occhi un'aspettazione manifesta. E Giorgio, pur tra il disgusto che gli dava l'alito di lei, si sentiva stringere il cuore da una pietà angosciosa. Pensava: «Questa misera creatura, caduta in una delle più basse degradazioni umane, questa povera beghina ingorda, è legata a me da vincoli di sangue; è della mia stessa razza

- Dunque... - ella ripeteva, presa da un'ansia visibile; e i suoi occhi divenivano quasi impudenti.

- Oh, zia Gioconda, perdonami! - disse alfine Giorgio, con uno sforzo penoso. - Questa volta mi sono dimenticato di portarti i dolci.

La vecchia si mutò nel viso, come s'ella fosse per venir meno. Gli occhi le si spensero. Ella balbettò:

- Non fa niente...

- Ma te ne procurerò, domani - soggiunse Giorgio, per consolarla, col cuore stretto. - Te ne procurerò; poi, scriverò...

La vecchia si rianimava. Disse, con gran premura:

- Sai, alle Orsoline... si trovano.

Poi, dopo un intervallo di silenzio, in cui ella certo pregustò la delizia del domani perché mise dalla bocca sdentata un piccolo gorgoglio come ingoiando la saliva soverchia:

- Povero Giorgio!... Eh, se non avessi Giorgio, io! Vedi che succede in questa casa? Il castigo del Cielo... Va, va a vedere sul balcone i vasi. Io, io, li ho inaffiati sempre. Ho sempre pensato, io, a Giorgio! Prima avevo Demetrio, ora ho te solo.

Ella si levò, prese per mano il nipote e lo condusse a uno dei balconi; gli mostrò i vasi prosperi; colse una foglia di bergamotto e gliela porse. Si chinò per sentire se la terra era secca; poi disse:

- Aspetta.

- Dove vai, zia Gioconda?

- Aspetta.

Ella si allontanò zoppicando, uscì dalla stanza; e rientrò poco dopo, reggendo a fatica una brocca ricolma.

- Ma perché fai questo, zia? Perché ti dai pena?

- I vasi hanno bisogno d'acqua. Se io non ci penso, chi ci pensa?

Ella annaffiò i vasi. Ansava forte; e l'affanno roco di quel petto senile straziava il giovine.

Egli disse, togliendole di tra le mani la brocca:

- Basta così.

Rimasero sul balcone, mentre l'acqua dai vasi gocciolava su la strada con un leggero strepito.

- Di chi è quella finestra illuminata? - domandò Giorgio, per rompere il silenzio.

- Oh - rispose la vecchia - sta per morire Don Defendente Scioli.

Guardarono ambedue agitarsi le ombre, su quel rettangolo di luce gialla. La vecchia, all'aria fredda della notte, incominciò a tremare.

- Va, va a letto, zia Gioconda.

Egli volle ricondurla fino alla stanza del piano superiore. In un corridoio incontrarono qualche cosa che si trascinava su i mattoni pesantemente. Era una testuggine. La vecchia disse, soffermandosi:

- Questa ha l'età tua: venticinque anni. S'è azzoppata come me. Un calcio di tuo padre...

Egli ripensò la tortora spennata, la zia Giovanna, alcuni istanti della vita d'Albano.

Giunsero su la soglia. Un odore nauseoso, un lezzo di malattia e d'immondizia, emanava dall'interno. Al lume debole d'una lampada apparivano le pareti coperte di madonne e di crocifissi, un paravento lacero, una poltrona che mostrava i ferri e la stoppa.

- Vuoi entrare?

- No, grazie, zia Gioconda. Va a letto.

Ella entrò presto presto e ritornò su la soglia con un cartoccino che aperse innanzi a Giorgio, versandosi un po' di zucchero su la palma della mano.

- Vedi? Non ho che questo poco.

- Domani, domani, zia... Va a letto, ora. Santa notte!

Ed egli la lasciò, non potendo più reggere, con lo stomaco rivoltato, con il cuore disfatto. Uscì di nuovo sul balcone.

La luna pendeva a mezzo del cielo, colma. La Maiella era inerte e glaciale come uno di quei promontorii selènici che il telescopio avvicina alla terra. Guardiagrele dormiva, da presso. I bergamotti odoravano.

«Ippolita! Ippolita!» Tutta l'anima sua tendeva all'amante, in quell'ora di suprema angoscia, chiedendo aiuto. «Ippolita

Un grido, improvviso, risonò nel silenzio, dalla finestra illuminata: un grido di donna. Poi altri gridi seguirono; poi seguì un singhiozzare continuo che si elevava e si abbassava come un canto cadenzato. L'agonia era finita. Si disperdeva uno spirito nella notte omicida e calma.

 

 

 

II

 

Bisogna - diceva la madre - bisogna che tu mi aiuti; bisogna che tu gli parli, che tu gli faccia sentire la tua voce. Tu sei il primogenito. È necessario, Giorgio.

Ed ella seguitava ad enumerare le colpe del marito, seguitava a rivelare al figliuolo le vergogne del padre. Questo padre aveva una concubina: una pettinatrice ch'era già stata al servizio della famiglia, una donna perduta, avidissima; e per lei e per gli spurii dissipava tutte le sostanze, senza ritegno alcuno, trascurando gli affari, trascurando le campagne, vendendo i raccolti a prezzo vile, al primo offerente, per aver denaro; e giungeva, e giungeva qualche volta sino a far mancare nella casa il necessario; e si rifiutava di dare la dote alla figlia minore che pure da tanto tempo era sposa promessa; e ad ogni rimostranza rispondeva con le grida, con le contumelie, qualche volta con violenze più ignobili.

- Tu vivi lontano, tu non sai in che inferno viviamo noi. Tu non puoi imaginare nemmeno una minima parte di quel che noi stiamo soffrendo... Ma tu sei il primogenito. Bisogna che tu gli parli. È necessario, Giorgio. È necessario.

Giorgio taceva, con gli occhi bassi, facendo uno sforzo immane per contenere l'esasperazione di tutti i suoi nervi, al conspetto di quel dolore che gli si mostrava con tanta crudezza. Quella dunque era sua madre? Quella bocca convulsa, amara, che si scomponeva così aspramente pronunziando le parole crude, era la bocca di sua madre? Il dolore dunque e la collera l'avevano tanto mutata? - Egli sollevò gli occhi per guardarla, per ritrovare nel viso di lei le tracce della dolcezza d'un tempo. Come aveva egli un tempo conosciuta dolce la madre! Che bella e tenera creatura ella era un tempo! E come l'aveva egli teneramente amata, nella puerizia, nell'adolescenza! Era alta e gracile, Donna Silveria, bianca e di capelli quasi bionda e d'occhi oscura; ed aveva in tutta la persona l'impronta della buona stirpe, poiché ella esciva di quella famiglia Spina che, insieme con la famiglia Aurispa, ha il suo stemma scolpito sotto il portico di Santa Maria Maggiore. Che tenera creatura ella era un tempo! Perché tanto mutata? - Il figliuolo soffriva d'ogni gesto di lei un po' incomposto, d'ogni parola acre, di tutte le alterazioni che la furia del risentimento portava nella sembianza di lei; e soffriva nel veder così coperto di vergogna il padre, nel vedere un abisso così terribile scavato tra i due esseri a cui egli doveva l'esistenza. Quale esistenza!

- Tu intendi, Giorgio? - ella incalzava.-È necessario da parte tua un atto di energia. Quando gli parlerai? Risòlviti.

Egli intendeva, e si sentiva scuotere l'intime viscere da un tremito come di orrore; e rispondeva interiormente: «Oh, mamma, chiedimi tutto, chiedimi qualunque sacrificio più atroce; ma risparmiami questo passo, non mi spingere a questo coraggio! Io sono vile.» Una ripugnanza invincibile gli si levava dalle radici dell'essere, al pensiero di dover affrontare il padre, al pensiero di dover compiere un atto di forza e di volontà. Avrebbe preferito lasciarsi troncare una mano.

Rispose, con la voce velata:

- Va bene, mamma. Gli parlerò. Troverò il momento opportuno.

Se la prese fra le braccia e la baciò su le guance, come per chiederle tacitamente perdono della menzogna; poiché egli assicurava a sé stesso: «Non troverò il momento opportuno, non parlerò

Restarono nel vano della finestra. La madre aprì le imposte, dicendo:

- Fra poco porteranno via Don Defendente Scioli.

Si affacciarono, l'uno accanto all'altra. Ella soggiunse, volgendosi al cielo:

- Che giornata!

Guardiagrele, la città di pietra, risplendeva al sereno di maggio. Un vento fresco agitava le erbe su le grondaie. Santa Maria Maggiore aveva per tutte le fenditure, dalla base al fastigio, certe pianticelle delicate, fiorite di fiori violetti, innumerevoli; così che l'antichissimo Duomo sorgeva nell'aria cerulea tutto coperto di fiori marmorei e di fiori vivi.

Giorgio pensava: «Io non rivedrò Ippolita. Ho un presentimento funesto. So che fra cinque giorni, che fra sei giorni partirò per andare a cercare l'eremo dei nostri sogni; e so nel tempo medesimo che farò una cosa inutile, che non riuscirò a nulla, che mi arresterò a un ostacolo oscuro. Com'è strano e indefinito quel ch'io provo! Non so io, ma qualcuno dentro di me sa che tutto sta per finirePensava: «Ella non mi scrive. Da che sono qui, mi ha telegrafato due volte, brevemente: da Pallanza e da Bellagio. Ella non m'è parsa mai così lontana. Forse, in questo istante, un altro uomo le piace. Può l'amore cadere d'un tratto dal cuor d'una donna? Sì; tutto è possibile nel mondo interiore. Il cuore di lei è stanco. Ad Albano, scaldato dai ricordi, mi dava forse i suoi ultimi palpiti. Ed io mi sono illuso! Certi fatti, se uno sa considerarli in forma ideale, portano in fondo a loro nascosta una significazione precisa, indipendente dalle apparenze. Orbene, tutti i piccoli fatti, di cui si compose la nostra vita d'Albano, se io li considero nel mio pensiero, hanno una significazione non dubbia, un'impronta sicura: sono finali. Quando giungemmo alla stazione di Roma, la sera di venerdì santo, e ci separammo, ed ella si allontanò nella vettura fra la nebbia, non mi parve d'averla perduta per sempre, senza riparo? Non ebbi, profondo, il sentimento della fine?» Gli riapparve nell'imaginazione il gesto d'Ippolita che calava il velo nero su l'ultimo bacio. Il sole, l'azzurro, i fiori, tutte le cose liete non altro gli suggerirono se non questo: «Senza di lei, è impossibile la vita

Disse la madre in quel punto, sporgendosi dal davanzale, guardando verso la porta del Duomo:

- Escono.

Escivano dalla porta gli accompagnatori funebri, con le insegne. La bara era portata da quattro uomini incappati, su le spalle. Due lunghe file d'incappati seguivano tenendo in mano torchietti accesi. Non apparivan di costoro se non gli occhi, pe' due buchi del cappuccio. Il vento a tratti faceva oscillare le fiammelle appena visibili; ne spegneva qualcuna; e i torchietti si struggevano lacrimando. Ciascuno incappato aveva a fianco un fanciullo scalzo che raccoglieva la cera liquefatta nel concavo d'ambe le mani.

Come fu tutto svolto nella strada il corteo, una banda di sonatori vestiti di rosso e impennacchiati di bianco intonò la marcia funebre. I mortuarii misurarono il passo sul ritmo della musica. Gli strumenti d'ottone scintillarono al sole.

Giorgio pensava: «Che onoranza triste e ridicola segue la morte d'un uomoVide sé stesso nella bara, chiuso tra le assi, portato da quegli uomini mascherati, accompagnato da quelle torce, da quell'orribile strombettio. L'imagine lo empì di disgusto. Poi lo attrassero quei fanciulli laceri che raccoglievano le lacrime della cera, a fatica, un po' curvi, con un passo ineguale, con gli occhi intenti alla fiammella mutabile.

- Povero Don Defendente! - mormorò la madre, guardando allontanarsi il corteo.

Poi soggiunse, come parlando a sé medesima e non al figliuolo, stanca:

- Perché povero? È entrato nella pace; e noi restiamo a penare.

Il figliuolo la guardò. I loro occhi s'incontrarono; ed ella gli sorrise ma d'un sorriso così fievole che non mosse alcuna linea del volto. Fu come un passaggio d'un velo leggerissimo, appena appena chiaro, sul volto pur sempre atteggiato di tristezza. E quel lume tenue fu pel figliuolo come una gran luce subitanea; poiché egli vide, allora soltanto vide intieramente sul volto della madre l'opera irrimediabile del dolore.

Un'onda di tenerezza impetuosa gli gonfiò il petto, innanzi alla tremenda rivelazione che gli faceva quel sorriso. La madre, sua madre, non poteva più sorridere se non in quel modo, in quel modo solo! Le impronte della sofferenza erano omai indelebili sul caro volto ch'egli aveva veduto tante volte chinarsi verso di lui, con tanta bontà nella malattia, nell'inquietudine! La madre, sua madre, si consumava a poco a poco, si logorava di giorno in giorno, andava piegando verso il sepolcro, inevitabilmente! Ed egli, dianzi, quando la madre esalava la pena, dianzi egli aveva sofferto non del dolore di lei ma del suo proprio egoismo offeso, dell'urto che infliggevano ai suoi nervi malati le espressioni crude del dolore materno!

- Oh, mamma... - egli balbettò, soffocato dal pianto, prendendole le mani, ritraendola dentro la stanza.

- Giorgio, che hai? Figlio mio, che hai? - chiedeva la madre, sbigottita, vedendogli tutta la faccia rigata di lacrime. - Dimmi: che hai?

Oh, era quella la voce cara, la voce unica, indimenticabile, che gli toccava il fondo dell'anima; era quella la voce di consolazione, di perdono, di consiglio, d'infinita bontà ch'egli aveva ascoltato ne' giorni suoi più oscuri; era quella, era quella! Egli riconosceva alfine la tenera creatura d'un tempo, l'adorata.

- Oh mamma, mamma...

Egli la stringeva fra le braccia, singhiozzando, bagnandola delle sue lacrime calde, baciandola su le guance, su gli occhi, su la fronte, smarritamente.

- Povera mamma mia!

Egli la fece sedere, le s'inginocchiò d'innanzi, la guardò; la guardò a lungo, come se la rivedesse soltanto allora, dopo gran tempo. Ella chiese, con la bocca convulsa, mal trattenendo il singhiozzo che le serrava la gola:

- Ti ho fatto molta pena?

Ella gli asciugò le lacrime, gli accarezzò i capelli. Con la voce interrotta dai sussulti, diceva:

- No, no, Giorgio; tu non ti devi affliggere, tu non devi soffrire... Dio ti ha tenuto lontano da questa casa. Tu non devi soffrire. In tutta la mia vita, da che tu sei nato, in tutta la mia vita io sempre, sempre ho cercato di risparmiarti una pena, un dolore, un sacrificio. E questa volta non ho saputo tacere!... Io dovevo tacere, non dovevo dirti nulla. Perdonami, Giorgio. Non credevo di farti tanta pena. Non piangere; ti prego! Non piangere più! Ti prego, Giorgio... Io non posso vederti piangere.

Ella stava per prorompere, non reggendo all'ambascia.

- Vedi? - egli disse. - Non piango più.

Appoggiò la testa su le ginocchia di lei; rimase alquanto sotto la carezza delle dita materne; si calmò. Un singhiozzo ancóra lo scoteva di tratto in tratto. Gli ripassavano nello spirito, in forma d'un sentimento vago, afflizioni lontane dell'adolescenza. Udiva garrire le rondini, stridere la ruota di un arrotino, gente vociare nella strada: romori noti, uditi in pomeriggi lontani; romori che l'accoravano. Una specie di fluttuazione indefinita seguiva la crisi; ma, come riapparve l'imagine d'Ippolita, tutto il mondo interiore si agitò di nuovo con tale tumulto che su le ginocchia della madre il giovine trasse un sospiro.

Ella si chinò verso di lui, mormorando:

- Che sospiro!

Egli, tenendo chiuse le palpebre, le sorrise; ma un'immensa prostrazione lo invadeva, una desolata stanchezza, un bisogno disperato di sottrarsi alla guerra senza tregua.

