Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il trionfo della morte
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LIBRO TERZO L'EREMO

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LIBRO TERZO

 

L'EREMO

 

 

 

I

 

Diceva la lettera d'Ippolita, con la data del 10 maggio: "Finalmente ho un'ora libera per poterti scrivere a lungo! Son dieci giorni che mio cognato va trascinando il suo dolore di albergo in albergo, intorno a questo lago; e noi due lo seguiamo come due anime in pena. Tu non imaginerai mai tutta la malinconia di questo pellegrinaggio. Io non ci reggo più. Aspetto la prima occasione opportuna e prendo congedo. Hai tu già trovato l'Eremo?" Diceva: "Le tue lettere aumentano le mie torture, indicibilmente. Io so il tuo male; indovino che soffri più di quanto puoi esprimere. Darei metà del sangue per giungere una volta a convincerti che io sono tua tua tua, sempre, fino alla morte. Penso a te, soltanto a te, di continuo, in ogni attimo della mia vita. Lontana da te, non trovo un minuto di benessere e di calma. Tutto m'infastidisce e mi irrita....Oh quando potrò starti vicina in tutte le ore del giorno, quando vivrò della tua vita! Tu mi vedrai un'altra. Sarò buona, tenera, dolce. Procurerò di essere sempre eguale, sempre discreta. Io ti dirò tutti i miei pensieri e tu mi dirai tutti i tuoi. Sarò la tua amante, la tua amica, la tua sorella; e, se mi crederai degna, anche la tua consigliera. Io ho una lucida intuizione delle cose; e questa intuizione l'ho sperimentata cento volte e non mi ha mai ingannata. Non mi curerò d'altro che di piacerti sempre, di non essere mai un peso nella tua vita. Tu non dovrai avere da me che dolcezza e riposo... Io ho molti difetti, amico mio. Ma tu mi aiuterai a superarli. Tu mi farai perfetta per te. Da te attendo il primo aiuto. Poi, quando sarò sicura di me stessa, ti dirò: - Ora sono degna; ora mi sento come tu mi vuoi. - E in te sarà anche l'orgoglio di sapere ch'io ti debbo tutto, che io sono in tutto una tua creatura; e ti parrà allora che io sia più intimamente tua; e mi amerai di più, sempre di più. Sarà una vita d'amore come non si è mai veduta...."

In un poscritto: "Ti mando un fiore di rododendro, còlto nel parco dell'Isola Madre. - Ieri, nella tasca di quell'abito grigio che tu conosci, trovai la nota del Grand Hôtel d'Europe à la Poste, la nota d'Albano, che ti chiesi per memoria. È datata: 9 aprile. Ci son segnate molte canestre di legna. Ricordi tu i nostri grandi fuochi d'amore? - Coraggio! Coraggio! La nuova felicità è prossima. Fra una settimana, al più fra dieci giorni, sarò dove tu vorrai. Con te, dovunque!"

 

 

 

II

 

E Giorgio Aurispa, assai poco credulo in fondo ma acceso da un sùbito ardore smanioso, tentò l'ultimo esperimento.

Da Guardiagrele partì pel litorale, alla ricerca. La campagna, il mare, il moto, l'attività fisica, la varietà dei casi nella esplorazione dei luoghi, la singolarità del suo stato, tutte le novità lo riscossero, lo risollevarono, gli diedero un'illusione di confidenza. Gli parve come d'escir salvo per miracolo dall'assalto d'una malattia letale, dopo aver veduta la faccia della morte. La vita ebbe per lui in quei primi giorni il sapore dolce e profondo che ha soltanto per il convalescente. Il sogno romantico d'Ippolita gli pendeva su l'anima.

"S'ella mi guarisse! Un amore sano e forte mi potrebbe guarire." Egli evitava di guardarsi bene a dentro, sfuggiva al sarcasmo interiore che quei due epiteti movevano. "C'è su la terra una sola ebrezza durevole: la sicurtà nel possesso di un'altra creatura, la sicurtà assoluta, incrollabile. Io cerco questa ebrezza. Io vorrei poter dire: - la mia amante, vicina o lontana, non vive se non del pensiero di me; ella è sottomessa con gioia ad ogni mio desiderio, ha la mia volontà per unica legge; s'io cessassi d'amarla, ella morirebbe; spirando, ella non rimpiangerà se non il mio amore." Egli persisteva ad agognare l'amore nelle forme del godimento, invece di rassegnarsi a gustarlo nelle forme del patimento. Egli dava al suo spirito un'attitudine irreparabile. Egli colpiva e difformava ancóra una volta la sua umanità.

Trovò l'Eremo a San Vito, nel paese delle ginestre, su l'Adriatico. Trovò l'Eremo ideale: una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii.

Era una casa d'una architettura primitiva. Una scala scoperta saliva a una loggia su cui si aprivano le quattro porte delle quattro uniche stanze. Ciascuna stanza aveva quella porta e una finestra dalla parte opposta, a riscontro, guardante su l'oliveto. Alla loggia superiore corrispondeva una loggia inferiore; ma le stanze terrene, tranne una, erano inservibili.

La casa confinava da un lato con un abituro basso dove stavano i contadini proprietarii. Due querci enormi, che la perseveranza del grecale aveva piegate verso il colle, ombreggiavano lo spiazzo, proteggevano certe mense di pietra adatte alle cene estive. Limitava lo spiazzo un parapetto anche di pietra, che superavano le robinie cariche di grappoli odorosi, delicate ed eleganti su lo sfondo del mare.

La casa non ad altro serviva che ad albergare forestieri nella stagione dei bagni, secondo l'industria comune del contado di San Vito, lungo la costa. Distava circa due miglia dal borgo, all'estremo confine d'una contrada detta delle Portelle, in una solitudine raccolta e benigna come un grembo. Ciascuno dei due promontorii era traforato; e si scorgevano dalla casa le aperture delle due gallerie. La strada ferrata correva dall'una all'altra, in prossimità del lido, per una lunghezza di cinque o sei cento metri, in linea retta. Dall'estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un Trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale.

L'ospite fuor di stagione fu accolto come una buona ventura, insperata, straordinaria.

Il capo della famiglia, un vecchio, disse:

- La casa è tua.

Ricusò di pattovire. Disse:

- Ci darai quel che vorrai, quando ti piacerà, se sarai contento.

Nel proferire le parole cordiali, egli guardava il forestiero con un occhio così penetrante che questi n'ebbe quasi un senso di fastidio e si stupì di tanta acuità. Il vecchio era monocolo. Calvo sul cranio, con due ciuffi leggeri di canizie su le tempie, con la barba rasa, egli teneva tutto il corpo in avanti su le gambe inarcate. Le sue membra erano deformate dalle rudi fatiche: dall'opera dell'arare che fa sorgere la spalla sinistra e torcere il busto, dall'opera del falciare che fa tenere le ginocchia discoste, dall'opera del potare che curva in due la persona, da tutte le opere lente e pazienti della coltivazione.

- Ci darai quel che vorrai.

Egli aveva già fiutato in quel giovine affabile, dall'aria un po' distratta e quasi smarrita, il signore generoso, inesperto, incurante del denaro. Sapeva che da quella generosità avrebbe ottenuto assai più che da qualunque richiesta.

Giorgio domandò:

- È un luogo tranquillo, senza traffico, senza rumori?

Il vecchio sorrise, indicando il mare.

- Ecco, sentirai quello solo.

Poi soggiunse:

- Anche, qualche volta, il telaio. Ma già, Candia ora non può più tessere.

Sorrise indicando su la soglia la nuora, che arrossì.

Era una femmina incinta, con un ventre già molto grosso, bionda, di carnagione chiara, sparsa di lentiggini. Aveva gli occhi grigi e larghi e nell'iride variegati come agate. Portava agli orecchi due grevi cerchi d'oro e sul petto la presentosa: una grande stella di filigrana con in mezzo due cuori.

Accanto a lei, su la soglia, stava una bambina di dieci anni, anche bionda, con un'espressione mite.

- Quelle po', - disse il vecchio, - è 'na bardàsce che se vev'a nu bbecchjìere d'acque: quella poi è una bambina che si può bere in un bicchier d'acqua. Ecco, siamo noi tre e Albadora.

Rivolgendosi verso l'oliveto, si mise a chiamare:

- Albadò! Albadora!

E alla nipote:

- tu una voce, Ènele.

Elena corse. Il vecchio esclamò:

- Ventidue figliuoli! M'ha partorito Albadora ventidue figliuoli! Sei maschi e sedici femmine. Mi son morti tre maschi e sette femmine. Nove femmine ho maritate. Un maschio s'è imbarcato per l'America; un altro s'è accasato a Tocco e lavora nelle miniere di petrolio; l'ultimo, il marito di Candia, lavora alla ferrovia; torna ogni quindici giorni. Siamo rimasti soli! Eh, signò, nu pàtre cámbe cènde fijje, e ccende fijje nen cámbe nu pàtre: eh, signore, un padre campa cento figli, e cento figli non càmpano un padre.