La volontà di vivere si ritirava da lui a poco a poco, come il calore abbandona un cadavere. Nulla più rimaneva della commozione recente; la madre ridiveniva estranea. - Che cosa poteva egli fare per lei? Salvarla? Ridarle la pace? Ridarle la sanità, la gioia? La ruina non era irreparabile? L'esistenza di lei non era omai per sempre avvelenata? - La madre non gli poteva più offrire un rifugio, come nell'infanzia, come negli anni lontani. Ella non poteva comprenderlo, né consolarlo, né guarirlo. Troppo erano diversi i loro due spiriti e diverse le loro due vite. Ella non poteva dunque se non offrirgli lo spettacolo della propria tortura!

Si levò, la baciò, si separò da lei, uscì, salì alle sue stanze, si affacciò a uno dei balconi. Vide la Maiella tutta rosea nel tramonto: enorme e delicata, in un cielo verdastro. Il gridìo assordante delle rondini che turbinavano nell'aria lo respinse. Egli andò a distendersi sul letto.

Supino, pensò: «Ecco, io sono vivo, io respiro. Qual è la sostanza della mia vita? ed in balìa di quali forze? sotto l'impero di quali leggi? Io non mi posseggo, io sfuggo a me stesso. Il senso ch'io ho del mio essere è simile a quello che può avere un uomo il quale, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di continuo mancargli l'appoggio, dovunque egli posi il piede. Io sono perpetuamente ansioso; e neanche la mia ansietà è bene definita. Io non so se sia l'ansietà del fuggiasco inseguito alle calcagna o quella di chi insegue senza mai raggiungere. Forse è l'una e l'altra insieme

Le rondini garrivano passando e ripassando a stormi, come nere saette, nel rettangolo pallido segnato dal balcone.

«Che cosa mi manca? Qual è il difetto del mio organismo morale? Qual è la causa della mia impotenza? Io ho una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e armonioso. E ogni giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi fugge da varchi invisibili e innumerabili; e rimango come una vescica mezzo vuota che ad ogni movimento del liquido sbattuto prenda una diversa deformità. Tutte le mie forze non ad altro mi servono che a trascinare con una immensa fatica qualche granello di polvere a cui la mia imaginazione il peso d'un macigno gigantesco. Una discordia incessante agita e sterilisce tutti i miei pensieri. Che cosa mi manca? Chi dunque possiede del mio essere quella parte di cui non ho conscienza ma che pure m'è necessaria (sento) per continuare ad esistere? O forse quella parte del mio essere è già morta ed io non posso ricongiungermi a lei se non morendo? Così è. La morte, infatti, m'attira

Le campane di Santa Maria Maggiore sonarono a vespro. Egli rivide il corteo funebre, la bara, gli incappati; e quei fanciulli laceri che raccoglievano le lacrime della cera, a fatica, un po' curvi, con un passo ineguale, con gli occhi intenti alla fiammella mutabile.

Quei fanciulli gli rimasero lungo tempo impressi. Più tardi, scrivendo all'amata, egli sviluppò l'allegoria segreta che il suo spirito curioso d'imagini aveva confusamente intravista. «Uno di loro, mingherlino, giallastro, si appoggiava con una mano a una stampella e nel cavo dell'altra raccoglieva la cera, strascicandosi a fianco d'una specie di gigante incappato che stringeva il torchio nel pugno enorme brutalmente. Li vedo ancóra, ambedue; e non li dimenticherò. C'è qualcosa forse in me, che mi fa assomigliare a quel fanciullo. La mia vera vita è in potere di qualcuno, misterioso, inconoscibile, che la stringe con un pugno di ferro; ed io la vedo struggersi, trascinandomi accosto accosto, affaticandomi per raccoglierne almeno una piccola parte. Ed ogni goccia brucia la mia povera mano

 

 

 

III

 

Su la mensa, in un vaso, era un mazzo di rose fresche, rose di maggio, che Camilla, la sorella minore, aveva còlte nel giardino. Sedevano intorno alla mensa il padre, la madre, il fratello Diego e, per quel giorno, il fidanzato di Camilla e la sorella maggiore Cristina col marito e con un suo bimbo biondetto, niveo, gracile come un giglio semichiuso.

Giorgio sedeva tra il padre e la madre.

Il marito di Cristina, il barone di Palleaurea Don Bartolomeo Celaia, parlava d'intrichi municipali, con una voce irritante. Era un uomo di circa cinquant'anni, asciutto, calvo su la sommità della testa come un tonsurato, con una faccia tutta rasa. Una certa asprezza di gesti, una quasi arroganza di modi facevano un singolare contrasto con quel suo aspetto clericale.

Udendolo, osservandolo, Giorgio pensava: «Cristina può essere felice? può amare quell'uomo? Cristina, la cara creatura, affettuosa e malinconica, che io ho vista piangere tante volte in effusioni improvvise di tenerezza, Cristina legata per tutta la vita a quell'uomo arido, quasi vecchio, inasprito di continuo nelle stupide guerricciuole della politica paesana! Ed ella non può neanche trovare un conforto nella sua maternità; ella non può se non struggersi in ansie e in timori per quel suo figliuolo malaticcio, esangue, sempre pensieroso. Povera creatura

Guardò la sorella, con uno sguardo pieno di bontà compassionevole. Cristina gli sorrise, di sopra le rose, inclinando un po' la testa a sinistra, con un atto di grazia, com'ella soleva.

Egli pensò, vedendo accanto a lei Diego: «Sembrano forse dello stesso sangue? Cristina ha ereditata in gran parte la gentilezza materna; ha gli occhi di nostra madre, e specialmente le arie di lei, certi gesti. Ma Diego!» Egli l'osservava, provando contro di lui la ripulsione istintiva che ogni essere prova al conspetto dell'essere contrario, contraddicono, assolutamente opposto. Il fratello mangiava con voracità, senza levar mai la faccia di sul piatto, occupato nella bisogna. Non aveva ancóra vent'anni; ma era tarchiato, ingrossato già da un principio di pinguedine, acceso di colore. I suoi occhi piccoli e grigiastri, sotto la fronte bassa, non mostravano alcun lampo d'intelligenza; una lanugine fulva gli copriva le gote, le mascelle forti, gli ombrava la bocca tumida e sensuale; la stessa lanugine gli appariva su le mani dall'unghie poco nette che rivelavano il disdegno delle minute cure.

Giorgio pensò: «È un bruto. È singolare la ripugnanza che io debbo vincere per rivolgergli anche una parola insignificante, per rispondere anche al suo semplice buongiorno. Quando egli mi parla, non mi guarda mai negli occhi. Se per caso i nostri sguardi s'incontrano, egli sùbito sfugge, con una rapidità strana. Innanzi a me arrossisce quasi sempre, senza ragione. Che acuta curiosità ho io di sapere quel che egli prova per me! Certo, non mi ama

Il suo pensiero, la sua attenzione andarono al padre, con un passaggio spontaneo. Diego era il vero erede di quell'uomo.

Pingue, sanguigno, possente, quell'uomo pareva emanare dalle sue membra un perpetuo calore di vitalità carnale. Le mascelle assai grosse; la bocca tumida e imperiosa, piena d'un soffio veemente; gli occhi torbidi e un po' biechi; il naso grande, palpitante, sparso di rossore; tutte le linee del volto portavano l'impronta della violenza e della durezza. Ogni gesto, ogni attitudine aveva l'impeto d'uno sforzo, come se la musculatura di quel gran corpo fosse in continua lotta con l'adipe ingombrante. La carne, la carne, questa cosa bruta, piena di vene, di nervi, di tendini, di glandule, d'ossa, piena di istinti e di bisogni; la carne che suda e che lezzo; la carne che si difforma, che s'ammala, che si piaga, che si copre di calli, di grinze, di pustole, di porri, di peli; questa cosa bruta, la carne, prosperava in quell'uomo con una specie di impudenza, dando al delicato vicino una impressione quasi di ribrezzo. «Non era, non era così, dieci, quindici anni fa; non era così» pensava Giorgio. «Io ricordo bene che non era. Sembra che questa espansione d'una brutalità latente, insospettata, si sia compiuta in lui a poco a poco. Io, io sono il figliuolo di quest'uomo

Egli guardò il padre. Notò che all'angolo di ciascun occhio, su la tempia, aveva un fascio di rughe e sotto ciascun occhio un gonfiore, una specie di borsa violacea. Notò il collo corto, gonfio, rossastro, apopletico. Si accorse che i baffi e i capelli portavano tracce di tintura. L'età, il principio della vecchiezza in un essere voluttuario, la implacabile opera del vizio e del tempo, il vano e mal riuscito artificio a nascondere la canizie senile, la minaccia d'una morte repentina, tutte queste cose misere e tristi, basse e tragiche, tutte queste cose umane diedero al cuore del figliuolo un turbamento profondo. L'invase, anche pel padre, una immensa pietà. «Biasimarlo? Anch'egli soffre. Tutta quella carne, che mi ispira un senso di ripugnanza così forte, tutta quella greve carne è abitata da un'anima. Chi sa quali angosce e quali stanchezze! - Egli, certo, ha della morte una paura folle...» Subitamente, gli si formò nello spirito l'imagine del padre agonizzante: stramazzava come fulminato, a terra, di schianto; sussultava, non anche morto, livido, muto, contraffatto, con l'occhio pieno dell'orrore di morire; rimaneva immobile, come sotto il secondo colpo d'un maglio invisibile, carne inerte. «Lo piangerebbe mia madre

La madre gli disse:

- Non mangi, non bevi. Non hai toccato quasi nulla. Ti senti male, forse?

Egli rispose:

- No, mamma. Questa mattina non ho fame.

Udendo presso la tavola uno strascicare, si volse. Vide la testuggine decrepita; ricordò le parole della zia Gioconda: «S'è azzoppata come me. Un calcio di tuo padre...»

Mentre egli la guardava, anche la madre disse, con un barlume di sorriso:

- Ha gli anni tuoi. Ero incinta di te, quando me la portarono.

Soggiunse, con lo stesso fievole sorriso:

- Era piccola piccola; aveva il guscio quasi trasparente. Pareva un giocattolo. È cresciuta a poco a poco, qui nella casa.

Ella prese la buccia di una mela e l'offerse alla testuggine. Rimase un istante a guardare la povera bestia che moveva con un tremolìo tardo la sua testa giallognola di vecchia serpe. Poi si mise a mondare un'arancia per Giorgio, con un'aria trasognata.

«Ella ricorda» pensò Giorgio, vedendo la madre così assorta. Indovinò l'ineffabile tristezza che doveva invadere quell'anima al ricordo del tempo felice, ora che tutto era ruinato, ora che tutto era finito, dopo tanti tradimenti, dopo tante infamie, irreparabilmente. «Ella era amata da lui, allora. Ella era giovine. Non aveva forse anche sofferto... Come deve sospirare il suo cuore! Che rimpianto disperato deve partirle dalle viscere!» Il figliuolo soffriva la sofferenza della madre, riproduceva in sé medesimo l'angoscia della madre. E tanto egli s'indugiò ad assaporare la suprema delicatezza della sua commozione, che gli occhi gli si velarono di lacrime. Le contenne, con uno sforzo. Le sentì cader dentro, assai dolci. «Oh mamma, se tu sapessi

Volgendosi, vide Cristina che gli sorrideva di sopra le rose.

Il fidanzato di Camilla stava dicendo:

- Questo significa non conoscere il codice. Quando uno ha la pretesa di...

Il barone approvava la dimostrazione del giovine laureato, ripetendo ad ogni frase di lui:

- Sicuro... sicuro...

Demolivano il sindaco.

Il giovine Alberto sedeva accanto a Camilla, alla sua sposa promessa. Era tutto lucido e roseo, come una figura di cera; portava una barbetta aguzza, i capelli spartiti da una scriminatura diritta, alcuni riccioli su la fronte bene composti, e sul naso un paio di lenti cerchiate d'oro. «È l'ideale di Camilla» pensò Giorgio. «Si amano da lungo tempo, d'un amore indomabile. Credono alla loro felicità futura. Hanno lungamente sospirato. Alberto deve aver condotta a braccio quella povera creatura per tutti i luoghi comuni dell'idillio. Camilla è guasta, soffre di mali fantastici; tutto il giorno non fa se non affaticare di Notturni il suo cembalo confidente. Si sposeranno. Quale sarà la loro sorte? - Un giovine vanitoso e vacuo, una fanciulla sentimentale, nella vita meschina della provincia...» Egli seguì per un poco, nella sua imaginazione, lo svolgersi di quelle due esistenze mediocri. Provò per la sorella un senso di pena. La guardò.

Ella aveva con lui qualche somiglianza fisica. Era alta e smilza, con capelli d'un bel castagno chiaro, con occhi chiari ma variabili: ora verdi, ora azzurri, ora grigi. Una velatura di cipria aumentava la sua pallidezza. Ed ella portava sul petto due rose.

«Ella somiglia a me non soltanto nel viso, forse. Anch'ella chiude forse nel suo spirito inconsapevole qualcuno dei germi funesti che in me consciente hanno con tanta potenza germogliato. Ella deve avere l'anima piena d'inquietudini e di malinconie mediocri. Ella è malata, senza conoscere il suo male

In quel punto, si levò la madre. Mentre gli altri la seguivano, il padre e Don Bartolomeo Celaia rimasero seduti a fumare. Parvero ambedue a Giorgio, in quel punto, più odiosi. Egli cinse con un braccio il fianco della madre, con l'altro il fianco di Cristina, affettuosamente; e passò così nella stanza attigua, quasi sospingendole. Si sentiva il cuore gonfio d'una tenerezza insolita, d'una compassione insolita. Udendo le prime note d'un Notturno che Camilla incominciava a suonare, disse a Cristina:

- Perché non scendiamo nell'orto?

La madre rimase coi fidanzati. Giorgio e Cristina, col bimbo taciturno, scesero.

Camminarono un tratto l'uno accanto all'altra, in silenzio. Giorgio aveva messo il suo braccio sotto il braccio della sorella, come soleva con Ippolita.

- Povero orto, nell'abbandono! - mormorò la sorella, soffermandosi. - Ti ricordi, quando eravamo piccoli, tutti i nostri giuochi?

Ella guardò Luca, il suo bimbo.

- Va, Luchino; corri, gioca un poco!

Il bimbo non le si mosse dal fianco; anzi la prese per mano. Ella sospirò, guardando il fratello.

- Vedi; è sempre così. Non corre, non gioca, non ride. Sta sempre attaccato a me. Non mi lascia mai. Tutto gli fa paura.

Giorgio non intendeva le parole, poiché era assorto nel pensiero dell'amica lontana.

L'orto giaceva metà al sole, metà all'ombra, circondato da un muro su cui scintillavano frantumi di vetro infissi nella calce. Una pergola correva lungo un lato. Lungo un altro lato, a distanze eguali, sorgevano certi cipressetti alti, sottili, diritti come candele, con una misera chioma al sommo del fusto, oscura, quasi nera, in forma del ferro d'una picca. Dalla parte di mezzogiorno, su un lembo solatìo, prosperavano alcuni filari d'aranci e di limoni, ora fioriti. Pel resto del terreno erano sparsi rosai, piante di lilla, ciuffi d'erbe aromatiche. Si vedevano ancóra qua e certe piccole siepi di mirto, a disegno, che avevano orlato aiuole ora distrutte. In un angolo, era un buon ciliegio. Nel mezzo era una vasca rotonda, piena d'un'acqua cupa ove le borraccine verdeggiavano.

- Ma ti ricordi - diceva Cristina - quando cadesti nella vasca, che ti riprese il povero zio Demetrio? Che spavento, quel giorno! Fu un miracolo se ti riprese vivo.

Udendo il nome di Demetrio, Giorgio si scosse. Era il nome amato, il nome che gli metteva sempre nel cuore un gran palpito. Diede ascolto alla sorella. Guardò l'acqua su cui certi insetti dalle lunghe gambe correvano rapidamente. Gli venne una voglia inquieta di parlare del morto, di parlarne con abondanza, rievocando tutte le memorie. Ma si trattenne, col sentimento orgoglioso di chi vuol conservare un segreto per nutrirne lo spirito in solitudine; si trattenne con un sentimento quasi di gelosia, pensando che la sorella avrebbe potuto addolorarsi e intenerirsi su la memoria del morto. La memoria del morto apparteneva a lui solo. Egli la conservava nell'intimo dell'anima sua, con un culto triste e profondo, per sempre. Demetrio era stato il suo vero padre; era il suo vero unico parente.

E rivide l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

- Ti ricordi - diceva Cristina - quando una sera ti nascondesti e non ti facesti più vedere sino alla mattina, rimanendo fuori tutta la notte? Che spavento, anche quella volta! Come ti cercammo! E come ti piangemmo!

Giorgio sorrise. Egli si ricordava di non essersi nascosto per gioco, ma per una curiosità crudele, per farsi credere perduto, per farsi piangere dai suoi. Nella sera, in una sera umida e calma, egli aveva udito le voci che lo chiamavano, aveva ascoltato tutti i rumori che venivano dalla casa sconvolta, aveva trattenuto il respiro con terrore e con gioia vedendo passare accosto al suo nascondiglio le persone che lo cercavano. Poi l'orto alfine, essendo stato percorso inutilmente, era rimasto tranquillo. Ed egli, guardando la casa dove le finestre s'illuminavano e si rabbuiavano successivamente come per passaggi di gente agitata, aveva provato un sentimento straordinario, acuto sino alle lacrime: s'era impietosito per l'angoscia de' suoi e per sé medesimo, quasi che veramente egli fosse perduto, ma aveva intanto persistito nel tenersi nascosto. E poi era venuta l'alba; e quella lenta espansione della luce nel silenzio immenso gli aveva come fugato dal cervello un vapore di follia, gli aveva ridato la conscienza della realtà, gli aveva suscitato il rimorso. Egli aveva pensato al padre, al castigo, con terrore, con disperazione, rimirando la vasca, sentendosi attrarre da quell'acqua pallida e mite che rifletteva il cielo, da quell'acqua ove già alcuni mesi innanzi egli era stato per morire...

«Fu nell'assenza di Demetrio», anche si ricordò.

- Senti, Giorgio, che profumo? - diceva Cristina. - Vorrei cogliere qualche fiore.

L'aria, tutta pregna d'una calda umidità e carica di effluvii, disponeva alla mollezza. I grappoli di lilla, le zàgare, le rose, e il timo, la maggiorana, il basilico, il mirto, tutte le essenze, componevano una sola essenza, delicata e forte.

- Giorgio - chiese Cristina, d'improvviso - perché sei tanto pensieroso?

In quel minuto, aspirando il profumo, Giorgio aveva sentito dentro di sé un gran tumulto, tutta la sua passione insorgere a furia, il desiderio d'Ippolita sopraffare ogni altro sentimento, mille ricordi di sensuale delizia correre per le vene.

Soggiunse Cristina, sorridendo, esitando:

- Pensi... a lei?

- Ah, già, tu sai! - disse Giorgio, con un rossore subitaneo sotto lo sguardo mite della sorella, rammentandosi d'averle parlato d'Ippolita nell'autunno scorso, nel settembre, quando egli era ospitato alle Torrette di Sarsa, sul mare.

Sorridendo, esitando, Cristina chiese:

- Le vuoi ancóra... lo stesso bene?

- Ancóra.

Camminarono, senz'altre parole, verso i filari degli agrumi, ambedue diversamente turbati: Giorgio sentendo dalla consapevolezza della sorella aumentato il rammarico; Cristina sentendo rivivere in confuso le soffocate aspirazioni, al pensiero di quella donna sconosciuta che il fratello adorava. Si guardarono e si sorrisero, attenuando la loro pena.

Ella fece alcuni passi rapidi verso gli aranci, esclamando:

- Dio, quanti fiori!

E si mise a coglierli, colle braccia levate, agitando i rami per recidere i rametti. Le zàgare le cadevano sul capo, su le spalle, sul seno. Il suolo d'intorno era tutto cosparso di zàgare, come d'una neve fragrante. Ed ella era piacente, in quell'atto, con quel suo volto ovale, con quel suo collo lungo e bianco. Lo sforzo l'accendeva. D'improvviso lasciò ricadere le braccia, divenne pallida pallida, vacillò come presa da una vertigine.

- Cristina, che hai? che ti senti? - gridò Giorgio, sorreggendola, sbigottito.

Con la gola chiusa dalla nausea violenta, ella non poteva rispondere. Accennò di volersi allontanare dagli alberi; e mosse qualche passo malcerto, sorretta dal fratello, mentre Luca la guardava con occhi esterrefatti. Si soffermò, trasse un respiro; poi disse, con una voce ancóra debole, ricolorendosi a poco a poco:

- Non ti spaventare, Giorgio... Non è nulla. Sono incinta... M'ha fatto male il troppo odore... Ecco, mi passa. Sto già bene.

- Vuoi che torniamo su?

- No; restiamo. Mettiamoci a sedere. Sedettero su un vecchio sedile di pietra, sotto la pergola. Vedendo l'aria incantata e grave del bimbo, Giorgio lo chiamò come per scuoterlo:

- Luchino!

Il bimbo chinò la testa pesante in grembo alla madre. Egli aveva la fragilità d'uno stelo; pareva che portasse a fatica la testa sul collo. La sua cute era così tenue che tutte le vene trasparivano, sottili come fili di seta azzurrina. I capelli erano così biondi che quasi eran bianchi. Gli occhi erano dolci e umidi come quelli di un agnello, cerulei fra le lunghe ciglia chiare.

La madre lo accarezzò, stringendo le labbra per trattenere il pianto. Ma due lacrime sgorgarono, le rigarono le gote.

- Oh, Cristina!

L'accento affettuoso di Giorgio le accrebbe la commozione. Altre lacrime sgorgarono, le rigarono le gote.

- Vedi, Giorgio: io non ho mai chiesto nulla, ho sempre accettato tutto, mi sono sempre rassegnata a tutto; non mi sono mai lagnata, non mi sono mai ribellata... Tu lo sai, Giorgio. Ma anche questo, ma anche questo! Ma non avere neanche un po' di consolazione nel mio figliuolo!...

La sua voce tremava, di pianto, accorata.

- Tu vedi, Giorgio, tu lo vedi com'è. Non parla, non ride, non gioca, non si rallegra mai, non fa quello che fanno tutti gli altri bimbi... Io non so che abbia. E mi pare che mi voglia tanto bene, che mi adori! Non si stacca mai da me, mai mai. Mi pare che penda sempre dal mio respiro. Oh se ti dicessi, Giorgio, certe giornate lunghe, lunghe, senza fine... Io lavoro, accanto alla finestra; alzo gli occhi e incontro gli occhi suoi che mi guardano, che mi guardano ... È uno strazio lento, un supplizio ch'io non ti so dire. Mi pare come di sentirmi spremere a poco a poco il cuore.

Ella s'interruppe, soffocata dall'ambascia. Si asciugò le lacrime.

- Se almeno, - soggiunse - se almeno quello che ho dentro mi nascesse, non dico bello, ma sano! Se m'aiutasse una volta il Signore!

Ella tacque, intenta, come per cogliere un presagio dal palpito della nuova vita ch'ella portava dentro. Giorgio le prese una mano. E rimasero così sul sedile, muti, per qualche tempo, fratello e sorella, oppressi dall'esistenza.

Dinanzi, l'orto giaceva solingo nell'abbandono. I cipressetti alti e diritti sorgevano immobili al cielo, con santità, come ceri votivi. I soffii rari bastavano appena a sfogliare ne' rosai prossimi qualche rosa disfatta. Ora sì, ora no, il suono del cembalo giungeva dalla casa.

 

 

 

IV

 

«Quando? Quando? L'atto che costoro m'impongono diviene dunque inevitabile? Io dovrò dunque affrontare il brutoGiorgio vedeva approssimarsi l'ora con uno sgomento quasi folle. Una ripugnanza invincibile gli si levava dalle radici dell'essere, al solo pensiero ch'egli avrebbe dovuto trovarsi solo, in una stanza chiusa, di fronte a quell'uomo.

Come i giorni passavano, egli sentiva crescere la sua ansietà e la sua umiliazione nell'inerzia colpevole; sentiva che la madre, che la sorella, che tutti i sofferenti aspettavano da lui, dal primogenito, l'atto energico, la protesta, la difesa. - Infatti, perché era stato chiamato? Perché era venuto? - Non pareva omai più possibile partire senza aver compiuto quel dovere. Egli avrebbe potuto, in estremo, partire senza prender commiato, fuggirsene, poi scrivere una lettera giustificando la sua condotta con un qualche pretesto plausibile... Nel più forte dello sgomento egli pensò anche a questo scampo ignominioso; s'indugiò ad esaminare il disegno, a svolgerlo nelle più minute particolarità imaginandone gli effetti. Ma in quelle stesse figurazioni imaginarie il volto dolente e disfatto di sua madre gli suscitava un rimorso intollerabile. Considerando il suo egoismo e la sua debolezza, egli si rivoltava contro sé medesimo; e ricercava dentro, con una furia puerile, qualche piccola parte di sé più attiva ch'egli potesse eccitare o sollevare contro la maggior parte efficacemente ed averne ragione come d'una turba vigliacca. Questi tumulti fittizii non duravano, né giovavano a spingerlo verso la risoluzione virile. Egli allora si metteva ad esaminare con pacatezza lo stato delle cose, facendosi illudere dal rigore stesso del suo ragionamento. Pensava: «In che potrò io essere utile? A quali mali potrà porre rimedio l'opera mia? Questo sforzo penoso, che mia madre e gli altri esigono da me, porterà veramente qualche vantaggio? E quale?» Non avendo trovato in sé l'energia necessaria all'atto esteriore, non essendo riuscito a promuovere in sé una sollevazione profittevole, egli seguiva il metodo opposto: tendeva a dimostrare l'inutilità dello sforzo: «Questo colloquio a che approderà? Senza dubbio, a nulla. Secondo l'umore di mio padre e secondo la progressione delle parole, o sarà violento o sarà persuasivo. Nel primo caso, io non avrò nulla da opporre agli urli e alle ingiurie. Nel secondo caso, mio padre riuscirà facilmente a dimostrarmi l'inesistenza o la necessità delle sue colpe; e io non avrò nulla da opporre, del pari. I fatti sono incommutabili. Il vizio, quando è radicato nell'intima sostanza dell'uomo, diventa indistruttibile. E mio padre è nell'età in cui né vizii si sradicano né le abitudini si aboliscono. Egli ha quella femmina da molti anni, con quei figliuoli. È possibile che le mie rimostranze lo inducano a rinunziarci? È possibile che io lo persuada a rompere ogni legame? Vidi ieri quella femmina. Basta vederla per indovinare come profondamente ella abbia conficcato l'artiglio nella carne di quell'uomo. Ella lo terrà fino alla morte. Omai non c'è rimedio. E poi ci sono quei figli, i diritti di quei figli. Dopo quanto è accaduto, insomma, mia madre e mio padre potrebbero riconciliarsi? Mai. Ogni mio tentativo sarebbe dunque inutile. E allora? Rimane la questione del danno materiale, dello sperpero, del dissesto. Come posso provvedere io che vivo lontano? Ci vorrebbe una vigilanza assidua. Soltanto Diego potrebbe esercitarla. Parlerò con Diego, prenderò accordi con lui... In fondo, ora, tutto si riduce alla dote di Camilla. Infatti, Alberto si agita molto per questo, ed è il più fastidioso dei miei sollecitatori. Forse non mi sarà difficile riuscire a qualche cosa.» Egli si proponeva di favorire la sorella contribuendo alla costituzione della dote; poiché, avendo ereditata tutta la fortuna di suo zio Demetrio, egli era ricco e già in possesso dei suoi beni. Il proposito di compiere questo atto di generosità lo inalzò nella sua conscienza. Egli si credette sciolto da ogni altro dovere, da ogni altro atto increscioso, per questo sacrificio del suo denaro.

Andando verso le stanze della madre si sentiva meno inquieto, più leggero, più franco. Sapeva inoltre che fin dalla mattina il padre era tornato alla casa di campagna dove soleva ritirarsi per avere maggior libertà nelle sue pratiche. E gli era di gran sollievo il pensare che la sera, a cena, un posto sarebbe rimasto vuoto.

- Ah, Giorgio, tu vieni a tempo! - gli gridò la madre, vedendolo entrare.

Quella voce irosa lo ferì d'improvviso così acutamente ch'egli si arrestò; e guardò la madre stupito, tanto gli parve trasfigurata dalla collera che la scoteva. Guardò Diego, senza comprendere; guardò Camilla che stava in piedi muta e ostile.

- Che è accaduto? - balbettò volgendo di nuovo gli occhi sul fratello, attratto dall'espressione malvagia che per la prima volta gli vedeva nel viso così manifesta.

- Manca la cassa dell'argenteria - disse Diego, senza sollevare gli occhi, accigliato, mangiandosi le parole - e pretendono, qui, che sia stato io a farla sparire...

Un flutto di parole amare ruppe dalla bocca irriconoscibile della disgraziata.

- Sì, tu, tu, d'accordo con tuo padre... Tu hai tenuto mano a tuo padre... Ah, che infamia! Anche questo! Anche questo! Avere contro di me anche chi ha bevuto il latte mio! Ma tu solo gli somigli, tu solo... Per gli altri il Signore mi fece la grazia: il Signore Dio benedetto, che sia sempre benedetto per questa grazia che mi fece! Tu solo gli somigli, tu solo...

Ella si volse a Giorgio che era rimasto come paralizzato, senza moto, senza voce. Il mento le tremava forte. Ed ella era così convulsa che pareva dovesse da un attimo all'altro stramazzare sul pavimento.

- Ora vedi come si vive qui? Lo vedi? Tutti i giorni è un'infamia nuova. Bisogna stare qui a lottare tutti i giorni, a difendere questa povera casa dal saccheggio, tutti i giorni, senza riposo. Credi tu che, se potesse, tuo padre non ci ridurrebbe su la paglia, non ci leverebbe anche il pane? E così sarà, così finiremo. Tu vedrai, tu vedrai...

Ella seguitava, affannosamente, come ricacciando in gola un singhiozzo ad ogni pausa, mettendo a tratti una voce rauca che esprimeva un odio quasi selvaggio, incredibile in quella creatura d'apparenze così delicate. E tutte le accuse, di nuovo, ruppero dalla sua bocca. - Quell'uomo non aveva più nessun ritegno, nessun pudore. Non indietreggiava più davanti a nulla e a nessuno, per far denaro. Aveva perduta la ragione; pareva in preda a una pazzia furiosa. Aveva rovinate le terre, tagliato gli alberi, venduto il bestiame, così, alla cieca, alla prima occasione, al primo offerente. Ora incominciava a spogliare la casa, dove i suoi figli erano nati. Da molto tempo aveva messi gli occhi su quell'argenteria: argenteria di famiglia, antica, ereditaria, custodita sempre come una reliquia della grandezza di Casa Aurispa, conservata fino a quel giorno intera. A nulla era valso l'averla nascosta. Diego s'era accordato col padre. Tutt'e due, eludendo ogni vigilanza, l'avevano trafugata per gittarla chi sa in quali mani!

- Non ti vergogni? - ella seguitava, rivolta a Diego che conteneva a stento lo scoppio della sua violenza. - Non ti vergogni di metterti con tuo padre contro di me? Contro di me che non t'ho mai negato quel che m'hai chiesto, che ho fatto sempre quello che hai voluto! Eppure tu lo sai, tu lo sai dove va quel denaro; e non ti vergogni! Non dici nulla? Non rispondi? C'è tuo fratello, qui. Dimmi dov'è andata la cassa. Lo voglio sapere. Intendi?

- Ho detto che io non lo so, che io non l'ho vista, che io non l'ho presa - gridò Diego, senza più contenersi, con uno scoppio brutale, scrollando il capo, acceso in viso da una fiamma cupa che più lo faceva rassomigliare all'assente. - -Hai capito?

La madre, divenuta pallida come una morta, guardò Giorgio e quasi parve con quello sguardo comunicargli quel pallore.

- Diego! - disse il primogenito tremando d'un tremito innascondibile - esci di qui.

- Escirò quando mi piacerà - rispose Diego, alzando le spalle con alterigia ma senza guardare negli occhi il fratello.

Allora una esasperazione subitanea prese Giorgio: una di quelle esasperazioni estreme che, negli uomini deboli e obliqui, per l'eccesso della veemenza non si traducono in nessun atto esteriore ma fanno balenare d'innanzi alla volontà oppressa imagini criminose. Il triste odio fraterno che fin dalle origini cova nella natura umana occulto per prorompere alla prima discordia più fiero di qualunque altro odio; quella ostilità inesplicabile che è latente nei maschi dello stesso sangue anche quando li lega l'affetto consueto nella pace delle loro case natali; e quell'orrore che accompagna l'atto o il pensier criminoso e che è forse il risentimento della legge inscritta dall'eredità secolare nella conscienza cristiana: tutto si levò confusamente come in una vertigine che per un attimo abolì in lui ogni altro sentimento e gli diede l'impulso alla percossa. L'aspetto stesso di Diego - quel corpo tarchiato e sanguigno, quella testa rossastra su quel collo taurino - , il riconoscere la superiorità della forza fisica chiusa in quei muscoli, l'autorità di primogenito offesa gli aumentavano il furore. Egli avrebbe voluto avere pronto un mezzo per dominare, per soggiogare, per abbattere quel bruto, senza contrasto, senza lotta. Istintivamente gli guardò le mani: quelle mani larghe, robuste, coperte d'una lanugine fulva, che già a tavola, occupate al servizio della bocca vorace, gli avevano prodotto un senso di ripulsione così vivo.