La Cibele settuagenaria apparve, portando nel grembo un mucchio di grosse chiocciole terrestri, un mucchio bavoso e molle da cui emergevano lunghi tentacoli. Ella era una femmina d'alta statura ma curva, macilenta, disfatta dalla fatica e dalla fecondità, sfiancata dai parti, con una piccola testa grinzosa come un pomo appassito, su un collo pieno di cavi e di corde. Le chiocciole nel suo grembo si agglomeravano, si avvoltolavano, si appiccicavano l'una su l'altra, verdastre, giallastre, biancastre, spumando, tingendosi d'iridi pallide. Una le strisciava sul dorso della mano.

Il vecchio le annunziò:

- Questo signore prende la casa, da oggi.

Ella esclamò:

- Sii benedetto!

E si avvicinò a Giorgio, con un'aria un po' melensa ma benigna, sbirciandolo con que' suoi occhi ritirati in fondo alle orbite, quasi spenti, che mostravano il segno rossiccio della palpebra inferiore rivolta. Soggiunse:

- Arevá' Criste pe' lu munne: Cristo va di nuovo pel mondo. Sii benedetto! Pùezza cambà' quande dure lu pán'e lu vine: possa tu vivere quanto dura il pane e il vino! Pùozz'èsse aute quand'é lu sole: possa tu essere alto quanto il sole!

Ed ella rientrò, con un passo lieto, nella porta d'onde le erano usciti al battesimo ventidue figli.

Il vecchio disse a Giorgio:

- Io mi chiamo Cola di Cinzio; ma, come mio padre era soprannominato Sciampagna, tutti mi chiamano Cola di Sciampagna. Vieni a vedere l'orto.

Giorgio seguì l'agricoltore.

- St'anne la cambágna dice: quest'anno la campagna promette.

Camminando innanzi, il vecchio lodava le verzure e faceva pronostici, per consuetudine di agricoltore invecchiato tra le cose della terra.

L'orto era opulento. Pareva contenere nella sua chiostra tutti i doni dell'Abondanza. Gli aranci versavano tali flutti di profumo che l'aria a intervalli assumeva un sapore dolce e possente come quel d'un vino prelibato. Gli altri alberi fruttiferi non avevano più fiori. Ma una genitura innumerevole pendeva dai rami materni, cullata dall'alito del cielo.

Giorgio pensò: "Forse, ecco la vita superiore: una libertà senza confini; una solitudine fertile e nobile che mi avvolga nelle sue emanazioni più calde; camminare tra le creature vegetali come tra una moltitudine di intelligenze: sorprenderne il pensiero occulto e indovinare il sentimento muto che regna sotto le scorze; rendere successivamente il mio essere conforme a ciascuno di quegli esseri e sostituire successivamente alla mia anima gracile e obliqua ciascuna di quelle anime semplici e forti; contemplare con tal continuità la natura da giungere a riprodurre in me solo il palpito concorde di tutto ciò che è creato; mutarmi infine, per una laboriosa metamorfosi ideale, nell'albero eretto che assorbe con le radici gli invisibili fermenti sotterranei ed imita con l'agitazione delle sue cime il verbo del mare. Non è questa forse una vita superiore?" Egli si lasciava sopravvincere da una specie di ebrietà pànica, al conspetto della esuberante primavera che transfigurava i luoghi intorno. Ma la funesta abitudine della contraddizione gli interruppe il gaudio, gli suggerì l'antico pensiero, gli oppose la realità al sogno. "Noi non abbiamo contatto con la natura. Noi non abbiamo se non la percezione imperfetta delle forme esterne. È impossibile all'uomo comunicare con le cose. L'uomo potrà infondere nelle apparenze create tutta la sua sostanza, ma non riceverà mai nulla in cambio. Il mare non gli dirà mai una parola intelligibile. La terra non gli svelerà mai il suo segreto. L'uomo potrà sentire tutto il suo sangue correre nelle fibre dell'albero, ma l'albero non gli darà mai una goccia della sua linfa vitale."

Diceva il vecchio agricoltore monocolo, additando qualche prodigio di rigoglio:

- Fa cchiù mmeràcule 'na stàlle de letáme, che 'na cchjìese de sánde: fa più miracoli una stalla di letame che una chiesa di santi.

Diceva, additando su i confini dell'orto un campo di fave fiorite:

- La fàf é la spìje de l'annàte: la fava è la spia dell'annata.

Il campo ondeggiava appena appena. Le foglioline d'un color verde grigiastro agitavano le loro minute punte sotto i fiori bianchi o turchinicci. Ciascun fiore, simile a una bocca socchiusa, portava due macchie nere come due occhi. In taluno, non anche bene aperto, i petali superiori coprivano alquanto le macchie, come palpebre pallide su pupille che sogguardassero. Il tremolìo di tutti quei fiori occhiuti e boccuti aveva una strana espressione animale, attirante, indescrivibile.

Giorgio pensò: "Come sarà felice Ippolita, qui! Ella ha un gusto delicato e appassionato per tutte le bellezze umili della terra. Io ricordo i piccoli gridi di meraviglia e di piacere, ch'ella metteva scoprendo una pianta di forma a lei ignota, un fiore nuovo, una foglia, una bacca, un insetto singolari, un'ombra, un riflesso." La imaginò, alta ed agile, in alcune attitudini di grazia tra il verde. Un'ansietà subitanea lo sconvolse, un'ansietà di ripossederla tutta quanta, di rioccuparla tutta quanta, di farsi da lei immensamente amare, di darle ad ogni attimo una nuova gioia. "I suoi occhi saranno sempre pieni di me. Tutti i suoi sensi rimarranno ottusi ad ogni altra sensazione che non le verrà da me. Le mie parole le parranno più dolci di qualunque suono." D'un tratto, il potere dell'amore gli parve sconfinato. La sua vita interna ebbe un'accelerazione vertiginosa.

Salendo la scala dell'Eremo, egli credé che il cuore gli si rompesse all'urto dell'ansietà crescente. Come fu su la loggia, abbracciò lo spettacolo con uno sguardo ebro. Ed egli sentì, tra mezzo ad una agitazione profonda, che in quell'attimo veramente il Sole era dentro il suo cuore.

Il mare mosso da un tremolìo sempre eguale e continuo, rispecchiando la felicità diffusa del cielo pareva come frangerla in miriadi di sorrisi inestinguibili. A traverso il cristallo dell'aria tutte le lontananze apparivano distinte: la Penna del Vasto, il monte Gargano, le isole Trèmiti, a destra; la punta del Moro, la Nicchiòla, la punta di Ortona, a sinistra. Ortona biancheggiava come un'ignea città asiatica su un colle della Palestina, intagliata nell'azzurro, tutta in linee parallele, senza i minareti. Quella catena di promontorii e di golfi lunati dava imagine d'un proseguimento di offerte, poiché ciascun seno recava un tesoro cereale. Le ginestre spandevano per tutta la costa un manto aureo. Da ogni cespo saliva una nube densa di effluvio, come da un turibolo. L'aria respirata deliziava come un sorso di elisìre.

 

 

 

III

 

In quei primi giorni egli diede tutte le sue cure alla piccola casa che doveva accogliere nella grande pace la Vita Nuova; ed era aiutato nei preparativi da Cola di Sciampagna, il quale pareva esperto in ogni mestiere. Su una striscia d'intonaco fresco egli scrisse con la punta di una canna un vecchio motto suggerito dall'illusione: - parva domvs, magna qvies. E vide un buon presagio perfino in tre pianticelle di violacciocche, seminate dal vento negli interstizii di un davanzale.

Ma, quando tutto fu pronto e quell'ardore ingannevole decadde, egli ritrovò in fondo a sé stesso l'inquietudine e lo scontento e quella implacabile ansietà di cui non conosceva la cagione vera. Sentì in confuso ch'egli non aveva trovata la via della salute, la via piana e diritta: sentì in confuso che il suo fato l'aveva spinto ancóra una volta per un sentiero obliquo e mal sicuro. Gli parve che da un'altra casa, da un'altra gente arrivasse ora fino a lui una voce di richiamo e di rimprovero. Si ravvivava nella sua anima l'ambascia di un commiato senza lacrime e pure amarissimo, in cui egli aveva mentito per pudore leggendo negli stanchi occhi della madre delusa una domanda troppo triste: «Per chi mi abbandoni

Non gli venivano ora da quella muta domanda, e dal ricordo di quel rossore e di quella menzogna, l'inquietudine, lo scontento e l'ansietà mentre incominciava la vita nuova? E come avrebbe egli potuto soffocare quella voce? in quale ebrezza?