- Esci ora, sùbito - egli ripeté con una voce più squillante e imperiosa - o chiedi sùbito perdono a mia madre.

E mosse un passo contro il fratello con la mano tesa come per afferrargli un braccio.

- Io non mi lascio comandare da te - gridò Diego guardando finalmente in viso il primogenito; e gli occhi piccoli e grigi sotto la fronte bassa rivelavano un rancore da lungo tempo covato.

- Ah, Diego, bada!

- Non ho paura di te.

- Bada!

- Ma chi sei tu? Ma che vuoi tu qui? - gridò Diego senza più freno. - Tu non hai il diritto di metter bocca in queste cose. Tu sei un forestiero. Io non ti voglio riconoscere. Che hai fatto tu fino a oggi? Tu non hai mai fatto nulla per nessuno; tu non hai fatto che il tuo comodo e il tuo vantaggio, sempre: accarezzato, preferito, tenuto su l'altare. E ora che vuoi? Stattene a Roma e mangiati la tua eredità come ti piace e non t'immischiare in quel che non ti riguarda...

Esalava alfine tutto il suo rancore e la sua gelosia e la sua invidia contro il fortunato che viveva lontano, in una grande città, fra piaceri sconosciuti, estraneo alla famiglia come un essere d'un'altra razza, distinto da mille privilegi.

- Taci! Taci!

E la madre, fuori di sé, interponendosi lo colpì sul viso.

- Vattene! Non dire più una parola! Vattene di qui, vattene da tuo padre. Non ti voglio più sentire, non ti voglio più vedere...

Diego esitava, scosso dal fremito della sua collera, aspettando forse un atto del fratello per scagliarsi.

- Vattene! - ripetè la madre con l'estremo soffio della sua energia, sentendosi venir meno su le braccia di Camilla che la tratteneva.

Egli allora uscì, livido di rabbia, mormorando tra i denti una parola che Giorgio non comprese. E si udì il suo passo pesante allontanarsi per la fuga delle stanze tristi dove già la luce del giorno incominciava a morire.

 

 

 

V

 

Era una sera piovigginosa. Disteso sul suo letto, Giorgio si sentiva così affranto e così triste corporalmente che quasi non pensava più. Il suo pensiero era vago e interrotto; ma le minime sensazioni modificavano e agitavano la sua tristezza: le voci rare dei passanti nella strada, il ticchettìo dell'orologio su la parete, i rintocchi d'una campana lontana, lo scalpitare d'un cavallo, un fischio, lo strepito d'una porta sbattuta. Egli si sentiva solo, separato da tutto il mondo, separato dalla sua stessa vita anteriore per un abisso di tempo incalcolabile. Gli riapparve nell'imaginazione, vagamente, il gesto dell'amante che calava il velo nero su l'ultimo bacio; gli riapparve il fanciullo dalla stampella, che raccoglieva le lacrime della cera. Pensò: «Bisogna morire.» Senza una causa definita, la sua ambascia crebbe d'improvviso e divenne insostenibile. I sobbalzi del cuore gli chiudevano la gola, come negli incubi notturni. Egli si gettò giù dal letto; diede qualche passo per la stanza, smarrito, sconvolto, non potendo contenere quell'ansia. E il suo passo risonava nel suo cervello.

«Chi è? Qualcuno mi chiama?» Aveva nell'orecchio una voce. Tese l'orecchio per coglierla. Non udì più nulla. Aprì'uscio; si spinse nel corridoio; origliò. Tutto era silenzio. La stanza della zia era aperta, illuminata. Egli fu assalito da uno strano terrore, da una specie di pànico, pensando che avrebbe potuto vedere a un tratto comparir su la soglia la vecchia dalla maschera cadaverica, che aveva l'alito fetido di chi muore per tifo. E gli balenò il dubbio ch'ella fosse morta, ch'ella fosse seduta su la sua sedia, immobile, col mento sul petto, morta. L'imagine aveva il rilievo della realtà e l'agghiacciava di spavento vero. Rimase fermo, senza osare di muoversi, mentre un cerchio gli fasciava il capo dilatandosi e restringendosi con il palpito dell'arterie come fosse d'una materia elastica e fredda. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l'eccesso delle loro sensazioni. Udì tossire la vecchia, trasalendo. Si ritrasse allora pian piano, su la punta dei piedi, per non farsi sentire.

«Ma che mi accade stasera? Non posso più rimaner solo, qui. Ora scendo.» Egli sentiva però che non avrebbe potuto sopportare ancóra l'aspetto doloroso di sua madre, un séguito della scena atroce. «Uscirò. Andrò da Cristina.» Lo persuadeva a quella visita il ricordo dell'ora dolce e triste passata nell'orto con la buona sorella.

Era una sera piovigginosa. Nelle vie già quasi deserte i fanali rari si affiochivano. Da un forno chiuso venivano le voci dei panettieri all'opera e l'odore dei pani; da una cantina, i suoni d'una chitarra accordata in diapente e il ritornello d'una canzone del paese. Una frotta di cani randagi passò in corsa perdendosi nei vicoli bui. L'ora scoccò dal campanile.

Camminando, all'aria aperta, Giorgio perdeva a poco a poco la sua eccitazione, pareva come vuotarsi di quella vita fantastica che gli ingombrava la conscienza. Egli era attento alle cose che vedeva, che udiva. Si soffermò ad ascoltare i suoni della chitarra, ad aspirare l'odore del pane. In una persona che passò nell'ombra dalla parte opposta della via credette di riconoscere Diego. Si turbò; ma sentì che ogni rancore era caduto, che nulla di violento era rimasto in fondo alla sua tristezza. Gli ritornarono nella memoria certe parole del fratello. Pensava: «Non ha forse detto il vero? Io non ho mai fatto nulla per nessuno; ho sempre vissuto per me solo. Sono uno straniero, qui. Forse tutti, qui, mi giudicano nello stesso modo. Mia madre diceva: - Ora vedi come si vive qui? Lo vedi? - Io potrei vedere scorrere tutte le sue lacrime, e non avere la forza di salvarla...»

Giungeva alla porta del palazzo Celaia. Entrò, attraversò l'androne; passando nel cortile, alzò gli occhi. Non appariva lume a nessuna delle alte finestre; nell'aria era un odore come di paglia fradicia; una cannella d'acqua chioccolava in un angolo oscuro; una piccola lanterna ardeva sotto il portico d'innanzi a una imagine della Vergine coperta d'una grata, e a traverso la grata si scorgeva a piè della Vergine un mazzo di rose finte; i gradini della larga scala erano consunti nel mezzo dall'uso come quelli degli altari vetusti, e in ognuno di quei cavi la pietra liscia riluceva giallognola. Tutte le cose esprimevano la malinconia della vecchia casa ereditaria dove Don Bartolomeo Celaia, rimasto solo e sul limitare della vecchiezza, aveva condotto quella compagna e procreato quell'erede.

Nel salire, Giorgio vedeva con gli occhi dell'anima quella giovine donna pensierosa e quel bimbo esangue lontanissimi, in una lontananza chimerica, in fondo a una stanza remota dove non si poteva giungere. Ebbe per un momento il pensiero di tornare indietro; e si fermò perplesso, a mezzo della scala bianca alta e deserta, in una inquietudine indefinibile, avendo di nuovo smarrito il senso della realtà presente, sentendosi di nuovo turbato da un terrore vago come dianzi nel corridoio alla vista della porta aperta e vacua. Ma d'un tratto udì uno strepito e una voce come di chi scacciasse qualcuno; e un cane grigio, sfiancato, miserabile, un bastardo della strada, che era forse salito furtivamente spinto dalla fame, si precipitò giù per la scala passandogli rasente. Un domestico apparve sul pianerottolo in atto d'inseguire il fuggiasco strepitando.

- Che c'è? - chiese Giorgio in cui l'agitazione della sorpresa era visibile.

- Nulla, nulla, signore. Scacciavo un cane: un cane di piazza, che tutte le sere s'intromette nella casa, non si sa di dove, come uno spirito.

Il fatto insignificante e le parole del domestico gli aumentarono quella inesplicabile inquietudine che somigliava all'ansia confusa d'un presentimento superstizioso. Egli chiese, e la domanda fu suggerita da quell'ansia:

- Sta bene Luchino?

- Bene, signore: grazie al cielo.

- Dorme?

- No, signore: è ancóra sveglio.

Preceduto dal servo attraversava stanze ampie, che quasi parevano vuote, dove le suppellettili di forma antiquata erano disposte simmetricamente. Mancava ogni indizio degli abitanti, come se quelle stanze fossero rimaste chiuse fino allora. Ed egli pensò che Cristina non amava quella casa, già che non vi aveva diffusa la grazia della sua anima. In gran parte era rimasta intatta, nell'ordine in cui la sposa l'aveva trovata entrandovi il giorno delle nozze, nell'ordine in cui l'aveva lasciata l'ultima delle donne di Casa Celaia scomparse.

La visita inattesa rallegrò la sorella che era sola, in procinto di mettere a letto il suo bambino.

- Oh, Giorgio, come hai fatto bene a venire! - esclamò ella con una effusione di gioia sincera, abbracciandolo, baciandolo su la fronte, dilatando subitamente con la sua tenerezza quel cuore serrato. - Vedi, Luchino, lo zio Giorgio? Non gli dici nulla? Su, dagli un bacio!

Un sorriso tenue apparve su la bocca pallida del bimbo; e, come egli chinò la testa, le lunghe ciglia chiare s'illuminarono di sopra e gli misero la loro ombra palpitante su le gote smorte. Allora Giorgio lo sollevò tra le sue braccia, provando una pena profonda nel sentire sotto le dita la gracilità di quel petto infantile dove il cuore aveva un battito così debole. Egli n'ebbe un senso quasi di temenza come se per quel premere lieve quella vita esigua si dovesse spegnere: un senso di temenza e di pietà, un poco simile a quello già provato una volta nel tener prigioniero dentro la mano un uccelletto sbigottito.

- È come una piuma - disse; e la sua commozione tremò nelle sue parole, fu indovinata dalla sorella.

Lo fece sedere su le sue ginocchia, gli accarezzò il capo; gli domandò:

- Quanto bene mi vuoi?

Il cuore gli si riempiva d'una tenerezza insolita. Lo premeva un bisogno desolato di veder sorridere quel povero bimbo sofferente, di vedergli apparire su le gote almeno una volta un rossore fuggevole, il più lieve fiore del sangue sotto la pelle diafana.

- Che hai qui? - gli domandò, vedendogli un dito fasciato.

- Si tagliò, l'altro giorno - disse Cristina che seguiva con gli occhi intenti ogni gesto del fratello. - Un piccolo taglio; e non gli si vuol chiudere ancóra.

- Mi lasci vedere, Luchino? - fece Giorgio mosso da una curiosità penosa e pure sorridendo per richiamare un sorriso. - Con un soffio io ti guarirò.

Il bimbo, attonito, si lasciò sfasciare il dito malato. Giorgio metteva nell'atto un'infinita delicatezza, sotto lo sguardo inquieto della sorella. L'estremità della fascia s'era attaccata su la piaghetta; ed egli non ebbe cuore di staccarla, ma vide che una goccia bianchiccia, come di siero, si formava su l'orlo scoperto. Gli tremavano le labbra. Alzò gli occhi; s'accorse che la sorella pendeva dai suoi gesti, con il viso alterato da una contrazione dolorosa; sentì che l'anima di lei in quel momento s'era tutta raccolta nella palma di quella piccola mano.

- Non è nulla - disse.

Tentò di sorridere, mettendo un soffio per illudere il bimbo che aspettava il miracolo. Poi fasciò di nuovo il dito, pianamente. Ripensava a quella strana ansietà che l'aveva invaso su per la scala deserta, al cane scacciato, alle parole del servo, alle domande che gli aveva suggerite un timore superstizioso, a tutta quell'agitazione senza causa.

Vedendolo assorto, Cristina gli chiese:

- A che pensi?

- A nulla.

Poi, sùbito, senza riflettere, credendo di dire una cosa che potesse risvegliare l'attenzione del bimbo già sonnolento:

- Sai? Ho incontrato un cane per la scala...

Il bimbo spalancò gli occhi.

- Un cane che viene tutte le sere...

- Ah, già, me l'ha detto Giovanni - fece Cristina.

Ma si interruppe vedendo gli occhi aperti e sbigottiti del bimbo che stava per rompere in un pianto.

- No, no, non è vero - soggiunse, togliendolo di su le ginocchia di Giorgio e stringendoselo fra le braccia - non è vero, Luchino. Lo zio scherza.

- Non è vero, non è vero - ripeté Giorgio alzandosi, sconvolto da quel pianto che non somigliava a nessun altro pianto infantile perché pareva che la povera creatura vi si disfacesse.

- Andiamo, andiamo - diceva la madre, con la voce lusinghevole. - Ora Luchino va a letto.

Passò nella stanza attigua, così cullando tra le carezze il figliuolo lacrimoso.

- Vieni anche tu, Giorgio.

Egli la guardava mentre ella svestiva il bimbo. A poco a poco ella lo svestiva, con cautele infinite, come temendo d'infrangerlo; ed ogni gesto di lei rivelava dolentemente la miseria di quelle membra esili ove già incominciavano ad apparire le deformazioni della rachitide incurabile. Il collo era sottile e floscio come uno stelo appassito; lo sterno, le costole, le scapule sembravano trasparire a traverso la pelle rilevati anche più dall'ombra che empiva gli spazii cavi; le ginocchia ingrossate avevano la forma di due nodi; il ventre un po' gonfio dava risalto alla magrezza acuta delle anche, segnato da un ombelico sporgente. Come il bimbo sollevava le braccia perché la madre gli mutasse la camicia, Giorgio provò una pietà dolorosa fino allo spasimo scorgendo quelle piccole ascelle gracili che parevano rivelare pur in quel semplice atto la pena d'uno sforzo contro il languore letale ove la tenue vita stava per estinguersi.

- Bacialo - gli disse la sorella sollevando il bimbo verso di lui, prima di metterlo sotto le coperte.

Poi prese le mani del bimbo: gli mosse quella dal dito fasciato, nel segno della croce, dalla fronte al petto, dall'una all'altra spalla; gliele congiunse nell'Amen.

Una gravità funebre era in ogni cosa. Quel bimbo pareva già un morticino, nella sua lunga camicia bianca.

- Dormi ora, amor mio; dormi. Noi siamo qui.

Fratello e sorella, ancóra una volta confusi nella medesima tristezza, sedettero al capezzale, da una parte e dall'altra. E non parlarono. Si sentiva l'odore delle medicine accumulate su un tavolo accanto al letto. Una mosca si staccò dalla parete, volò verso la fiammella della candela con un ronzìo forte, si posò su la coperta. Un mobile scricchiolò, nel silenzio.

- S'addormenta - disse Giorgio a voce bassa.

Entrambi erano assorti nella contemplazione di quel sonno che ad entrambi dava imagine della morte: occupati da una specie di stupore affannoso, incapaci di distrarre il loro pensiero da quel punto.

Passò un tempo indefinito.

D'improvviso il bimbo gittò un grido di spavento, spalancò gli occhi sollevandosi dal guanciale, come atterrito da una visione truce.

- Mamma! Mamma!

- Che hai? Che hai, amor mio?

- Mamma!

- Che hai, amor mio? Sono qui.

- Scaccialo! Scaccialo!

 

 

 

VI

 

A cena (dove Diego non era comparso) Camilla non aveva ripetuto velatamente l'accusa quando con un sospiro aveva detto: - Occhio non vede, cuore non dole - ? E nelle parole della madre (come presto aveva ella dimenticata la fine lacrimosa del colloquio alla finestra!), anche nelle parole della madre quell'accusa non era riapparsa più d'una volta?

Pensava Giorgio, non senza amarezza: «Tutti, qui, mi giudicano nello stesso modo. Nessuno, insomma, mi perdona questa mia rinunzia volontaria alla primogenitura, e l'eredità di mio zio Demetrio. Avrei dovuto rimanere nella casa a vigilare la condotta di mio padre e di mio fratello, a tutelare la felicità domestica! Nulla, secondo loro, sarebbe accaduto se io fossi rimasto qui! La colpa, dunque, è mia. Ed ecco l'espiazione.» Egli sentiva su di sé pesare una specie di sopruso, si sentiva come indignato da una violenza iniqua, avanzandosi per la strada che conduceva al luogo dove s'era ritirato il nemico, incontro al quale finalmente egli era stato spinto con mezzi estremi, quasi a colpi di frusta, senza misericordia. Gli pareva d'essere la vittima d'una gente feroce ed implacabile che non volesse risparmiargli nessuna tortura. E il ricordo di certe frasi della madre (proferite quel giorno dei funerali, nel vano della finestra, tra le lacrime) aumentava la sua amarezza, inaspriva la sua ironia. - No, no, Giorgio; tu non ti devi affliggere, tu non devi soffrire... Io dovevo tacere, non dovevo dirti nulla... Non piangere più. Io non posso vederti piangere! - Eppure da quel giorno non gli era stata risparmiata nessuna tortura. Quel piccolo episodio non aveva portato mutazione alcuna nel contegno della madre verso di lui. Nei giorni seguenti ella gli era sempre apparsa nell'ira e nella violenza; ella lo aveva condannato ad ascoltare di continuo accuse vecchie e nuove aggravate da mille particolarità ributtanti, lo aveva condannato quasi a numerarle nel volto a una a una le tracce della sofferenza patita; quasi gli aveva detto: - Guarda come il pianto mi ha bruciato gli occhi, come queste rughe sono profonde, come qui su le tempie i capelli sono canuti. E non posso mostrarti il cuore! - A che era valso dunque il grande affanno di quel giorno? Ella aveva bisogno di vedere scorrere le lacrime vive per commuoversi di pietà? Non sentiva tutta la crudeltà del supplizio ch'ella infliggeva al figliuolo inutilmente? «Ah come sono rare su la terra le creature che sanno soffrire in silenzio e accettare il sacrifizio sorridendo!» Ed egli così giungeva sino a disconoscerla, sino a dolersi di quella imperfezione nel soffrire: sconvolto ancóra ed esasperato dagli eccessi recenti di cui egli aveva dovuto essere testimonio e partecipe; tenuto già dall'orrore dell'atto definitivo ch'egli si accingeva a compiere.

Ma, come avanzava nella via (aveva rifiutata la vettura e s'era incamminato a piedi per esser libero di prolungare a suo arbitrio la durata del tragitto e forse anche per avere in estremo la possibilità di tornare indietro o di perdersi nella campagna), come avanzava nella via, sentiva crescere quell'orrore indomabile; che alfine sopraffece ogni altro sentimento e coperse ogni altro pensiero. L'imagine del padre, sola, gli occupò la conscienza prendendo il rilievo della figura reale; ed egli incominciò a fingere la scena che doveva accadere, studiò il proprio contegno, preparò le prime frasi, divagò in supposizioni inverosimili, rintracciò memorie lontanissime dell'infanzia, della puerizia, cercò di evocare le diverse attitudini della sua anima verso il padre nei diversi periodi della vita trascorsa. Non riusciva a determinare con precisione la linea ondeggiante del suo affetto filiale, poiché egli non aveva nessun punto stabile e certo su cui fondarsi. Egli non s'era mai indugiato ad esaminare con sincerità quella parte della sua conscienza, ma aveva preferito di lasciarla nell'ombra. Egli non aveva mai voluto approfondire quell'istinto di avversione che sempre, anche nei tempi più remoti e più felici, aveva formato il fondo di ogni sentimento in lui suscitato dai rapporti diretti con la persona del padre.

«Forse non l'ho mai amato» pensò. E in nessuno dei suoi ricordi più chiari trovò un atto spontaneo di confidenza, una espansione di calda tenerezza, una commozione intima e soave. E anche nei ricordi confusi dell'infanzia lontana trovò soverchiante ogni altro affetto un timore quasi continuo, il timore del castigo corporale, della parola aspra seguìta dalla percossa. «Non l'ho mai amatoDemetrio era stato il suo vero padre; era il suo vero unico parente.

E rivide l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava una espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

Come sempre, l'imagine del morto gli diede una subitanea sollevazione e lo alienò d'un tratto dalle cose che fino a quel punto lo avevano occupato. Le inquietudini si placarono; l'amarezza si posò al fondo; la ripugnanza cedette a un senso nuovo di sicurtà tranquilla. - Che aveva egli da temere? Perché aveva egli così puerilmente accresciuta nella sua imaginazione la sofferenza che lo aspettava e che era omai necessaria? - E ancóra una volta egli ebbe profondo un senso di completo distacco dalla sua vita presente, dallo stato presente del suo essere, dalle contingenze che più lo turbavano. Ancóra una volta, sotto l'influsso che dal sepolcro esercitava su lui il consanguineo, egli si sentì avvolgere come da un'atmosfera isolante e smarrì la nozione precisa di ciò che era avvenuto e di ciò che doveva avvenire; e gli avvenimenti reali parvero perdere per lui ogni significato, non avere altro valore se non di tempo, quasi che egli rassegnato dovesse fatalmente passarvi a traverso per giungere a una liberazione prossima di cui fosse egli già consapevole e sicuro nel suo animo.

Interrotto così il travaglio interno, ottenuta senza sforzo quella pausa singolare di cui egli non si stupiva, parve che allora soltanto le sue pupille ricevessero lo spettacolo dei luoghi solitarii e grandiosi. Ma la sua attenzione fu calma ed eguale. Egli credeva riconoscere nell'aspetto della campagna il suo sentimento esternato e quasi le tracce visibili dei suoi pensieri.

L'ora era pomeridiana. Un cielo puro e liquido bagnava del suo colore tutte le apparenze terrestri e sembrava diminuirne la materialità penetrandole con infinita lentezza. Le varie forme vegetali, distinte da presso, perdevano a mano a mano nella digradazione i loro contorni come se vaporassero per il sommo, tendendo a comunicare in una sola immensa forma confusa e respirante d'un solo ritmico respiro. Così, a mano a mano, sotto il diluvio ceruleo, le minori alture si agguagliavano e la valle profonda assumeva 1'aspetto di un golfo pacifico a specchio del cielo. Sola da quella eguaglianza si levava la montagna opponendo allo spazio liquido la solidità incrollabile del suo lineamento che il candore delle nevi illustrava d'una irradiazione sublime.

 

 

 

VII

 

La villa alfine apparve prossima tra gli alberi, con le due ampie terrazze laterali circondate di ringhiere che si appoggiavano a piccoli pilastri di pietra ornati da vasi di terracotta in forma di busti raffiguranti re e regine a cui gli aloè con le loro punte aguzze formavano sul capo vive corone.

La vista di quelle rozze figure rossastre, delle quali talune campeggiavano intiere nell'azzurro luminoso, risvegliò in Giorgio subitamente nuove memorie dell'infanzia lontana: memorie confuse di ricreazioni campestri, di giuochi, di corse, di favole imaginate intorno a quei re immobili e sordi nel cui cuore d'argilla si profondavano le radici di quelle piante tenaci. Egli si ricordò perfino d'aver prediletto per lungo tempo una regina a cui una pianta grassa e pendula componeva una folta capellatura prolissa che in primavera si constellava tutta d'innumerevoli fioretti d'oro. E la cercò con gli occhi curioso, riavendo già nella mente le imagini della vita oscura e intensa di cui la sua fantasia puerile l'aveva animata. La riconobbe sul pilastro di un angolo. Sorrise come se avesse riconosciuto un'amica; e tutta la sua anima per alcuni istanti restò protesa verso il passato irrevocabile, ma non senza qualche dolcezza. Il proposito finale, che gli s'era formato dentro pacatamente nella pausa improvvisa in mezzo alla campagna glauca e taciturna, pareva che ora gli facesse ritrovare nelle sensazioni un sapore dissueto e lo inducesse a risalire fin nei meandri più remoti il corso della sua esistenza prossimo al termine statuito. Quella curiosità per le manifestazioni anche più tenui che il suo essere aveva disperse nel tempo e quella simpatia commossa per le cose con cui egli aveva anteriormente comunicato tendevano a mutarsi in una tenerezza molle e lacrimosa, quasi feminile. Ma egli si scosse udendo alcune voci presso il cancello; riacquistò il senso della realtà presente, e provò di nuovo l'ansia primitiva guardando una finestra aperta dove tra le tende bianche pendeva una gabbia con un canarino. I dintorni erano tranquilli; e si udiva distinto il gorgheggio del prigioniero.

Egli pensò, con orgasmo: «La mia visita è inaspettata. Se quella femmina fosse ora con lui?» Vide presso il cancello due bambini che giocavano con la ghiaia. Senza avere il tempo di esaminarli, indovinò che quelli erano i suoi fratelli illegittimi, i figli della concubina. Come egli s'avanzava, i due bambini si volsero e rimasero a guardarlo attoniti ma senza peritarsi. Erano sani, robusti, floridi, con le guance invermigliate dalla salute, con l'impronta manifesta della loro origine. Sconvolto, assalito da uno sgomento irresistibile, egli pensò di nascondersi, di tornare indietro, di fuggire; e alzò gli occhi alla finestra temendo di vedere affacciarsi fra le cortine il padre o quella femmina odiosa di cui egli aveva udito raccontar tante volte le perfidie e le cupidigie e tutte le vergogne.

- Oh, signorino, come qua?

Era la voce di un familiare che gli veniva incontro. Nel tempo medesimo, dalla finestra il padre diceva:

- Giorgio, sei tu? Che sorpresa!

Egli si ricompose, fece il viso ridente, cercò di prendere un'aria disinvolta. Sentì che già tra lui e il padre s'era stabilita quell'artificiale relazione di forme quasi cerimoniose con cui da alcuni anni entrambi dissimulavano il loro impaccio quando si trovavano in contatto immediato e inevitabile. E anche sentì che la sua volontà era di nuovo abolita totalmente e ch'egli non sarebbe stato capace di esporre con schiettezza il vero motivo di quella visita inattesa.

Gli diceva il padre dalla finestra:

- E non sali?

- Sì, sì, salgo.

Egli avrebbe voluto mostrare di non aver fatto attenzione ai due bambini. Si mise su per la scalinata scoperta che conduceva a una delle grandi terrazze. Il padre gli venne incontro. Si baciarono. Era palese nel padre una ostentazione di maniere affettuose.

- Come mai ti sei risoluto a venire?

- Ho voluto fare una passeggiata a piedi e sono arrivato sin qui. Da molto tempo non rivedevo questi luoghi. Non trovo nulla mutato...

Egli guardava intorno per la terrazza spalmata di asfalto, considerava i busti a uno a uno, esagerando la sua curiosità.

- Tu ora stai quasi sempre qui; è vero? - chiese, per dire qualche cosa, per sfuggire alla pena degli intervalli di silenzio che prevedeva lunghi e frequenti.

- Sì, ora spesso vengo a starmene qui - rispose il padre, con nella voce una certa tristezza che sorprese il figliuolo. - L'aria pare che mi giovi... dopo che m'è apparsa questa malattia di cuore...

- Sei malato di cuore! - esclamò Giorgio, volgendosi a lui, con un moto sincero, colpito dalla notizia improvvisa. - E come? da quando? Io non ho mai saputo nulla... Nessuno m'ha detto mai nulla...

E ora guardava bene il padre nel volto credendo di scoprire i segni dell'infermità mortale, a quella gran luce cruda riverberata dal muro su cui batteva il sole obliquo. E ancóra n'aveva una misericordia dolorosa vedendogli quelle rughe profonde, quegli occhi gonfii e intorbidati, quei peli bianchi che gli spuntavano su le guance e sul mento non rasi di fresco, e quei baffi e quei capelli a cui la tintura dava un colore tra verdastro e violaceo, quelle labbra grosse ove il respiro pareva un affanno, quel collo corto che pareva colorito da un sangue stravasato.

- Da quando? - ripeté, senza nascondere il suo turbamento, sentendo diminuire la sua ripugnanza verso quell'uomo che di nuovo egli vedeva sotto la minaccia della morte, agonizzante, contraffatto, in una successione d'imagini rapide evidentissime.

- Chi può dire da quando? - rispose il padre che davanti a quel turbamento sincero aggravava la sua sofferenza come per alimentare e per accrescere quella commiserazione che forse poteva giovargli. - Chi può dire da quando? Questi sono mali che rimangono nascosti per lungo tempo, fin che un bel giorno si rivelano all'improvviso. E non c'è più rimedio! Bisogna rassegnarsi, e aspettare di minuto in minuto il colpo...

Così parlando, con una voce alterata, egli pareva spogliarsi della sua durezza e della sua pesantezza brutale, divenire più vecchio, debole, affranto, come per un disfacimento subitaneo di tutta la persona, ma pur con qualche cosa di arteficiato, di eccessivo, di quasi istrionico, che non sfuggì alla perspicacia di Giorgio. Il quale spontaneamente ripensò quegli attori che sul palco scenico hanno la facoltà di trasmutarsi a un tratto come togliendosi e mettendosi una maschera. E anche ebbe una intuizione rapida di ciò che stava per seguire. - Certamente il padre, avendo indovinato il motivo di quella visita inattesa, cercava ora un qualche effetto utile con l'ostentazione della sua sofferenza; e certamente aveva uno scopo ben definito da raggiungere. Quale scopo? - Giorgio non si sdegnò, dentro di sé, non s'irritò, né si preparò a difendersi dal raggiro ch'egli prevedeva con tanta certezza; anzi la sua inerzia crebbe insieme con la sua lucidità. Il disgusto consueto si mescolò alla sua commozione. Ed egli aspettò che la scena si svolgesse per piegarsi a qualunque vicenda, triste e rassegnato.

- Vuoi entrare? - disse il padre.

- Come vuoi.

- Entriamo. Ti debbo mostrare certe carte...

Il padre andava innanzi dirigendosi verso una stanza: verso quella dalla finestra aperta, d'onde si spandevano per tutta la casa i gorgheggi del canarino. Giorgio lo seguiva senza guardarsi intorno. S'accorse che il padre alterava anche il passo per affettare la stanchezza; e provò una pena acuta al pensiero delle degradanti finzioni di cui fra poco sarebbe stato spettatore e vittima. Egli sentiva nella casa la presenza della concubina; era certo ch'ella stava nascosta in qualche stanza e che origliava e spiava. Pensò: «Quali carte mi mostrerà? Che vorrà da me, ora? Vorrà denaro. Coglie l'occasione improvvisa...» E gli sonarono nell'orecchio alcune invettive della madre, gli tornarono alla memoria alcune particolarità quasi incredibili narrate da lei. «E io che farò? Che risponderò

Il canarino cantava nella sua gabbia variando i suoi modi con una voce liquida e forte; mentre le cortine bianche si gonfiavano come due vele lasciando intravedere la lontananza cerulea. Il vento agitava qualcuna delle carte che ingombravano un tavolo; dove Giorgio scorse in un disco di cristallo, che premeva un mucchio di fogli, una vignetta oscena.

- Ah che cattiva giornata, oggi! - mormorò il padre mostrando d'essere tormentato dal cardiopalmo, lasciandosi cadere su una seggiola pesantemente, socchiudendo le palpebre, respirando con affanno.

- Soffri? - disse Giorgio, quasi timido, non sapendo se quella sofferenza fosse vera o simulata, non sapendo come contenersi.

- Sì... ma ora passerà... Appena ho qualche agitazione, qualche inquietudine, mi sento peggio. Avrei bisogno d'un po' di calma, d'un po' di riposo. Invece...

Egli parlava di nuovo con quel suono di lagno interrotto, accorante; che per la vaga somiglianza di qualche accento destò in Giorgio il ricordo della zia Gioconda, della povera ebete nell'atto d'impietosirlo per avere le confetture. Omai la finzione era così palese e così grossolana e così ignobile, e pur nondimeno era così umanamente miserevole lo stato di quell'uomo che si riduceva a quella bassezza per servire il suo vizio implacabile, e nelle espressioni di quel volto v'era pur tanta parte di sofferenza reale, che a Giorgio parve di non poter eguagliare nessun'altra angoscia della sua vita all'orribile angoscia di quell'ora.

- Invece?... - egli domandò, come per incuorare il padre a proseguire, come per affrettare il termine delle sue torture.