Egli non osava rispondere. Pur nel suo turbamento profondo, voleva ancóra credere alla promessa di colei ch'era per giungere; sperava di poter dare al suo amore un alto significato morale. Non aveva egli una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le sue forze, di sentirsi completo e armonioso? L'amore finalmente avrebbe operato il prodigio; nell'amore finalmente egli avrebbe ritrovata intera la sua umanità già difformata e menomata da tante miserie.

Egli cercava d'ingannare il rimorso con queste speranze e queste tendenze vaghe; ma lo dominava, davanti all'imagine della donna, il desiderio sensuale. E, contro ogni aspirazione platonica, egli non poteva considerare l'amore se non come opera di senso; egli non vedeva i giorni futuri se non come una successione di voluttà già conosciute. In quella solitudine benigna, in compagnia di quella donna appassionata, quale vita avrebbe egli potuto vivere se non una vita oziosa e voluttuosa?

E tutte le tristezze passate gli ritornarono nello spirito, e tutte le dolenti imagini: - il volto estenuato della madre, le palpebre di lei gonfie rosse arse dalle lacrime, il sorriso dolce e straziante di Cristina, il bimbo malaticcio dalla grossa testa sempre china sul petto quasi esanime, la maschera cadaverica della povera mentecatta ingorda...

E gli occhi stanchi della madre chiedevano: «Per chi mi abbandoni

 

 

 

IV

 

Era il pomeriggio. Egli esplorava il sentiero tortuoso che ora saliva ora scendeva andando verso la punta della Penna, lungo il mare. Guardava davanti a sé, intorno a sé, con una curiosità sempre vigile, quasi con uno sforzo d'attenzione, come se volesse comprendere un qualche oscuro pensiero espresso dalle semplici apparenze o impadronirsi d'un qualche inafferrabile segreto.

In un seno del colle litoraneo l'acqua d'un ruscello, derivata in una specie di esiguo acquedotto composto di tronchi scavati e sorretto da altri tronchi morti, attraversava la cavità dall'uno all'altro ciglio. Altri rigagnoli erano guidati da tegole concave nel terreno fertile ove prosperavano le verzure; e qua e , su i rigagnoli luccicanti e mormoranti, certe piante di bei fiori violetti s'inchinavano con una grazia leggera. Tutte quelle cose umili parevano avere una vita profonda.

E l'acqua soverchia scorreva, discendeva per la china verso la spiaggia ghiaiosa; passava sotto un piccolo ponte. All'ombra dell'arco alcune donne lavavano le tele; e i loro gesti si vedevano riflessi nell'acqua come in uno specchio mobile. Su la ghiaia le tele erano spiegate al sole, candidissime. Lungo il binario camminava un uomo scalzo, portando le sue scarpe in mano penzoloni. Una donna esciva dalla casa del guardiano e gettava con un atto rapido qualche avanzo da un canestro. Due fanciulle, cariche di tele, correvano ridendo a gara. Una vecchia sospendeva a una canna una matassa tinta di turchino.

Andando, nella terra tagliata, che faceva da argine al sentiero, minute conchiglie biancheggiavano, esili radici agitate dall'aura palpitavano. Era ancóra visibile il segno della zappa che aveva tagliato la terra fulva. Da un dirupo pendeva un gruppo di radici morte, con una leggerezza di spoglie serpentine.

Più in sorgeva una grande casa colonica portando alla sommità del tetto un fiore d'argilla. Una scala esterna saliva a una loggia coperta. Due donne in cima della scala filavano; e le rócche splendevano al sole come d'oro. S'udiva strepitare il telaio. Si scorgeva per una finestra una tessitrice, e il suo gesto ritmico nel lanciare le spole. Nell'aia contigua stava coricato un bove grigio, enorme; che scoteva le orecchie e la coda placidamente ma incessantemente contro gli insetti molesti. Le galline intorno razzolavano.

Poco oltre, un altro ruscello attraversava il cammino. Rideva: tutto crespo, ilare, vivido, limpido.

Poco oltre, presso un'altra casa, un orto folto di allori taceva recinto. I fusti sottili e diritti sorgevano immobili, coronati dalla fronda lucente. E uno di quegli allori, il più robusto, era tutto avviluppato da una gran vitalba amorosa che vinceva il fogliame severo con la mollezza dei suoi fiori nivei, con la freschezza del suo profumo nuziale. Sotto, la terra pareva smossa di fresco. Da un angolo una croce nera spandeva sul chiuso, nel silenzio, quasi la rassegnata tristezza che regna in un campo santo. In fondo alla viottola si scorgeva una scala, metà nel sole, metà nell'ombra, saliente a una porta socchiusa che proteggevano due rami d'ulivo benedetto sospesi su l'architrave rustico. Su l'ultimo gradino inferiore un vecchio seduto dormiva, a capo scoperto, col mento sul petto, con le mani posate su le ginocchia; e il sole stava per toccare la fronte venerabile. Giù per la porta socchiusa scendevano, a conciliare quel sonno senile, il rumore eguale d'una culla agitata, la cadenza eguale d'una cantilena sommessa.

Tutte quelle cose umili parevano avere una vita profonda.

 

 

 

V

 

Ippolita annunziò che sarebbe giunta a San Vito, secondo la promessa, il 20, martedì, col treno diretto, nella prima ora del pomeriggio.

Mancavano due giorni. L'amante le scrisse: «Vieni, vieni! Sono qui ad aspettarti; e mai aspettazione è stata più furiosa. Ogni minuto che passa è perduto irremissibilmente per la felicità. Vieni. Tutto è pronto. Ossia no, non è pronto nulla; fuor che il mio desiderio. Bisogna che tu ti provveda di pazienza e d'indulgenza inesauribili, o amica mia, perché ogni comodo della vita mancherà in questa solitudine selvaggia e impervia: oh quanto impervia! Figùrati, amica mia, che dalla stazione di San Vito all'Eremo c'è un cammino di circa tre quarti d'ora; e non è possibile percorrere altrimenti che a piedi il sentiero tagliato nell'arenaria a picco sul mare. Bisogna che tu venga con calzature molto solide e con ombrelli giganteschi. È inutile che tu porti molti vestiti. Basta qualche vestito gaio e resistente per le nostre gite mattutine. Non dimenticare l'abito da bagno... - Questa è l'ultima lettera ch'io ti scrivo. Tu l'avrai poche ore prima di partire. Te la scrivo dalla biblioteca, da una stanza dove sono ammonticchiati tutti i libri che non leggeremo. È un pomeriggio bianco, ove si spande l'interminabile monotonia del mare. È un'ora molle, discreta, propizia alle sensualità delicate. Oh, se tu fossi già qui!... - Stasera dormirò per la seconda volta nell'Eremo; dormirò solo. Se tu vedessi il letto! È un letto rustico, un monumentale altare d'Imeneo, largo quanto un'aia, profondo come il sonno del giusto. È il Talamo dei Talami. Le materasse contengono la lana d'un intero gregge e il pagliericcio contiene le foglie d'un intero campo di granturco. Possono avere tutte queste cose caste il presentimento della tua nudità!... - Addio, addio. Come sono lente le ore! Chi dice che il tempo ha le ali? Io non so che darei per addormentarmi in questa mollezza snervante e risvegliarmi all'alba di martedì. Ma non dormirò. Anch'io ho ucciso il sonno. Ho la visione continua della tua bocca... »

 

 

 

VI

 

Egli da alcuni giorni aveva continue visioni voluttuose. Gli appetiti si risvegliavano nel suo sangue con una straordinaria violenza. Bastava un soffio trepido, un profumo, un fruscìo, una qualunque mutazione dell'aria per alterargli tutto l'essere, per comunicargli un languore, per suscitargli al viso una fiamma, per accelerargli il battito dei polsi, per gittarlo in un turbamento quasi folle. La facoltà intensa ch'egli aveva, di evocare le imagini fisiche, gli aumentava l'orgasmo. La memoria delle sensazioni era in lui così vivace ed esatta che i suoi nervi ricevevano dal fantasma interno un impulso quasi pari di forza a quello già ricevuto dall'oggetto reale.

Egli portava nel suo organismo i germi ereditati dal padre. Egli, essere d'intelligenza e di sentimento, portava nella carne la fatale eredità di quell'essere bruto. Ma in lui l'istinto diveniva passione; la sensualità assumeva quasi le forme d'un morbo. Ed egli n'era appunto afflitto come d'un morbo vergognoso. Egli aveva orrore di quelle febbri che lo assalivano d'improvviso e lo ardevano miseramente e lo lasciavano avvilito, arido, debole di pensiero. Soffriva di certi suoi bassi impeti come d'una degradazione. Certi passaggi repentini di brutalità, come uragani su un cólto, gli devastavano lo spirito, gli chiudevano tutte le fonti interiori, gli aprivano solchi dolorosi che per lungo tempo egli non riesciva a colmare.

Nell'attimo in cui sopravveniva l'accesso, egli aveva la chiara percezione del sopravvenire d'un'altra personalità nel luogo della sua propria. Qualcuno, estraneo, penetrava in lui e s'impadroniva di tutta la sostanza, come un usurpatore irresistibile, contro il quale ogni difesa era vana. Ed egli era di continuo perseguitato dal fatale pensiero di questa vanità d'ogni suo sforzo.

Spirito contemplativo e sagace, essendosi messo assai presto in conspetto della sua propria vita, aveva compreso che qualunque allettamento esteriore era trascurabile al paragone del fascino emanato dagli abissi ch'egli in sé medesimo scrutava. Aveva incominciato per ciò assai presto a nutrire l'ambizione segreta che esalta e forvia tutti i veri uomini intellettuali, disdegnosi della vita comune, curiosi soltanto di conoscere le leggi che governano lo svolgersi delle passioni. Anch'egli, a similitudine di alcuni singolari artefici e filosofi contemporanei con i quali aveva comunicato, ambiva di comporsi un mondo interno dove poter vivere con metodo, in perpetuo equilibrio e in perpetua curiosità, indifferente ai tumulti e alle contingenze volgari.

Ma le mille fatalità ereditarie, ch'egli portava nel più profondo della sua sostanza come suggelli indelebili delle generazioni da cui discendeva, gli impedivano di avvicinarsi all'Ideale agognato dal suo intelletto; gli chiudevano ogni via di salute. I suoi nervi, il suo sangue, la sua midolla gli imponevano i loro bisogni oscuri.

L'organismo di Giorgio Aurispa si distingueva per uno sviluppo di sensibilità straordinario. Le fibre sensitive destinate a condurre verso il centro gli stimoli esterni avendo acquisita una eccitabilità che avanzava di gran lunga quella normale rappresentata dalle mediocri percezioni dell'uomo sano, avveniva che per eccesso si cangiassero quasi sempre in sensazioni dolorose anche le sensazioni più comunemente piacevoli. Avveniva inoltre che, dopo una serie di stati della conscienza dolorosi cagionati dall'eccitazione anòmala dei nervi, uno stato piacevole fosse ricevuto con ardore da tutto l'organismo e mantenuto quindi con una esagerata persistenza nell'esercizio che lo produceva. Lo sviluppo ereditario del centro preposto a ricevere gli stimoli che ricerca l'appetito sessuale, appunto, teneva tutto l'organismo sotto il predominio d'una tendenza particolare.

Un'altra singolarità organica di Giorgio Aurispa era la frequenza delle congestioni, di varia durata, nei plessi cerebrali. In lui, soggetto estremamente nervoso, i vasi sanguigni encefalici perdendo spesso la loro contrattilità, avveniva che un pensiero e un'imagine occupassero la conscienza per un tempo indefinito, ad onta di tutti gli sforzi fatti per cacciarli. Tali pensieri, tali imagini, dominanti contro ogni virtù della volontà, davano a qualche stato della conscienza la forma d'una follia temporanea parziale. Allora a qualunque moto molecolare anche leggerissimo corrispondeva la natività d'una idea o d'un gruppo d'idee così vive che potevano appena appena distinguersi dalle percezioni reali. Ed era un effetto simile a quello di certe sostanze che, come l'oppio e l'haschich, portano l'intensità dei sentimenti e delle idee al grado delle allucinazioni.

Così complessa, l'intelligenza di Giorgio Aurispa si distingueva per una incalcolabile abondanza di pensieri e d'imagini, per una rapidità fulminea nell'associare gli uni e le altre, per una facilità estrema nel construire stati nuovi della sensazione organica, stati nuovi del sentimento. Eccelleva nel metodo di far servire il noto a comporre l'ignoto.

Essendo per solito molto forte la pressione ed essendo i più alti plessi infinitamente intricati, l'onda nervosa potentissima invadendoli diffondevasi non soltanto nei canali più permeabili, ma anche in un gran numero di canali meno permeabili, in un gran numero di ramificazioni lontane; ciò è a dire: l'onda percorreva non soltanto le vie già battute dalle esperienze d'una serie di avi ma anche le vie di recente aperte dalle esperienze individuali e quelle fino allora chiuse. Così lungo i lidi un flutto più gagliardo non pure bagna quel lembo di sabbia già tocco dal flutto precedente ma l'oltrepassa e invade la sabbia vergine; e un terzo flutto, più gagliardo ancóra, oltrepassando le tracce del primo e del secondo, fa una conquista più larga.

Da una tal diffusione risultavano stati intellettuali amplissimi e complicatissimi: tanto più nuovi quanto più lungi dal centro era giunta l'energia della scarica. La conscienza diveniva un immenso fiume di pensieri. Un pensiero diveniva ardente come una passione e sconvolgeva l'anima aperta a ogni turbine. Un sentimento ideale si faceva distinto come un sentimento reale. Una relazione di sensazioni dava a un ricordo opaco un chiarore improvviso. Le più strane e le più rare complessità di associazioni davano alla facoltà imaginativa lunghe e meravigliose ebrezze.

Così materiato, Giorgio Aurispa non poteva né seguire un metodotrovare un equilibrio. Non gli apparteneva il governo dei suoi pensieri, come non gli apparteneva il governo dei suoi istinti e dei suoi sentimenti. Egli era, nella vita, «simile a una nave che abbia spiegate tutte le vele nell'uragano».

E pure la sua sagacità, penetrando talvolta un po' più oltre delle apparenze per quanto è possibile alla sagacità umana, gli aveva composto della vita un concetto forse giusto.

Anzi tutto, egli aveva profondissimi il senso dell'isolamento e il senso della temporalità. Questi due sensi appunto concorrevano a formare il metodo di alcuni ideologi contemporanei ch'egli prediligeva. «Essendo vano ogni sforzo per escire dalla solitudine del proprio io, bisogna a poco a poco rompere tutti quei vincoli che ancóra ci legano alla vita comune ed evitare così l'inutile dispersione d'una quantità di energia preziosa. Ristretto per tal modo il cerchio della propria esistenza materiale, bisogna adoperarsi con tutte le forze a rendere, quanto più è possibile, vasto ed intenso il mondo interiore moltiplicandone all'infinito i fenomeni e conservandone l'equilibrio. Quando noi avremo conosciute e comprese tutte le leggi che governano i fenomeni, nessuna cosa della vita comune ci ferirà, ci turberà, ci stupirà. Noi vivremo in noi. Nessuno spettacolo più notevole, nessun piacere più durevole ci offre la terra

Ma l'anima di Giorgio Aurispa, invece, si affliggeva e si disperava del suo isolamento; e si dibatteva con mille furie cieche, come un prigioniero in un carcere chiuso per sempre, finché cadeva estenuata. E allora si raccoglieva, si restringeva, si ripiegava su sé stessa come una gracile foglia. Nel cerchio angusto le inquietudini sopravvivevano egualmente acri e fermentavano, cagionando una irritazione sorda e profonda, un malessere incomprensibile, una sofferenza continua, ostinata, sottile. D'improvviso, una calda inondazione di pensieri rompeva il cerchio e fecondava l'aridità. L'anima entrava in un nuovo stato, di pienezza espansiva, propizio ai sogni, agli errori, ai propositi. I vani sogni erano permanenti e i propositi sempre mutevoli; e la felicità era sempre lontana.

Quest'uomo intellettuale, chi sa per quale influsso di conscienze ataviche, non poteva rinunziare ai sogni romantici di felicità. Quest'uomo sagace, pur avendo la certezza che tutto è precario, non poteva sottrarsi al bisogno di cercare la felicità nel possesso di un'altra creatura. Egli sapeva bene che l'amore è la più grande fra le tristezze umane, perché è il supremo sforzo che l'uomo tenta per uscire dalla solitudine del suo essere interno: sforzo come tutti gli altri inutile. Ma egli tendeva all'amore con invincibile trasporto. Sapeva bene che l'amore, essendo un fenomeno, è la figura passeggera, è ciò che si trasforma perennemente. Ma egli aspirava alla perpetuità dell'amore, a un amore che riempisse una intera esistenza. Sapeva bene che la fragilità della donna è incurabile. Ma egli non poteva rinunziare alla speranza che la sua donna fosse costante e fedele sino alla morte.