- Invece, da qualche tempo, tutto mi va a rovescio, tutto; le disgrazie piombano una dopo l'altra; ho avuto perdite gravissime: tre cattive annate, di séguito: la malattia delle viti, il bestiame decimato; le rendite sono diminuite di più della metà; le imposte sono cresciute, enormemente... Vedi, vedi: queste sono le carte che ti volevo mostrare...

E prese di sul tavolo un fascio di carte, lo svolse sotto gli occhi del figlio, incominciò ad esporre in confuso una quantità di casi complicatissimi riguardanti un'accumulazione d'imposte fondiarie non pagate da parecchi mesi. - Bisognava mettersi in regola sùbito per evitare danni incalcolabili. Era già avvenuto un sequestro e il bando di vendita era imminente. Come fare, nelle angustie temporanee in cui egli si trovava senza sua colpa? Si trattava d'una somma abbastanza forte. Come fare?

Giorgio taceva, tenendo gli occhi fissi su le carte che il padre sfogliava con quella sua mano gonfia, quasi mostruosa, dai pori visibilissimi, singolarmente pallida a contrasto della faccia sanguigna. A intervalli non intendeva le parole ma aveva nell'orecchio la monotonia della voce su cui si distinguevano i gorgheggi acuti del canarino e talvolta i gridi che giungevano dal viale dove forse i due piccoli bastardi seguitavano a giocare nella ghiaia. Le cortine della finestra anche, a tratti, sbattevano investite da un soffio più vivo. E tutte le voci e tutti i romori avevano un senso di tristezza inesplicabile per lui silenzioso che fissava con una specie di stupefazione quelle dense scritture degli uscieri, su cui passava quella mano gonfia e pallida dove apparivano le minute cicatrici dei salassi. Un'imagine gli sorse dalla memoria, stranamente precisa, in un ricordo della fanciullezza: - il padre seduto accanto a una finestra, serio in viso, con la camicia rimboccata su un braccio ch'egli teneva immerso in un catino pieno d'acqua; e l'acqua che s'arrossava pel sangue fluente dalla vena aperta; e accanto, in piedi, il flebotomo che sorvegliava il flusso tenendo pronto l'occorrente per la legatura. - Un'imagine si associava all'altra; ed egli rivedeva le lancette luccicanti nell'astuccio di pelle verde, rivedeva la donna che portava via dalla stanza il catino pieno di sangue, rivedeva la mano legata da un nastro nero che s'incrociava sul dorso pieno e molle affondandovisi un poco...

- Mi stai a sentire? - gli domandò il padre vedendolo così trasognato.

- Sì, sì; t'ascolto.

Ma il padre si aspettava forse, in quel punto, un'offerta spontanea. Deluso, dopo una pausa, vincendo l'imbarazzo, disse:

- Bartolomeo mi salverebbe, dandomi la somma...

Esitò, con nel volto un'espressione indefinibile in cui il figlio scorse come un ultimo guizzo del pudore sopraffatto dal bisogno quasi disperato di giungere allo scopo.

- Mi darebbe la somma, con una cambiale; ma... credo che pretenda la tua firma.

Alla fine, il laccio era teso.

- Ah, la mia firma... - balbettò Giorgio, non turbato dalla richiesta ma dal nome odioso del cognato che già la madre nelle sue accuse gli aveva fatto apparire come un corvo di malaugurio, avido d'ingoiare gli avanzi di Casa Aurispa.

E, com'egli restava perplesso e oscurato senza soggiungere altro, il padre si mise a supplicarlo, vinto ogni ritegno, temendo il rifiuto. - Aveva soltanto quel mezzo: unico mezzo di sfuggire a una vendita giudiziaria disastrosa, che senza dubbio avrebbe determinato tutti gli altri creditori a piombargli addosso. Il crollo sarebbe stato inevitabile. Voleva dunque il figlio assistere a quella rovina? O non vedeva che, adoperandosi in quella circostanza, faceva anche il suo proprio vantaggio, difendeva un'eredità che presto doveva passare a lui e al fratello? Oh presto, assai presto, da un giorno all'altro, forse domani! - E ancóra una volta egli parlò del morbo immedicabile che portava dentro, del pericolo continuo da cui era minacciato, di quelle agitazioni e di quei dolori che gli affrettavano la morte.

Esausto, non potendo più tollerare quella voce e quella vista, ma pure trattenuto dal pensiero di quegli altri carnefici che lo avevano cacciato facendogli violenza e ora lo aspettavano per chiedergli conto della sua azione, Giorgio balbettò:

- Ma veramente questo denaro ti serve per quel che dici?

- Ah, anche tu! Anche tu! - proruppe il padre, mal frenando sotto un'apparenza di dolore esasperato uno de' suoi impeti di collera. - Hanno ripetuto anche a te quel che vanno ripetendo a tutti, sempre, dovunque: che sono un mostro, che ho commesso tutti i delitti, che sono capace di tutte le infamie! E tu ci hai creduto!... Ma perché, ma perché mi odiano così laggiù, in quella casa? Perché mi vogliono veder morto? Ah tu non sai come mi odia tua madre... Se tu ora tornassi da lei e le raccontassi che m'hai lasciato qua agonizzante, ti abbraccerebbe e direbbe: - Dio sia benedetto! - Ah tu non sai...

Riappariva, mal suo grado, nella crudezza della voce, nell'apertura della bocca che inaspriva le parole, nel respiro veemente che gli dilatava le narici, nel rossore bieco degli occhi, l'uomo vero; contro di cui il figlio ebbe un moto dell'avversione primitiva, subitaneo, così forte che senza riflettere, per il bisogno di acquetarlo e di liberarsene, l'interruppe dicendo convulsamente:

- No, no, non so... Dimmi che debbo fare, dove debbo firmare.

E si levò, spinto dall'orgasmo; andò verso la finestra; tornò verso il padre. Lo vide che cercava qualche cosa in un cassetto, con una specie di impazienza ansante; lo vide che metteva sul tavolo una cambiale vergine.

- Ecco, qui: basta che tu metta la tua firma qui...

E l'indice enorme, dall'unghia piatta intorno a cui la carne faceva rilievo, segnò il punto.

Senza sedersi, senza avere la chiara conscienza di quel che faceva, Giorgio prese la penna e firmò rapidamente. Avrebbe voluto già esser libero, uscire da quella stanza, correre all'aria aperta, allontanarsi, trovarsi solo. Ma quando guardò il padre che prendeva la cambiale, esaminava la firma, la spargeva d'un pizzico d'arena per asciugarla, poi la riponeva nel cassetto e chiudeva; quando scorse in ciascuno di quegli atti l'ignobile gioia mal dissimulata dell'uomo che è riuscito in un tiro; quando nel suo animo ebbe la certezza d'essersi lasciato prendere a una frode vergognosa e pensò alle inquisizioni di quell'altra gente che lo aspettava in quell'altra casa, allora il pentimento inutile lo agitò così forte ch'egli fu sul punto di dare sfogo alla sua indignazione estrema, d'insorgere finalmente contro il malfattore con tutte le sue forze per difendere sé stesso, la sua casa, i diritti della madre e della sorella calpestati. Ah, era vero, dunque, era vero tutto quel che la madre gli aveva detto! Tutto era vero. Quell'uomo non aveva più nessun ritegno, nessun pudore. Non indietreggiava più davanti a nulla e a nessuno, per far denaro... - E di nuovo sentì nella casa la presenza della concubina, della femmina avida e insaziabile che certo era nascosta in qualche stanza e origliava e spiava e aspettava la sua parte della preda.

Disse, senza poter frenare il tremito che lo scoteva:

- Mi prometti... mi prometti che quel denaro non ti servirà... per altro?

- Ma sì, ma sì - -rispose il padre mostrandosi ora quasi insofferente di quella insistenza, con una mutazione manifesta in tutto il suo contegno, ora che non doveva più supplicare e fingere per ottenere.

- Bada che io lo saprò - soggiunse Giorgio, divenuto pallidissimo, con la voce un po' soffocata, trattenendo a fatica lo scoppio del suo risentimento che cresceva come più egli rivedeva ora l'uomo nel suo aspetto odioso, come più chiare gli apparivano le conseguenze dell'atto inconsiderato. - Bada: io non voglio essere il tuo complice, contro mia madre...

- Che intendi di dire? - esclamò allora colui, mostrandosi ferito dal sospetto, alzando la voce d'un tratto, come per sopraffare il figlio che con un orribile sforzo lo fissava negli occhi. - Che intendi di dire? Quando finirà di vomitare veleno quella vipera di tua madre? quando finirà? quando finirà? Vuole dunque che io le chiuda la bocca per sempre? Così sarà, uno di questi giorni. Ah che femmina! Da quindici anni, da quindici anni non mi un minuto di requie. M'ha avvelenata la vita, m'ha distrutto. La colpa della mia rovina è sua, capisci?, è sua...

- Taci! - gridò Giorgio, fuori di sé, irriconoscibile, pallido come un morto, tremando in tutta la persona, invasato da un furore simile a quello che già l'aveva sconvolto contro Diego. - Taci! Non la nominare. Tu non sei degno di baciarle i piedi. Ero venuto qui per ricordartelo. E mi son lasciato ingannare dalla tua commedia! Mi son lasciato prendere nel tuo laccio! Tu volevi guadagnare qualche cosa oggi, per la tua baldracca; e ci sei riuscito... Ah, che vergogna!... E hai il coraggio d'ingiuriare mia madre!

La voce gli mancava, nella soffocazione; un velo gli copriva gli occhi; e le ginocchia gli si piegavano come se le forze stessero per abbandonarlo.

- Ora, addio. Esco di qui. Fa quello che vuoi. Non sono più tuo figlio. Non voglio più vederti; non voglio più sapere nulla di te. Mi prenderò mia madre. Me la porterò lontano. Addio.

Uscì barcollando, avendo ancóra gli occhi oscurati. Mentre attraversava le stanze per giungere alla terrazza, udì un fruscìo di vesti e una porta sbattere come dietro una persona che si ritirasse in fretta per non essere sorpresa. Appena fu all'aria aperta, oltre il cancello, ebbe un impeto folle di piangere, di gridare, di correre a traverso la campagna, di battere la fronte contro un macigno, di cercare un precipizio dove finire. Tutti i nervi gli vibravano dolorosamente nella testa e gli davano fitte crudeli come se l'uno dopo l'altro gli si rompessero. Ed egli pensava, con uno sgomento che la morte del giorno rendeva più atroce: «Ora dove andrò? Tornerò laggiù, stasera?» La casa gli pareva retrocessa in una lontananza indefinita e il cammino gli pareva insuperabile; e gli pareva inammissibile tutto ciò che non fosse la cessazione immediata e assoluta del suo spasimo estremo.

 

 

 

VIII

 

La mattina seguente, svegliandosi dopo un sonno torbidissimo, di quelle ore non conservava se non un ricordo confuso. La discesa tragica della sera su la campagna deserta; il suono grave dell'Angelus, ch'eragli parso non aver mai fine, prolungato in lui da un'allucinazione dell'udito; l'ansietà che lo aveva incalzato in vicinanza della sua casa alla vista delle finestre luminose attraversate da qualche ombra mobile; la sovreccitazione quasi febrile da cui era stato preso, alle domande della madre e della sorella, raccontando l'accaduto, esagerando la violenza della sua invettiva e la terribilità dell'alterco; il bisogno quasi delirante di parlare, di parlare molto, di mescolare al racconto dei fatti reali le sue imaginazioni incoerenti; gli impeti di sdegno o di tenerezza con cui l'aveva interrotto la madre, a mano a mano ch'egli le aveva descritto il contegno del bruto e la sua propria sofferenza e la sua propria energia nell'affrontarlo; e poi la raucedine repentina, il crescere rapido del dolore pulsante alle tempie, gli sforzi spasmodici del vomito amaro e infrenabile, il gran freddo che lo aveva assalito nel letto, i fantasmi truci che lo avevano fatto balzare di soprassalto nel primo sopore dei suoi nervi estenuati, - tutto gli tornava in confuso alla memoria aumentandogli quella corporale stupefazione che era penosa e da cui pur tuttavia egli non avrebbe voluto togliersi se non per entrare in una oscurità completa, nella insensibilità del cadavere.

La necessità della morte gli stava sopra pur sempre con la stessa imminenza; ma gli era grave il pensare che per mettere in esecuzione il suo proposito egli avrebbe dovuto escire dall'inerzia, compiere una serie di atti faticosi, superare la ripulsione fisica allo sforzo. - Dove si sarebbe ucciso? Con qual mezzo? Nella casa? In quello stesso giorno? Con un'arma da fuoco? Con un veleno? - Ancóra non si presentava al suo spirito un'idea precisa e definitiva. Lo stesso torpore che lo occupava e l'amarezza della bocca gli suggerirono l'idea di un narcotico. E, vagamente, senza fermarsi a considerare i mezzi pratici con cui avrebbe potuto procurarsi la dose efficace, imaginò gli effetti. Poi, a poco a poco, le imagini si moltiplicarono e divennero più particolari, più distinte; si associarono componendo una scena visibile. Piuttosto che le sensazioni del suo lento perire egli cercava di imaginare le circostanze che avrebbero condotto la madre, la sorella, il fratello a conoscere la sciagura; cercava d'imaginare le manifestazioni del loro dolore, le attitudini, le parole, i gesti. E questa curiosità comprendeva via via tutti i superstiti: non soltanto i congiunti prossimi, ma tutti i parenti, gli amici; e Ippolita, quella Ippolita così lontana, così lontana, divenuta a lui quasi estranea...

- Giorgio!

Era la voce della madre che batteva all'uscio della stanza.

- Oh, mamma, sei tu? Entra.

Ella entrò, si avvicinò al letto con una tenera sollecitudine; gli chiese, chinandosi su di lui, mettendogli una mano su la fronte:

- Come stai? Come ti senti?

- Così... un poco stordito... Ho la bocca amara; vorrei prendere qualche cosa...

- Ora sale Camilla con una tazza di latte. Vuoi che ti apra le imposte, un poco più?

- Come vuoi, mamma.

La sua voce era alterata. La presenza della madre gli acuiva quel sentimento della pietà di sé mosso dalle imagini del compianto funebre ch'egli credeva prossimo. Egli avvicinava quell'atto reale, della madre che apriva le imposte, all'atto prima imaginato in corrispondenza della scoperta terribile; e gli s'inumidivano gli occhi nella commiserazione di sé e della povera donna a cui egli serbava quel colpo; e la scena tragica gli appariva più evidente. - La madre si volgeva nella luce, lo chiamava ancóra per nome un poco sbigottita, si avvicinava di nuovo tremando, lo toccava, lo scoteva, lo sentiva inerte, lo sentiva gelato e rigido; cadeva bocconi sopra di lui svenuta... - «Forse morta? Ella potrebbe rimaner fulminata, sotto il colpo.» E il turbamento gli crebbe; e allora quegli istanti gli parvero solenni perché finali; e l'aspetto e gli atti e le parole della madre assunsero per lui un significato e un valore così insoliti che egli li seguì con un'attenzione quasi ansiosa, uscendo a un tratto dalla sua inerzia interiore e riacquistando a un tratto un senso della vita straordinariamente attivo. Si riproduceva in lui un fenomeno già noto, che più d'una volta lo aveva colpito e reso curioso per la singolarità del processo. Era un passaggio istantaneo da uno stato della conscienza a un altro; il quale aveva con lo stato anteriore la stessa dissimiglianza che è tra la veglia e il sonno, e quasi gli dava imagine della mutazione istantanea che avviene su un palco scenico quando in un attimo i lumi della ribalta si alzano proiettando il massimo chiarore. Nello stato abituale, la sua conscienza era come ricoperta da una superficie opaca che pareva mettere tra quella e la realità una specie di diaframma; il quale anche talvolta si spessiva così da divenire completamente isolante impedendo le percezioni del mondo esteriore. Era, secondo un'imagine visibile, come una sfera di cui non fosse oscuro soltanto il nucleo ma ben anche, in un grado assai minore, un leggero strato periferico. Ma avveniva talvolta, d'improvviso, che quella opacità superficiale scomparisse e che la conscienza si trovasse in contatto immediato con la realità presente; e allora le percezioni sembravano portare qualche cosa di nuovo, sembravano rivelare un nuovo aspetto e una nuova essenza della vita reale e in ispecie di quegli esseri che per la prossimità e per la consuetudine erano fin allora apparsi sotto un aspetto particolarmente determinato.

Così il figliuolo, come già era accaduto il giorno delle esequie, guardò la madre per altri occhi e la vide, quale l'aveva veduta allora, con una strana chiarezza; sentì la vita di lei avvicinata alla sua propria vita, quasi aderente, e le rispondenze misteriose del sangue comune, e la tristizia del destino che sovrastava a entrambi. E, quando la madre tornò verso di lui e sedette accanto, egli si volse, si sollevò un poco dai guanciali; le prese una mano, tentò di coprire il turbamento con un sorriso. Fingendo di guardare la pietra lavorata d'un anello, egli esaminava quella mano lunga e scarna che aveva dal complesso di tutte le particolarità una espressione straordinariamente viva e che dava a lui col contatto dell'epidermide una sensazione non somigliante ad alcun'altra. Pensava, con l'anima pur sempre avvolta dalle ombre delle imagini prima evocate: «Quando ella mi toccherà morto e sentirà quel gelo...» E rabbrividì istintivamente al ricordo del ribrezzo da lui medesimo provato nel palpare un cadavere.

- Che hai? - chiese la madre.

- Nulla... un sussulto nervoso...

- Ah, tu non stai bene! - soggiunse ella scotendo il capo. - Che ti senti?

- Nulla, mamma... Naturalmente, ancóra scosso, un poco...

Ma non sfuggiva allo sguardo materno quel che c'era di forzato e di convulso nel volto del figliuolo.

- Ah come mi pento - ella esclamò - come mi pento d'averti mandato laggiù! Come ho fatto male a mandarti!

- No, mamma. Perché? O prima o poi, era necessario.

Ed egli, non più in confuso, rivisse d'un tratto l'ora tristissima; rivide i gesti, riudì la voce del padre; riudì la sua propria voce, così mutata, che aveva proferito parole tanto gravi, incredibilmente. Gli pareva d'essere estraneo a quel fatto, a quelle parole proferite; e pur non di meno sentiva in fondo all'anima una specie di rimorso oscuro che era quasi una istintiva consapevolezza d'aver ecceduto, d'aver commesso una trasgressione irreparabile, d'aver calpestato qualche cosa d'umano e di sacro. - Perché era egli escito con quell'impeto su dalla grande rassegnazione calma che l'imagine funebre di Demetrio gli aveva infusa apparendo in mezzo alla campagna muta? Perché non aveva egli seguitato a considerare con la stessa pietà dolorosa e veggente la bassezza e l'ignominia di quell'uomo su cui pesava, come su tutti gli altri, un invincibile destino? Egli, egli, che portava nelle vene quel medesimo sangue, non portava anche forse addormentati nella sua propria sostanza tutti i germi di quei mali abominevoli? Egli medesimo, se avesse proseguito a vivere, non avrebbe potuto anche cadere in una simile abiezione? - E tutte le ire, tutti gli odii, tutte le violenze, tutti i castighi gli parvero ingiusti e vani. La vita gli parve un cieco fermento di materie impure. Gli parve di avere nella sua sostanza una quantità di forze occulte inconoscibili e indistruttibili, del cui successivo espandersi fatale s'era composta la sua esistenza fin allora e si sarebbe composta quella a venire s'egli non avesse dovuto obedire appunto a una di quelle forze, che ora gli imponeva l'atto estremo. «E, infine, perché provo rammarico dell'atto di ieri? Avrei potuto io forse non compierlo

- Era necessario - egli ripeté, come a sé medesimo, con un diverso significato.

E assisteva, lucido e attento, allo svolgersi della restante vita.

 

 

IX

 

Quando la madre e la sorella l'ebbero lasciato solo, egli rimase ancóra qualche minuto nel letto provando una ripugnanza fisica a qualunque azione. Lo sforzo dell'alzarsi gli pareva enorme. Troppo gli pareva faticoso abbandonare quella positura orizzontale in cui fra qualche ora egli avrebbe trovata la requie eterna. Ed egli ripensò al narcotico. «Chiudere gli occhi ed aspettare il sonno!» La vergine chiarità della mattina di maggio, l'azzurro che si specchiava nella vetrata, la zona di sole che s'allungava sul pavimento, le voci e gli strepiti che salivano dalla strada, tutte quelle vivaci apparenze, che sembravano quasi fare impeto al balcone per giungere sino a lui e conquistarlo, gli davano una specie di sbigottimento misto di rancore. E gli ripassava nello spirito l'imagine della madre nell'atto d'aprire. Vedeva ancóra Camilla a piè del letto; riudiva le parole dell'una e dell'altra, che si riferivano pur sempre al medesimo uomo. Una esclamazione crudele della madre, proferita con labbra amarissime, gli era rimasta più impressa; ed a quella s'accomunava la visione del volto paterno in cui egli aveva creduto di scoprire i segni dell'infermità mortale: su la loggia, alla violenta luce riverberata dal muro bianco. «Fosse vero!» La madre aveva detto, con acredine, d'innanzi a lui e a Camilla: «Volesse il cielo! Fosse vero!» Ed era quella dunque, per lui prossimo a scomparire dal mondo, era quella l'ultima impressione lasciatagli in cuore dalla creatura ch'era stata un tempo nella sua casa la fonte d'ogni tenerezza ...

Ebbe un moto repentino di volontà: balzò dal letto, risoluto finalmente a operare. «Sarà prima di sera. DovePensò alle stanze chiuse di Demetrio. Prima di formare un disegno preciso, notò in fondo a sé la certezza che il modo gli si sarebbe offerto spontaneamente, nel corso delle ore, per una qualche suggestione improvvisa a cui egli avrebbe dovuto obedire.

Nell'attendere alle cure della persona, era preoccupato dall'idea di preparare il suo corpo per il sepolcro. Appariva in lui quella specie di vanità funeraria che è singolare in certi condannati e in certi suicidi. Osservando in sé stesso questo sentimento, egli lo rendeva più intenso. E gli venne il rammarico di morire in quella piccola città oscura, in fondo a quella provincia incolta, lontano dagli amici che forse per lungo tempo avrebbero ignorata quella fine. Invece, se il fatto fosse accaduto a Roma, nella grande città dov'egli era noto, gli amici lo avrebbero compianto, avrebbero forse ornato di poesia il mistero tragico. E di nuovo egli cercava d'imaginare gli effetti postumi: - la sua attitudine sul letto, nella stanza dei suoi amori; il profondo turbamento delle anime giovenili, delle anime fraterne, al conspetto del cadavere composto in una severa pace; i dialoghi della veglia funebre, al lume dei ceri; il feretro coperto di corone, seguìto da una turba di giovani silenziosi; le parole d'addio pronunziate da un poeta, da Stefano GondiHa voluto morire per non aver potuto rendere la sua vita conforme al suo sogno»); e poi il dolore, la disperazione, la follia d'Ippolita...

Ippolita! Dov'era, che sentiva, che faceva ella?

«Come il presentimento non m'ingannava!» egli pensò. Gli riapparve nell'imaginazione il gesto dell'amante che calava il velo nero su l'ultimo bacio; gli ripassarono nella memoria i piccoli fatti finali. Ma rimaneva per lui inesplicabile quella quasi completa acquiescenza del suo animo nella necessaria definitiva rinunzia al possesso della donna tanto sognata e tanto adorata. Perché, dopo i tumulti e le soffocazioni dei primi giorni, a poco a poco la speranza lo aveva abbandonato ed egli era caduto nella desolante certezza della inutilità d'ogni tentativo inteso a risuscitare quella grande cosa morta e incredibilmente remota: il loro amore? Perché tutto quel passato s'era disgiunto da lui così che, in quei giorni, in mezzo alle nuove torture, egli di rado n'aveva sentito ripercuotere nella conscienza qualche chiara vibrazione?

Ippolita! Dov'era, che sentiva, che faceva ella? A quali spettacoli si aprivano i suoi occhi? Da quali parole, da quali contatti ella era turbata? Come mai, in due settimane circa, ella non aveva saputo trovare il modo di mandargli notizie meno vaghe e meno brevi di quelle contenute in quattro o cinque telegrammi spediti da luoghi sempre diversi?

«Forse già è vinta dal desiderio di un altro uomo. Quel cognato di cui ella mi parlava così spesso...» E il tristo pensiero, mosso dall'abitudine inveterata del sospetto e dell'accusa, si impadronì di lui a un tratto e lo agitò come nelle più cupe ore lontane. Tutti i suoi ricordi amari si risvegliarono in tumulto. Egli riassunse in un sol minuto le sue miserie di due anni, chino allo stesso balcone dove la prima sera tra il profumo dei bergamotti aveva invocato il nome nell'ambascia del primo rimpianto. E gli sembrò che nello splendore del mattino di maggio si dilatasse e arrivasse fino a lui la nuova felicità del rivale sconosciuto.

 

 

 

X

 

Come per iniziarsi al mistero profondo in cui stava per entrare, Giorgio volle rivedere le stanze solitarie dove Demetrio aveva trascorsi i suoi scorni estremi.

Egli aveva ereditato il possesso di quelle stanze, insieme con tutta la fortuna dello zio. Le aveva conservate intatte, religiosamente, come reliquiarii. Occupavano l'ultimo piano; guardavano su l'orto, a mezzodì.

Prese la chiave, e salì le scale con cautela perché nessuno lo interrogasse. Ma, attraversando il corridoio, egli doveva per necessità passare innanzi alla porta della zia Gioconda. Sperando di passare inosservato, camminava piano, su la punta dei piedi; tratteneva il respiro. Udì tossire la vecchia; fece qualche passo più rapido, credendo d'esser coperto dallo strepito della tosse.

- Chi è? - domandò, di dentro, la voce roca.

- Sono io, zia Gioconda.

- Ah sei tu, Giorgio? Vieni, vieni...

Ella comparve su la soglia, con una maschera giallognola, quasi cadaverica nell'ombra, lanciando al nipote un suo sguardo particolare che andava alle mani prima che al volto, come per veder sùbito se le mani portassero qualche cosa.

- Vado nelle stanze di - disse Giorgio, assalito dal disgusto di quel basso odore umano, mostrando di non volersi fermare. - Addio, zia. Vado a dare un poco d'aria alle stanze.

Egli seguitò pel corridoio, giunse all'altra porta; ma, mentre stava per mettere la chiave nella serratura, udì lo zoppicare della vecchia che lo seguiva.

Quella vecchia beghina, quasi idiota, che aveva l'alito fetido di chi muore per tifo, disfatta dai dolciumi, mezzo imputridita fra i suoi santi, quella vecchia era dunque come la custode del luogo. Quella vecchia era la sorella del suicida, la sorella carnale di Demetrio Aurispa!

Giorgio si sentì cadere il cuore, pensando che forse non avrebbe potuto liberarsene, pensando che forse avrebbe dovuto ascoltarne il balbettìo nel silenzio quasi sacro del luogo, tra le memorie care e tremende. Non disse nulla, non si rivolse; aprì la porta, entrò.

La prima stanza era buia, piena d'un'aria tiepida e un poco affogante, sparsa di quel sentor singolare che hanno le biblioteche vetuste. Un filo di luce fioca tradiva la finestra. Giorgio esitò prima di aprire le imposte; tese l'orecchio per cogliere lo stridìo dei tarli. La zia Gioconda si mise a tossire, in quel buio, invisibile. Allora, brancolando su le imposte per trovare il ferro, egli ebbe qualche brivido, un leggero sbigottimento. Aprì; si rivolse: vide le forme vaghe delle suppellettili nella penombra verdognola prodotta dalle persiane; vide nel mezzo la vecchia, curva da un lato, tutta ciondolante, floscia, che biasciava. Spalancò le persiane che cigolarono su i cardini. Un'ondata di sole si diffuse nell'interno. Le tende scolorite diedero un palpito.

Egli restò indeciso, senza potersi abbandonare al suo sentimento, provando fastidio ed inquietudine per la presenza della vecchia. L'irritazione gli crebbe così ch'egli non le disse nulla per tema d'aver la voce irosa e dura. Passò nella stanza contigua, aprì la finestra. La luce si diffuse, le tende palpitarono. Passò nella terza stanza, aprì la finestra. La luce si diffuse, le tende palpitarono.

Non andò oltre. La stanza seguente, nell'angolo, era quella del letto. Egli voleva entrarci solo. Udì, scorato, lo zoppicare della vecchia molesta che lo raggiungeva; si mise a sedere, chiudendosi in un silenzio ostinato, aspettando.

Lentamente, la vecchia passò la soglia. Vide Giorgio seduto, che non parlava; e restò perplessa. Non sapeva che dire. Forse il vento fresco che soffiava per la finestra le provocò di nuovo la tosse; ed ella, in piedi nel mezzo della stanza, tossì. Il suo corpo ad ogni sussulto pareva gonfiarsi e sgonfiarsi come l'otro d'una zampogna a un fiato incostante. Ella si teneva le mani sul petto: certe mani grasse, di sego, con l'unghie orlate di nero. E in bocca, tra le gengive vuote, le tremolava la lingua bianchiccia.

Appena la tosse si calmò, ella trasse di tasca un cartoccio sudicio e prese una pasticca. Stando ancóra in piedi, biasciava e guardava Giorgio con uno sguardo incantato, come una mentecatta. Quello sguardo da Giorgio andò alla porta chiusa della quarta stanza. La divota si fece il segno della croce, poi si mise anch'ella a sedere su la sedia più vicina. Tenendo le mani sul ventre, le palpebre abbassate, recitava una requie.

«Ella prega per l'anima del fratello, per l'anima del dannatopensò Giorgio. E ch'ella fosse la germana di Demetrio Aurispa gli pareva una cosa inconcepibile. Il fiero e gentile sangue che aveva rigato il letto nella stanza contigua, votando un cervello già roso dalle più alte cure dell'intelligenza; tal sangue aveva comuni le origini con quello che scorreva impoverito nelle vene della pinzòchera! «In lei l'ingordigia, l'ingordigia soltanto, rimpiange la generosità del donatore. È singolare questa preghiera riconoscente che parte da un vecchio stomaco guasto, verso il più nobile dei suicidi. Com'è bizzarra la vita

D'un tratto, la zia Gioconda ricominciò a tossire.

- Zia, è meglio che tu te ne vada di qui - le disse Giorgio, non potendo più contenere la sua impazienza. - Quest'aria ti fa male. È meglio che tu te ne vada. Àlzati, via. Ti riaccompagno.

La zia lo guardò, sorpresa dalla voce brusca, dal tono insolito. Si alzò; traversò le stanze, claudicando. Come fu nel corridoio, si fece di nuovo il segno della croce, per esorcismo. Giorgio chiuse dietro di lei la porta, con due giri di chiave; si trovò alfine solo, libero, nella casa del defunto, in compagnia invisibile.

Rimase fermo, qualche minuto, come sotto un'influenza magnetica. Profondissimo gli divenne il sentimento del fascino soprannaturale che dal sepolcro esercitava su lui quell'uomo esistente fuor della vita.

E gli apparve l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

«Per me, esiste» egli pensò. «Dal giorno della sua morte fisica, io sento la sua presenza in ogni ora. Non mai come dopo la sua morte io ho sentita la nostra consanguinità. Non mai come dopo la sua morte io ho avuta la percezione della intensità di quell'essere. Tutto ciò che in lui si disperdeva al contatto de' suoi simili; tutti i suoi atti e i suoi gesti e i suoi detti, nel corso del tempo; tutte le manifestazioni varie che formavano lo special carattere del suo essere in rapporto con gli altri esseri; tutte le forme costanti e variabili che distinguevano la sua persona tra le altre persone, e tra la moltitudine umana particolarizzavano la sua umanità; tutti insomma i segni della sua vita tra le altre vite ora mi sembrano raccolti, circonscritti, concentrati nella sola attenenza ideale che lo lega a me. Egli ora esiste per me solo, immune da ogni altro contatto, comunicando con me solo. Egli esiste, puro ed intenso come non mai.»

Fece qualche passo, pianamente. Il silenzio era animato di piccoli romori occulti, appena percettibili. L'aria viva, il calore del giorno movevano le fibre delle suppellettili inerti, abituate all'oscurità della clausura. Il soffio del cielo penetrava i pori del legno, agitava i granelli della polvere, gonfiava le pieghe dei tessuti. In una riga di sole turbinavano mille atomi. L'odore dei libri a poco a poco era vinto dall'odore dei fiori.