Questo contrasto bizzarro fra la lucidità del pensiero e la cecità del sentimento, tra la debolezza della volontà e la forza degli istinti, tra la realtà e il sogno, produceva su lui disordini funesti. Il suo cervello, ingombrato da un ammasso di osservazioni psicologiche personali e apprese da altri analisti, spesso confondeva e scomponeva ogni cosa, fuori e dentro. L'abitudine letteraria dei soliloquii, ne' quali la considerazione mentale formulata esagera ed àltera lo stato dell'animo a cui si riferisce, spesso lo traeva in errore su la vera entità de' suoi mali e aggravava le sue sofferenze. Il miscuglio dei sentimenti ideali e reali lo metteva in condizioni così complicate e così irregolari ch'egli quasi vi smarriva l'istinto della sua umanità. Anch'egli pensava: «Noi siamo fatti della sostanza medesima di cui son fatti i nostri sogni.» E vedeva salire dai fondi del suo essere più occulti qualche cosa come un vapore, continua e vacua, a cui il soffio del caso dava indescrivibili forme.

Tutte le sue capacità essendo assorbite dai suoi mali, qualunque specie di lavoro gli era impossibile. Avendo acquistata molto per tempo la indipendenza materiale con l'ereditar la fortuna di Demetrio, egli non poteva conoscere le constrizioni della necessità, talvolta salutari. Quando con uno sforzo penoso di volontà egli alfine si costringeva al lavoro, dopo poco era assalito non dal tedio ma da un disgusto fisico, da una irritazione dei nervi così aspra che gli rendeva odioso perfino il luogo di studio e lo spingeva fuori della casa, su le vie e su le piazze, dovunque, lontano.

Avendo molte attitudini, egli rimaneva disutile e ozioso. Non altro faceva se non nutrirsi voluttuosamente di musica e di letture, convinto della propria inutilità. A forza di sarcasmi interiori distruggeva ogni proposito. Avendo incominciato a dubitare di sé medesimo, a poco a poco era giunto a dubitare di tutto. Avendo incominciato a soffrire in sé medesimo, a poco a poco era giunto a soffrire in tutto. Egli si sentiva schiacciare dalla universale stupidezza; e lo spettacolo della folla gli moveva il fiele.

Talvolta, dopo una qualche accelerazione straordinaria della sua vita passionale, egli cadeva in una specie di paralisia psichica il cui sintomo primo era una incuranza profonda di ogni cosa, una indifferenza peggiore della più acuta sensibilità; che durava molti giorni, intere settimane. Talvolta, un pensiero l'occupava, unico, assiduo: il pensiero della morte. E allora tutte le impressioni passavano sul suo spirito come gocce d'acqua su una lastra rovente, o rimbalzando o dissolvendosi.

Era il caro e terribile pensiero dominante, il pensiero della morte. Pareva che Demetrio Aurispa, il dolce suicida, chiamasse l'erede. E l'erede era consapevole della fatalità ch'egli portava nell'intimo della sua sostanza. Il presentimento gli dava talvolta un orrore istintivo ch'era prossimo a uno stato di follia; ma più spesso gli produceva una tristezza pacata, mista d'una pietà di sé, d'una specie di voluttà della compassione: una misteriosa tristezza in cui egli s'indugiava.

Ora, dopo l'ultima crisi da cui era uscito a gran pena salvo, egli pativa un ricorso di illusioni sentimentali. Avendo potuto sfuggire al fascino della morte, egli guardava la vita con occhi un po' velati. Mentre appunto la ripugnanza a guardar bene in faccia la realtà e ad affrontare la vita vera lo aveva ridotto su l'orlo del sepolcro, egli ora traeva da un'illusione un barlume di confidenza nell'avvenire. «C'è su la terra una sola ebrezza durevole: - la sicurtà assoluta nel possesso di un'altra creatura. Io cerco questa ebrezza.» Egli cercava l'introvabile. Penetrato dal dubbio fin nelle più intime fibre, egli voleva acquistare la cosa più contraria alla sua natura: la sicurtà; la sicurtà nell'amore! Ma non l'aveva egli veduta distruggersi tante volte sotto l'assidua corrosione delle analisi? Non l'aveva forse in due lunghi anni cercata in vano?

Egli doveva così volere.

 

 

 

VII

 

All'alba del gran giorno, destandosi dopo alcune ore d'un dormiveglia inquieto, Giorgio Aurispa pensò, con un orgasmo di tutti i suoi nervi: «Oggi ella verrà! Oggi, nella luce di oggi io la vedrò. Io la terrò fra le mie braccia, su questo letto. Mi pare quasi che io la possederò oggi per la prima volta; mi pare che io ne debba morire.» La visione dell'amplesso gli diede un urto così violento che il corpo fu attraversato per tutta la sua lunghezza da un sussulto simile a quello prodotto da una scarica di elettricità. Avveniva in lui quel terribile fenomeno fisico delle cui tirannie egli era vittima senza difesa. Tutta la sua conscienza era sotto il dominio assoluto del desiderio; poiché tutte le ripercussioni che invadevano i suoi nervi, di attimo in attimo, valevano a muovere quel punto del centro cerebrale che il periodo di riposo anteriore aveva portato a un grado estremo d'instabilità molecolare. La libidine ereditaria scoppiava ancóra una volta, con invincibile furia, in quel delicato amante che si piaceva di chiamar sorella la sua amata, avido di comunioni spirituali.

Egli considerò a una a una, mentalmente, le nudità della sua amata. Ciascuna forma, vista a traverso la fiamma della brama, assumeva uno splendore specioso, chimerico, quasi sovrumano. Egli considerò a una a una, mentalmente, le carezze della sua amata. Ciascuna attitudine assumeva un fascino voluttuoso d'una intensità quasi inconcepibile. In lei tutto era luce, aroma, ritmo.

La stupenda creatura, egli, ben egli la possedeva, egli solo! Ma un pensiero di gelosia gli nacque spontaneo dal desiderio, come un fumo da un fuoco torbido. Poiché cresceva l'orgasmo, per distrarre lo spasimo balzò dal letto.

Alla finestra, nell'alba, i rami dell'ulivo ondeggiavano appena appena, pallidi, tra grigi e bianchi. Su la fioca monotonia del mare le passere mettevano un cinguettio ancóra discreto, un agnello dal chiuso metteva un belato timido.

Quando egli uscì su la loggia, rinfrancato dalla virtù tonica del bagno, bevve a larghi sorsi l'aria del mattino sapida di mille effluvii. I polmoni gli si dilatarono; i pensieri gli si sollevarono, agili, ciascuno portando l'imagine dell'aspettata; un risentimento di giovinezza gli scosse i precordii.

D'innanzi, era la natività del sole, pura, semplice, senza pompa di nuvoli, senza mistero. Da un mare quasi niveo sorgeva una faccia vermiglia, con un contorno schietto, quasi tagliente, come quel d'un disco metallico escito da una fucina.

Cola di Sciampagna, ch'era intento a nettare lo spiazzo, esclamò:

- Oggi è festa grande. Viene la signora. Uojje lu grane se pàrte da la tèrre; n'aspette l'Ascènze: oggi il grano spiga; non aspetta l'Ascensione.

Giorgio domandò, sorridendo al gentile motto del vecchio:

- Avete pensato alle donne, per cogliere il fiore delle ginestre? Bisogna giuncare tutta la via.

Il vecchio fece un gesto d'insofferenza, come per significare di non aver bisogno d'ammonimento.

- Cinque ne ho chiamate!

E, nominandole, indicava i luoghi ove le fanciulle avevano la casa.

- La fijje de la Scimmie, la fijje de lu Sguaste, Favette, Sblendore, la fijje de lu Jarbine: la figlia della Scimmia, la figlia dello Sguasto, Favetta, Splendore, la figlia del Garbino.

Udendo i nomi, Giorgio provò una sùbita allegrezza. Gli parve che tutti gli spiriti della primavera entrassero nel suo cuore. Un'onda fresca di poesia lo invase. Uscivano dalle favole quelle verginelle per giuncar la via alla Bella Romana?

Egli si abbandonò al godimento ansioso che gli offrivano le ore dell'aspettazione. Discese. Chiese:

- Dove saranno, a cogliere?

- Lassù - rispose Cola di Sciampagna, indicando il poggio - a le Cerquètte: alle Quercette. Le troverai al cantare.

Veniva infatti, oraora no, un canto feminile dal poggio. Giorgio si mise per l'erta, in cerca delle maggiaiuole. La viottola tortuosa girava in una macchia di giovani querci. A un certo punto si diramava in una quantità d'altre viottole, di cui non si scorgeva la fine. Tutti quei solchi angusti, scavati tra i massi, attraversati da radici innumerevoli a fior di terra, componevano una sorta di laberinto alpestre dove le passere cinguettavano, dove i merli chioccolavano. Giorgio non si smarriva, seguendo la duplice traccia del canto e del profumo. Trovò il ginestreto.

Era un pianòro dove le ginestre fiorivano con tal densità da formare alla vista un sol manto giallo, d'un colore sulfureo, splendidissimo. Le cinque fanciulle coglievano il fiore per riempirne le ceste, e cantavano. Cantavano un canto spiegato, con accordi di terza e di quinta perfetti. Quando giungevano ad una cadenza, sollevavano la persona di sul cespuglio perché la nota sgorgasse più libera dal petto aperto; e tenevano la nota, a lungo, a lungo, guardandosi negli occhi, protendendo le mani piene di fiori.