Le cose suggerivano al superstite le memorie. Una moltitudine leggera e mormorante si levava dalle cose, veniva a circondarlo. Le emanazioni del passato sorgevano da ogni punto. Le cose parevano rendere qualche parte d'una sostanza spirituale onde fossero impregnate. «Mi esalto?» egli si domandò, guardando entro di sé le imagini che si succedevano con una straordinaria rapidità, evidentissime, non offuscate da ombra di morte ma viventi d'una vita superiore. «Questa rappresentazione che la mia anima fa a sé stessa è libera d'ogni elemento soprannaturale? Queste imagini si formano in me per la medesima operazione per cui si formano i sogni? Della medesima essenza? Io sono soltanto in preda all'eccitabilità de' miei nervi malatiRestò perplesso, affascinato dal mistero, provando una terribile ansietà nell'arrischiarsi ai confini di quel mondo sconosciuto.

Le tende ondeggiavano come gonfiate in misura da un respiro, con mollezza, lasciando intravedere un paesaggio nobile e calmo. I lievi romori dei legni, delle carte, delle pareti continuavano. Nella terza stanza, severa e semplice, le memorie erano musicali, venivano dai muti istrumenti. Sopra un lungo cembalo levigato, di palissandro, ove le cose si riflettevano come in una spera, riposava un violino nella sua custodia. Sopra un leggìo una pagina di musica si sollevava e si abbassava ai soffii dell'aria, quasi in ritmo con le tende.

Giorgio si avvicinò. Era una pagina d'un mottetto di Felix Mendelssohn: - Domenica II post Pascha: Andante quasi Allegretto: Surrexit pastor bonus... - Più in , sopra un tavolo, giacevano ammonticchiate le partiture per pianoforte e violino, edizioni di Lipsia: Beethoven, Bach, Schubert, Rode, Tartini, Viotti. Giorgio aprì la custodia, guardò il delicato istrumento che dormiva in un velluto color d'uliva, con le sue quattro corde intatte. Preso come da una curiosità di svegliarlo, egli toccò il cantino che diede un gemito acuto facendo vibrare tutta la cassa. Era un violino di Andrea Guarneri, con la data del 1680.

La figura di Demetrio, alta, smilza, un po' curva, con un collo lungo e pallido, con i capelli rigettati indietro, con la ciocca bianca sul mezzo della fronte, riapparve. Teneva il violino. Si passò una mano su i capelli, alla tempia, sopra l'orecchio, con un atto che gli era familiare. Accordò l'istrumento, diede la pece all'archetto; incominciò la sonata. La sua mano sinistra scorreva su le corde, lungo il manico, premendole con la punta delle dita scarne, convulsa e fiera, mentre di sotto la pelle il gioco de' muscoli era così palese che faceva quasi pena. La sua mano destra eseguiva la cavata con un gesto largo e impeccabile. Talvolta, egli appoggiava più forte il mento, reclinava il capo, socchiudeva le palpebre, raccogliendosi tutto nella delizia interiore. Talvolta, egli ergeva il busto, guardava innanzi a sé con occhi splendidi, sorrideva d'un sorriso leggero; e mostrava una fronte straordinariamente pura.

Riapparve così, a Giorgio, il violinista. Ed egli rivisse ore di vita già vissute; le rivisse non soltanto in ispirito ma in sensazione reale e profonda. Rivisse quelle lunghe ore di calda intimità e di oblìo, quando egli e Demetrio, soli, nella stanza tiepida ove non giungeva un romore, eseguivano la musica dei prediletti maestri. - Come si obliavano! In che rapimenti singolari ed alti li traeva, dopo qualche tempo, l'udizione della musica ch'essi medesimi eseguivano! Non di rado, cadevano sotto il fascino di una sola melodia, per tutto un pomeriggio; e non sapevano escire dal circolo magico che li serrava. Quante volte avevano ripetuta una romanza senza parole di Felix Mendelssohn, che aveva rivelato a loro stessi, nel fondo della loro anima, nella parte più intima della loro sostanza, una specie d'inconsolabile disperazione! Quante volte avevano ripetuta una sonata di Ludwig Beethoven, che pareva afferrare la loro anima e trascinarla con vertiginosa rapidità a traverso spazii illimitati inchinandola al passaggio su tutti gli abissi!

Il superstite risaliva all'autunno del 188*, a quell'indimenticabile autunno di malinconia e di poesia, quando Demetrio esciva appena da una convalescenza. Doveva essere l'ultimo autunno! - Demetrio, dopo quel lungo periodo di forzato silenzio, riprendeva il violino con una strana trepidazione, come temendo di aver perduta ogni attitudine e ogni destrezza, di non saper più sonare. Oh, il tremito delle sue dita ancóra deboli su le corde e l'incertezza dell'archetto, quando volle tentare le prime note! E quelle due lacrime che gli si formarono lentamente nel cavo degli occhi e gli rigarono le guance, gli si arrestarono tra i fili della barba un poco allungata, incolta ancóra!

Il superstite rivide il violinista nell'atto d'improvvisare, mentre egli lo accompagnava al pianoforte con un'ansietà quasi insostenibile, cercando di seguirlo, d'indovinarlo, temendo sempre di rompere il tempo, di sbagliare il tono, di prendere un accordo falso, di mancare una nota.

Gli Improvvisi di Demetrio Aurispa erano quasi sempre inspirati da una poesia. Giorgio si ricordò del meraviglioso Improvviso che il violinista aveva tessuto, un giorno di ottobre, su una lirica di Alfredo Tennyson nella Principessa. Egli medesimo, Giorgio, aveva tradotto i versi, perché Demetrio li potesse intendere, e glie li aveva proposti per tema. - Dov'era quel foglio?

Invaso dalla curiosità d'una nuova sensazione triste, Giorgio si mise a cercarlo in un albo che stava tra il fascio delle partiture. Egli sapeva che l'avrebbe trovato; ne aveva la memoria certa e precisa. Infatti lo trovò.

Era un solo foglio, scritto con inchiostro violetto. I caratteri erano impalliditi e il foglio era gualcito, giallognolo, senza più alcuna rigidità, molle come un ragnatelo. Aveva in sé quasi la tristezza delle pagine vergate in tempi remoti da una mano cara, già per sempre scomparsa.

«Io ho scritto questo foglio! Questa è scrittura di mia manodiceva Giorgio a sé medesimo, appena appena riconoscendo i caratteri. Era una scrittura un po' timida, ineguale, quasi feminina; una scrittura che portava in sé ancóra un ricordo della scuola, un'ambiguità dell'adolescenza recente, una gentilezza esitante di anima che non osa ancóra tutto sapere. «Che mutamento anche in questo!» Ed egli lesse i pensieri del poeta, sciolti dalla loro melodia natale. - Lacrime, vane lacrime, io non so che vogliano dire, - lacrime dal profondo di una qualche divina disperazione - sgorgano in cuore e s'adunano negli occhi - alla vista dei felici campi d'autunno, - al pensiero dei giorni che non sono più. - Freschi come il primo raggio, fulgente su una vela - che ci riconduce gli amici dal mondo sottomarino; - tristi come l'ultimo, rosseggiante su la tela - che naufraga con tutto quel che amiamo; - così tristi e freschi i giorni che non sono più. - Ah tristi, strani, come in un'alba oscura - il cinguettìo degli uccelli a pena a pena desti - per orecchi morenti, quando a occhi morenti - la finestra, lentamente, diviene un quadrato pallido; - così tristi, così strani, i giorni che non sono più. - Cari come i baci ricordati dopo la morte; - dolci come quelli imaginati da una fantasia senza speranza - su labbra che sono per altri; profondi come l'amore, - come il primo amore, e selvaggi, di rimpianto; - o Morte nella Vita, i giorni che non sono più.

Demetrio improvvisava in piedi accanto al cembalo, un po' più bianco, un po' più curvo; ma di tratto in tratto ergendosi al soffio dell'inspirazione, come una canna reclinata si erge al soffio del vento. Egli teneva gli occhi fissi alla finestra: dove appariva inquadrato un paese di autunno, rossastro e nubiloso. Una luce mutevole, per le vicende del cielo esterno, a intervalli gli inondava la persona; gli brillava nell'umidità degli occhi; gli dorava la fronte straordinariamente pura. E il violino diceva: - Tristi come l'ultimo raggio rosseggiante su la vela che naufraga con tutto quel che amiamo, così tristi i giorni che non sono più. - E il violino diceva piangendo: - O Morte nella Vita, i giorni che non sono più! -

Un'angoscia estrema assalì il superstite, a questo ricordo, a questa visione. Dopo il passaggio delle imagini, il silenzio gli parve più grave, più vacuo. Il delicato istrumento, dove l'anima di Demetrio aveva cantato i suoi più alti canti, ora dormiva nel velluto della custodia, con le quattro corde intatte.

Egli abbassò il coperchio come sopra un cadavere. Il silenzio gli si fece intorno lugubre. Ma pur sempre gli rimaneva in fondo al cuore il sospiro, simile a una cadenza indefinitamente prolungata: - O Morte nella Vita, i giorni che non sono più! -

Stette, qualche minuto, innanzi alla porta che chiudeva la stanza tragica. Egli sentiva omai di non esser più padrone di sé. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l'eccesso delle loro sensazioni. Un cerchio gli fasciava il capo, dilatandosi e restringendosi con il palpito delle arterie, come fosse d'una materia elastica e fredda. Quel freddo medesimo gli correva per la midolla della spina.

Con una energia subitanea, quasi con veemenza, aprì; entrò. Senza guardarsi intorno, per la striscia di luce che si stendeva sul pavimento gettata dall'apertura della porta, andò diritto a uno de' due balconi; lo spalancò. Spalancò anche l'altro. Si rivolse, un poco sconvolto e affannato da quell'azione rapida ch'egli aveva compiuta sotto l'urgenza d'una specie di orrore. Si accorse che la radice de' capelli gli era divenuta sensibile.

Vide, prima d'ogni altra cosa, il letto; che gli stava di contro, coperto d'una coltre verde, tutto di noce ma semplice, senza intagli, senza parato, senza cortinaggio. Non vide, per qualche istante, altra cosa se non il letto; come allora che, nel giorno terribile, passò quella soglia e stette impietrito innanzi al cadavere.

Evocato dall'imaginazione del superstite, il cadavere, con la testa avvolta in un velo nero, con le braccia non incrociate sul petto ma posate lungo i fianchi, rioccupò il suo posto su la coltre. La gran luce cruda, che irrompeva dai balconi spalancati, non bastava a disperdere il fantasma. La visione non era continua ma intermittente, come veduta tra uno spesso battere di palpebre se bene le palpebre del testimonio rimanessero immote.

Questi udì, nel silenzio dell'aria e dell'anima, distinto, lo stridìo d'un tarlo. E il piccolo fatto bastò a disperdere momentaneamente l'estrema violenza della tension nervosa, come basta la puntura d'un ago a vuotare una vescica gonfia.

Tutte le particolarità del giorno terribile gli tornarono alla memoria: - l'annunzio improvviso portato alle Torrette di Sarsa, verso le tre del pomeriggio, da un corriere ansante che balbettava e piagnucolava; il viaggio fulmineo, a cavallo, sotto la gran canicola, su per le coste infiammate, e nella corsa i sùbiti mancamenti di forza che lo facevano pericolare; e poi la casa tutta piena di singhiozzi, piena d'uno strepito di porte sbattute dalla raffica, piena del rombo ch'egli aveva nelle arterie; e in fine l'entrata impetuosa nella stanza, la vista del cadavere, le tende che si gonfiavano e garrivano, il tintinno dell'acquasantiera su la parete... -

Il fatto era avvenuto nella mattina del 4 agosto, senza alcuna preparazione sospetta. Il suicida non aveva lasciata nessuna lettera, neppure per il nipote. Il testamento, nel quale constituiva erede suo unico Giorgio Aurispa, era già pronto da tempo. Appariva manifesta la cura di Demetrio nell'occultare le cause del suo proposito e anche nel togliere qualunque appiglio ai supposti; e perfino nel distruggere qualunque traccia degli atti che avevano preceduto quello estremo. Tutto nelle stanze era stato trovato in ordine, in un ordine quasi eccessivo. Nessuna carta era rimasta sullo scrittoio; nessun libro era rimasto fuor degli scaffali. Sul tavolino, accanto al letto, la custodia delle pistole, aperta; niente altro.

«Perché si uccise?» L'interrogazione risorse per la millesima volta nello spirito del superstite. «Aveva egli un segreto che gli divorava il cuore? O la crudele sagacità della sua mente gli rendeva insostenibile la vita? Egli portava dentro di sé il suo fato, come io lo porto dentro di me.»

Guardò la piccola pila d'argento che pendeva ancóra a capo del letto, su la parete, segno di religione, pio ricordo materno. Era un'opera elegante dell'antico maestro orafo smaltista di Guardiagrele, Andrea Gallucci; era come un gioiello ereditario. «Egli amava gli emblemi della religione, la musica sacra, l'odore dell'incenso, i crocifissi, gli inni della chiesa latina. Era un mistico, un ascetico, il più appassionato contemplatore della vita interna. Ma non credeva in Dio

Guardò la custodia delle pistole. Un pensiero, latente in fondo al suo cervello, gli si palesò nel guizzo d'un lampo. «Con una di quelle, con la stessa, io mi ucciderò; su lo stesso letto.» L'eccitazione, per un momento decaduta, gli risorse; la radice dei capelli gli ridivenne sensibile. Egli riebbe, in sensazione reale e profonda, il brivido già provato nel giorno tragico, quando con le sue proprie mani aveva voluto sollevare il velo nero di su la faccia del morto ed aveva creduto scorgere a traverso le bende il guasto della ferita, l'orribile guasto prodotto dallo scoppio dell'arma, dall'urto della palla di piombo contro le ossa del cranio, contro quella fronte così delicata e così pura. In realtà, egli non aveva veduto se non una parte del naso, la bocca e il mento. Le fasce a più doppi nascondevano il resto, perché gli occhi forse erano esciti fuori dall'orbite. Ma la bocca intatta, che la barba rada e fina lasciava scoperta, quella bocca appassita e pallida che in vita si apriva così dolce al sorriso imprevisto, aveva assunto dal suggello della morte un'espressione di calma non terrena, resa più straordinaria dallo sfacelo sanguinoso che le fasce nascondevano.

L'imagine, come fermata in una impronta incorruttibile, era rimasta nell'anima dell'erede, nel centro dell'anima; e dopo cinque anni conservava ancóra la medesima evidenza, mantenuta da un potere fatale.

Pensando ch'egli si sarebbe disteso sul medesimo letto e si sarebbe ucciso con la medesima arma, Giorgio Aurispa non aveva quel sentimento agitato e vibrato che dànno i propositi repentini, ma più tosto un sentimento indefinibile come d'una cosa da lungo tempo conosciuta ed ammessa un po' in confuso, la quale ora si chiarisse e dovesse compiersi. Aprì la custodia; esaminò le pistole.

Erano armi fini, rigate, da duello: non molto lunghe, di vecchia fabbrica inglese, con un calcio perfettamente maneggevole. Riposavano nel panno verdechiaro, un po' logoro su gli orli degli incavi; alcuni de' quali contenevano tutto l'occorrente per le cariche. Essendo le canne di bocca alquanto larga, le palle erano grosse: di quelle che, se arrivano, hanno un effetto decisivo immancabile.

Giorgio ne prese una, la pesò nella palma della mano. «Fra cinque minuti potrei già essere morto. Demetrio ha lasciato il solco dove io dovrò coricarmi.» Per una trasposizione fantastica, vide sé stesso coricato su la coltre. Ma quel tarlo, quel tarlo! Egli ne udiva il rodìo chiaro e raccapricciante come se l'avesse dentro il cervello. Si accorse che proveniva dal legno del letto, il rodìo implacabile. Comprese tutta la tristezza dell'uomo che, prima di morire, ode stridere il tarlo sotto di sé. Contemplandosi nell'atto di far partire il colpo, provò in tutti i suoi nervi una tensione angosciosa e repulsiva. Accertando ch'egli poteva non uccidersi, ch'egli poteva indugiare, provò nella parte più profonda della sua sostanza un moto spontaneo di sollievo. Mille fili invisibili lo legavano ancóra alla vita. «Ippolita

Andò verso i balconi, verso la luce, quasi con impeto. Una lontananza di paese ampia turchiniccia e misteriosa dileguava alla vista, nel languore del giorno. Il sole s'inchinava su la montagna, aspergendola d'oro, dolcemente, come su un'amante supina che l'aspettasse. La Maiella, imbevuta di quel liquido oro, s'arrotondava nel cielo come l'arco d'un seno gonfio.

 

 

 


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