Come videro il forestiero, s'interruppero, si chinarono fra i cespugli. Risa mal frenate corsero per quel giallo. Giorgio domandò:

- Chi è di voi Favetta?

Una fanciulla, bruna come un'oliva, si levò a rispondere, attonita, quasi sbigottita:

- Sono io, signore.

- Non sei tu la prima cantatrice di San Vito?

- No, signore. Non è vero.

- È vero, è vero - esclamarono le compagne. - Signore, falla cantare.

- Non è vero, signore. Io non so cantare.

Ella si schermiva, ridendo, tutt'accesa nel volto; e torceva il grembiule, mentre le compagne la incitavano. Era di piccola statura; ma aveva le forme gagliarde, il petto largo e florido, esercitato dalle canzoni. Aveva i capelli crespi, le sopracciglia folte, il naso aquilino; certe arie della testa un po' selvagge.

Dopo le prime riluttanze, consentì. Le compagne, allacciandosi per le braccia, la strinsero in un loro cerchio. Emergevano, dalla cintola in su, fuor de' cespi fioriti, mentre d'intorno ronzavano le api diligenti.

Favetta intonò, sul principio mal sicura, ma di nota in nota rassicurandosi. La sua voce era limpida, fluida, cristallina come una polla. Cantava un distico; e le compagne cantavano in coro un ritornello. Prolungavano la cadenza, concordi, riavvicinando le bocche per formare un sol flutto vocale; che si svolgeva nella luce con la lentezza delle cadenze liturgiche.

Favetta diceva: «Tutte le fontane sono secche. Povero Amor mio! Muore di sete. - O Amore, ho sete, ho sete. Dov'è l'acqua che m'hai portata? - Ti ho portata una giara di creta, incatenata con una catena d'oro.» Le compagne dicevano: «Viva l'amore

 

Tutte le funtanelle se sseccàte.

Pover'Amore mi'! More de séte.

Tromma larì lirà llarì llallerà

Tromma larì, lirà, vvivà ll'amóre!

 

Amóre mi ' sét'e mmi ' sète.

Dovèlle l'acque che mme si purtàte?

Tromma larì lirà...

 

T'àjje purtàte 'na ggiàrre de créte,

Nghe ddu' catène d'óre 'ngatenate.

Tromma larì lirà...

 

Quella salutazione di maggio all'amore, sgorgante da quei petti che forse non ne conoscevano ancóra e non ne avrebbero forse mai conosciuta la vera tristezza, sonò a Giorgio come un augurio. Le donne, i fiori, il bosco, il mare, tutte quelle cose libere e inconsapevoli che respiravano la voluttà della vita intorno a lui, gli blandivano la superficie dell'anima; gli ammorzavano, gli sopivano il sentimento abituale ch'egli aveva del proprio essere; gli davano un sentimento progressivo, armonico, quasi ritmico d'una facoltà nuova che gli si svolgesse a poco a poco dall'intimo della sostanza e gli si rivelasse in una maniera assai vaga, come in una specie di vision confusa d'un segreto divino.

Fu un incanto fuggevole, uno stato della conscienza così insolito e incomprensibile ch'egli non poté neppure trattenerne il fantasma. Le cantatrici gli mostravano le ceste colme della raccolta, una massa di fiori umida di rugiada. Favetta gli domandò:

- Basta?

- No, non basta. Bisogna tornare a cogliere. Bisogna giuncare tutta la via dal Trabocco alla casa. Bisogna coprire la scala, la loggia...

- E pe' l'Ascènze? Nen vuò lassà manghe nu fiore Jèse Criste? E per l'Ascensione? Non vuoi lasciare neppure un fiore a Gesù Cristo?

 

 

 

VIII

 

Ella era giunta. Ella era passata su i fiori, come la Madonna che va a compiere il miracolo; era passata su un tappeto di fiori. Ella era giunta, alfine; aveva alfine varcata la soglia!

Ora, stanca e felice, offriva alle labbra dell'amante la faccia tutta bagnata di lacrime, senza parlare, con un atto d'ineffabile abbandono. Stanca e felice, piangeva e sorrideva sotto i baci innumerevoli dell'adorato. - Che divenivano tutti i ricordi del tempo in cui egli non era? Che divenivano le sciagure, le angustie, le inquietudini, le lotte affannose contro la inesorabile brutalità della vita? Che divenivano tutti gli sconforti e tutte le disperazioni al confronto di quella suprema dolcezza? Ella viveva, ella respirava tra le braccia dell'amante, ella si sentiva immensamente amata. Non altro sapeva che d'essere immensamente amata. Tutto il resto si dileguava, rientrava nella inesistenza, pareva che non fosse stato mai.

- Oh Ippolita, Ippolita! Oh anima mia! Come, come ti desideravo! Tu sei venuta. Ora non mi lascerai più, per molti giorni, per molti giorni; è vero? Prima di lasciarmi, tu mi farai morire...

Egli la baciava su la bocca, su le gote, sul collo, su gli occhi, insaziabile, provando un profondo brivido ogni volta che incontrava una lacrima tiepida e salsa. Quel pianto, quel sorriso, quell'espressione di felicità su quel volto abbattuto dalla stanchezza, il pensiero che quella donna non aveva esitato un attimo a consentire, il pensiero che gli era venuta di lontano con un viaggio estenuante e che ora gli piangeva sotto i baci senza poter parlare per la piena interna, tutte quelle cose appassionate e soavi affinavano le sue sensazioni, toglievano al suo desiderio l'impurità, gli davano un sentimento d'amore quasi casto, gli esaltavano l'anima. Egli le disse togliendole il lungo spillo che fermava il cappello e il velo:

- Devi essere tanto stanca, povera Ippolita! Sei pallida pallida.

Ella aveva il velo rialzato su la fronte, aveva ancóra il mantello da viaggio, aveva ancóra i guanti. Egli le tolse il velo e il cappello, con un atto che gli era familiare. Apparve libera la bella testa bruna, che i capelli semplici coprivano a guisa d'un casco aderente senza turbare la linea svelta ed elegante dell'occipite, senza nascondere la nuca.

Di nuovo Giorgio la coperse di baci; le cercò sul collo, sotto l'orecchio sinistro, i gemelli, i due nèi, i due vivi acini d'oro. Ella portava un collaretto di pizzo bianco e un piccolo nastro di velluto nero che tagliava con squisita violenza il pallore della cute. Dall'apertura del mantello appariva l'abito di panno a minutissime righe bianche e nere che formavano un color grigio: l'abito di Albano, memorabile. Ella emanava un odore fievole di violette, l'odore noto.

Le labbra di Giorgio divenivano più ardenti e, com'ella soleva dire, voraci7. Egli s'interruppe; le tolse il mantello; l'aiutò a togliersi i guanti; le prese le mani nude per premersele alle tempie, smanioso d'essere accarezzato. Ella, tenendolo così alle tempie, lo trasse a sé, lo avviluppò in una lunga carezza, gli percorse tutta la faccia con la bocca che strisciava languida e calda in un bacio molteplice. Giorgio riconosceva la divina, la incomparabile bocca, quella bocca che tante volte egli aveva creduto sentire quasi appoggiata su la superficie dell'anima, come per un gaudio che oltrepassasse la sensibilità carnale e si comunicasse a un elemento oltrasensibile dell'essere interno.

- Tu mi farai morire - egli mormorò, vibrando come un fascio di corde, provando alla radice dei capelli un freddo acuto che gli si propagava di vertebra in vertebra per la midolla. Ed avvertì in fondo a sé un vago moto istintivo di terrore, già avvertito altra volta.

Ippolita disse, distaccandosi:

- Ora, addio. Dov'è... la mia stanza? Oh, Giorgio, come staremo bene qui!

Ella si guardava intorno, sorridendo. Fece alcuni passi verso la soglia; si chinò a raccogliere un pugno di ginestre; ne aspirò il profumo con delizia visibile. Ella si sentiva ancóra tutta commossa, quasi ebra, di quell'omaggio sovrano, di quella fresca e gentile gloria diffusa sul suo cammino. - Non sognava? Ella era, ella proprio, Ippolita Sanzio, in quel luogo ignoto, in quel paese magico, circondata e glorificata da tutta quella poesia? - Disse d'improvviso, con nuove lacrime negli occhi, gittando le braccia al collo dell'amante:

- Come ti sono grata!

Di nulla il cuore di lei s'inebriava più che di quella poesia. Ella si sentiva sollevare fuor del proprio essere umile dall'idealità di cui l'avvolgeva l'amante; si sentiva vivere d'un'altra vita, d'una vita superiore che talvolta le dava all'anima quella specie di soffocazione che l'ossigeno soverchio provoca in un petto abituato a respirare un'aria impoverita.

- Come sono fiera di appartenerti! Tu sei il mio orgoglio. Basta ch'io stia accanto a te un minuto solo per sentirmi un'altra donna, infinitamente diversa. D'un tratto, tu mi comunichi un altro sangue e un altro spirito. Io non sono più Ippolita, quella di ieri. Chiamami con un altro nome.

Egli la chiamò:

- Anima!

Si strinsero; si baciarono con forza, come per isvellere dalle radici i baci che si schiudevano su le loro labbra. Ippolita ripeté, distaccandosi:

- Ora, addio. Dov'è la mia stanza? Vediamo...

Giorgio, cingendole il busto con un braccio, la condusse nella stanza del letto, contigua. Ella levò un'esclamazione di meraviglia vedendo il «Talamo dei Talami», ammantato d'una gran coperta nuziale di damasco giallo.

- Ma qui ci smarriremo...

Ella rideva, facendo il giro del monumento.

- La difficoltà più grave sarà nel salire.

- Tu metterai prima il piede sul mio ginocchio, all'uso antico del paese.

- Quanti santi! - ella esclamò, guardando su la parete, a capo del letto, la lunga fila delle imagini sacre.

- Bisognerà velarli.

- Già; è vero...

Ambedue trovavano a stento le parole; ambedue avevano la voce un poco alterata; ambedue tremavano, scossi da un desiderio irresistibile, sentendosi quasi mancare al pensiero della prossima voluttà. Udirono qualcuno battere al cancello della scala. Giorgio uscì su la loggia.

Era Elena, la figlia di Candia. Veniva ad annunziare la colazione pronta.

- Che vuoi fare? - domandò Giorgio, volgendosi a Ippolita, irresoluto, quasi convulso.

- Veramente, Giorgio, io non ho fame; non ho nessuna voglia di mangiare. Pranzerò, verso sera, se ti piace...

Ambedue avevano il pensiero medesimo; ambedue sapevano che oramai qualunque altra cosa era impossibile.

Giorgio disse con una specie di furia:

- Vieni nella tua stanza. Troverai tutto pronto per il tuo bagno. Vieni.

E la condusse in una stanza ch'egli aveva intieramente tappezzata di larghe stuoie rustiche.

- Vedi, i tuoi bauli e le tue valigie sono già qui. Addio. Non t'indugiare. Pensa che io ti aspetto. Ogni minuto di più sarà una tortura di più. Pensaci.

Egli la lasciò sola. Gli giunse, dopo qualche tempo, lo scroscio dell'acqua che grondava dalla spugna enorme ricadendo nella tinozza. Egli conosceva il gelo di quell'acqua sorgiva; ed imaginava i sussulti del corpo d'Ippolita lungo ed agile sotto l'onda refrigerante. Di nuovo, egli non era capace d'altro pensiero che non fosse di fiamma. Tutto intorno a lui scompariva. Egli non aveva più altra percezione che di quel romore d'acqua su la nudità agognata. E quando gli scrosci cessarono, egli fu preso da un tremito così fiero che incominciò a battere i denti come nel ribrezzo di una febbre micidiale. Vedeva con i terribili occhi del desiderio la donna disvilupparsi dall'accappatoio già asciutta e monda e tutta delicata come un alabastro color d'oro.

- Ippolita, Ippolita - egli gridò, perdutamente - vieni così! Vieni! Vieni!

 

 

 

IX

 

Ora, più stanca, quasi esanime, dopo le furiose carezze, Ippolita si lasciava prendere a poco a poco dal sonno. A poco a poco su la sua bocca il sorriso divenne inconscio; poi disparve. Le labbra un istante si ricongiunsero; poi con infinita lentezza si riaprirono e dal fondo sorse un candore di gelsomini. Di nuovo, le labbra un istante si ricongiunsero; e ancóra, lentamente, lentamente, le labbra si dischiusero: risorse dal fondo il candore, inumidito.

Giorgio, sollevato sul gomito, la guardava. La vedeva bella bella bella, somigliante alla donna ch'egli aveva veduta la prima volta nell'Oratorio segreto, innanzi l'orchestra del filosofo Alessandro Memmi, tra il profumo vanito dell'incenso e delle violette. Era pallida pallida, come allora.

Era pallida ma di quella singolare pallidezza che Giorgio non aveva ritrovata in nessuna altra donna mai: d'una pallidezza quasi mortale, profonda, cupa, che un poco pendeva nel livido quando s'empiva di ombra. Una lunga ombra segnavano i cigli in sommo delle gote; un'ombra virile, a pena visibile, velava il labbro superiore. La bocca, piuttosto grande, aveva una linea sinuosa, assai molle ma pur triste, intensamente espressiva nel silenzio perfetto.

«Come la sua bellezza si spiritualizza nella malattia e nel languorepensava Giorgio. «Così affranta, mi piace di più. Io riconosco la donna sconosciuta che mi passò d'innanzi in quella sera di febbraio: la donna che non aveva una goccia di sangue. Io penso che morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua bellezza. Morta! - E s'ella morisse? Ella diventerebbe materia di pensiero, una pura idealità. Io l'amerei oltre la vita, senza gelosia, con un dolore pacato ed eguale

Si ricordò che già qualche altra volta egli l'aveva imaginata bella nella pace della morte. - Ah, quella volta delle rose! Nei vasi languivano larghi mazzi di rose bianche: in un giugno, nel principio degli amori. Ella s'era assopita sul divano, immobile, quasi senza respiro. Egli l'aveva contemplata a lungo. Poi, per una improvvisa fantasia, l'aveva coperta di rose, piano piano, cercando di non destarla; le aveva composto su i capelli alcune rose. Ma così infiorata, inghirlandata, ella gli era parsa un corpo esanime, un cadavere. Atterrito dalla parvenza, egli l'aveva scossa per destarla; ed ella era rimasta inerte, tenuta da una di quelle sincopi a cui in quel tempo andava soggetta. Ah il terrore e l'ansia, prima ch'ella avesse ricuperati i sensi, e misto al terrore l'entusiasmo per la sovrana bellezza di quel volto straordinariamente annobilito da quel riflesso di morte! - Egli si risovvenne dell'episodio; ma poiché si indugiava nei pensieri strani, fu preso da un subitaneo moto di rimorso e di pietà. Si chinò a baciare la fronte della dormiente; che non s'accorse del bacio. A stento allora egli si trattenne dal baciarla più forte su la bocca perch'ella se n'accorgesse e rispondesse. Allora sentì tutta la vanità d'una carezza che non fosse per l'oggetto amato una rapida comunicazione di gaudio; sentì tutta la vanità di un amore che non fosse una continua immediata corrispondenza di sensazioni acute. Sentì allora l'impossibilità d'inebriarsi senza che alla sua ebrezza corrispondesse una ebrezza d'intensità eguale.

«Proprio» egli pensò «proprio, tutte le volte che io ho goduto di lei ella ha goduto di me? Quante volte ella ha assistito, con occhi lucidi, alle mie demenze? Quante volte le è parso incomprensibile il mio ardore?» Un flutto grave d'inquietudini l'inondò, in conspetto della dormiente. «Anche la vera profonda comunione sensuale è una chimera. I sensi della mia amante sono oscuri come la sua anima. Io non potrò mai sorprendere nelle sue fibre un disgusto segreto, un appetito mal soddisfatto, una irritazione non placata. Io non potrò mai conoscere le sensazioni diverse che una medesima carezza le ripetuta in momenti diversi. La sua sensualità è variabile, poiché ella è isterica; e il suo isterismo ha raggiunto, in altri tempi, il sommo dell'acuzie. Un organismo infermo come il suo passa, nel corso d'un sol giorno, per una gran quantità di stati fisici tra loro discordi e talvolta anche interamente opposti. Qualunque più sagace intuizione si confonde innanzi a una tale instabilità. Quella carezza che all'alba l'ha fatta gemere di delizia, quella carezza medesima può più tardi esserle importuna. I suoi nervi dunque possono diventarmi ostili, contro ogni sua volontà. Sotto un mio bacio troppo prolungato, dal quale io tragga il supremo dei gaudii, può levarsi nella carne di lei una insofferenza. Ma la simulazione e la dissimulazione, in materia di sensi, sono comuni a tutte le donne che amano e che non amano. La donna, anzi, che ama, la donna appassionata è più inchina a simulare e a dissimulare, fisicamente, poiché teme di affliggere l'amato mostrandosi di non parteggiarne il gaudio, di essere poco sensibile alle carezze, poco disposta ad abbandonarglisi intera. Inoltre, la donna appassionata si compiace spesso di esagerare la mimica della voluttà, poiché sa appunto di aumentare così l'ebrezza dell'uomo, adulandone l'orgoglio virile. Infatti, una inesprimibile gioia orgogliosa mi gonfia il cuore quando io vedo costei languire e delirare nell'accesso del gaudio ch'io posso darle. Ella è felice (io sento) di mostrarsi così vinta e oppressa dal mio potere; ed ella anche sa che la mia vana ambizione di amante giovine sta appunto nel giungere a farle chieder tregua, a strapparle un grido di spasimo, a ridurla quasi esanime sul guanciale. Quanto dunque ne' suoi segni v'è di sincerità fisica e quanto di esagerazione appassionata? Se il suo ardore fosse un'abitudine tutta esterna per piacermi? S'ella molte volte si sacrificasse al mio desiderio, senza desiderarmi? S'ella qualche volta dovesse soffocare un principio di disgusto? - La preoccupazione di piacermi, di soddisfarmi, di piegarsi volentieri ad ogni mio capriccio, è in lei palese. In questi due anni d'amore, ella è giunta a poco a poco a limitare la mia attività materiale nelle cose dei sensi; è giunta ad acquistare quasi il privilegio delle carezze. Ella par felice quando può da sola in me inerte provocare una voluttà intensa. A poco a poco, infatti, ella mi ha effeminato. Ella si compiace di impormi la sua opera voluttuosa. È come una rivincita ch'ella si prende su la sua inesperienza dei primi mesi. Conoscendo tutte le predilezioni del suo maestro, ella par felice di coltivarle e di appagarle. Ma le mie predilezioni sono le sue? Quale ripercussione ha il mio brivido profondo nella compiacenza di lei? Ella par felice; si confessa felicissima. Un giorno mi confessò che a qualunque più acuta voluttà diretta ella preferisce quella riflessa, indefinibile, che le viene dall'accorgersi di aver suscitato per sola virtù sua in me inerte un brivido di supremo godimento. Fu sincera? Sì, io credo, ella fu sincera. Questa continua smania di abnegazione, questa soppressione quasi continua dell'egoismo non sono forse i più alti e i più singolari fenomeni del suo amore? Ella è una preziosa amante; è la mia creatura

Il suo pensiero tortuoso lo ricondusse alla contemplazione quieta della bellezza, del possesso; lo ricondusse alla considerazione del nuovo stato. - Da quel giorno di maggio incominciava dunque una vita nuova.

Per un minuto egli intese l'orecchio e l'animo a raccogliere la gran pace del luogo. Non si udiva se non la piana monotonia della bonaccia, in un silenzio favorevole. Ai vetri della finestra i rami dell'ulivo ondeggiavano appena appena, argentei nel sole, movendo ombre leggerissime su le cortine bianche di bucato. Giungeva di tratto in tratto, rara, qualche voce umana inintelligibile.

Di nuovo, dopo la percezione della calma circostante, egli si rivolse a riguardare l'adorata. Una concordia palese era tra il respiro di lei e il respiro del mare. La rispondenza dei due ritmi diede un fascino di più alla dormiente.

Giorgio sollevò il lembo delle coperte per vederla tutta intera, dal capo ai piedi.

Ella posava il fianco destro sul lenzuolo, in un'attitudine composta. La sua forma era snella e lunga, d'una lunghezza forse soverchia ma piena di serpentine eleganze. L'esiguità dell'anca la faceva somigliare un giovinetto. Il ventre sterile aveva conservata la primitiva purità virginale. Il seno era piccolo e rigido, come scolpito in un alabastro delicatissimo, soffuso d'una tinta tra rosea e violacea su le punte straordinariamente erèttili. Tutta la parte posteriore del corpo, dalla nuca al pòplite, richiamava di nuovo la similitudine del giovinetto; era uno di quei frammenti dell'ideal tipo umano, che la Natura qualche volta getta per caso tra le innumerevoli impronte mediocri nelle quali si perpetua la specie. Ma la più preziosa singolarità di quel corpo sembrava a Giorgio il colorito. La pelle aveva un colorito indescrivibile, rarissimo, assai lontano da quello usuale delle donne brune. L'imagine dell'alabastro, che a un lume interno s'indori, bastava a rendere soltanto una minima parte della divina finezza. Pareva che una soffusione d'oro e d'ambra impalpabili arricchisse il tessuto variandolo d'una varietà di pallori, armoniosa come una musica, divenendo più cupa nel solco delle reni e dove le reni s'insertavano ai lombi, divenendo più chiara sul seno e su gli inguini dove risedeva la suprema soavità dell'epidermide. I nèi sparsi qua e , simili a granelli fulvi, parevano ancor meglio affinare il pregio di quel tesoro tangibile a cui Giorgio Aurispa aveva consacrato tutte le sottilità del più intellettuale fra i cinque sensi umani.

Giorgio ripensò il detto di Othello: «Vorrei più tosto essere un rospo e nutrirmi dei vapori d'un antro buio, che lasciare nella creatura ch'io amo un punto per uso d'altri!»

Ippolita si mosse, nel sonno, con un'aria vaga di sofferenza che sùbito disparve. Ella arrovesciò indietro il capo, sul guanciale, mostrando la gola tesa ove si disegnavano lievi le arterie. Aveva la mandibola inferiore un poco risentita, il mento un poco lungo di profilo, le narici larghe. Nello scorcio i difetti di quella testa emersero; ma non dispiacquero a Giorgio, poiché egli non avrebbe potuto imaginarli corretti senza togliere alla fisonomia un vivace elemento di espressione. L'espressione, questa cosa immateriale che s'irraggia nella materia, questa forza mutabile e incalcolabile che invade la maschera corporea e la transfigura, quest'anima esterna significativa che sovrappone alla precisa realtà delle linee una bellezza simbolica d'un ordine assai più alto e più complesso, l'espressione era il gran fascino d'Ippolita Sanzio, essendo un motivo perpetuo di affetti e di sogni pel passionato pensatore.

«Una tale donna» egli pensava «è stata d'altri prima che mia! Ha giaciuto con un altro uomo; ha dormito con un altro uomo nel medesimo letto, sul medesimo guanciale. In tutte le donne è singolarmente viva una specie di memoria fisica, la memoria delle sensazioni. Si ricorda ella delle sensazioni avute da colui? Può ella aver dimenticato l'uomo che primo la violò? Che provava sotto la carezza del marito?» Un'angoscia ben nota lo strinse, a quelle interrogazioni ch'egli ripeteva in sé stesso per la millesima volta. «Ah perché non possiamo noi far morire la creatura che amiamo e risuscitarla con un corpo vergine, con un'anima nuova

Si risovvenne di talune parole che Ippolita gli aveva dette in un'ora suprema di ebrezza: - Tu mi prendi vergine. Io non conosco nessuna voluttà dell'amore.

Ippolita era andata a nozze nella primavera avanti quella dell'amore. Dopo alcune settimane le era incominciata la malattia della matrice, lenta e crudele, che, riducendola in fondo a un letto, l'aveva tenuta per molti giorni sospesa tra la vita e la morte. Ma la malattia per fortuna l'aveva salvata da qualunque altro contatto odioso con l'uomo che s'era impadronito di lei come d'una preda inerte. Uscendo dalla lunga convalescenza, ella era entrata nella passione come in un sogno; d'improvviso, ciecamente, perdutamente, ella s'era abbandonata al giovine sconosciuto che con una voce strana e dolce le aveva rivolto parole non udite mai. Ella non aveva mentito dicendogli: - Tu mi prendi vergine. Io non conosco nessuna voluttà.

Tutti gli episodii di quel principio tornarono nella memoria di Giorgio, a uno a uno, chiarissimi. Egli ricompose in sé gli straordinarii sentimenti e le straordinarie sensazioni d'allora. - Egli era stato conosciuto da Ippolita il 2 di aprile, nell'Oratorio; e il 10 di aprile Ippolita aveva consentito a venirgli nella casa. Oh indimenticabile giorno! Ella non aveva potuto concedersi al desiderio di lui, perché non era ancóra in tutto guarita; e per una lunga serie di convegni, quasi per due settimane, ella non aveva potuto concedersi. A tutte le carezze che può osare un uomo in cui il desiderio sia folle di esasperazione, a tutte le più temerarie carezze ella si era piegata con uno smarrimento profondo, inesperta, ignara, talvolta sbigottita, dando all'amante quell'acre e divino spettacolo che è l'agonia del pudore dilaniato dalla passione soverchiatrice. Spesso in quei giorni ella aveva perduto i sensi, ella era caduta in qualcuna di quelle sincopi gelide che la facevano sembrare morta o in qualcuna di quelle convulsioni raccolte i cui soli sintomi esterni erano il pallore livido, lo stridore dei denti, la contrattura delle dita, lo sparire dell'iride nel bianco sotto la palpebra. E in fine ella aveva potuto concedersi intera! La sua attitudine in quel primo amplesso era stata d'inerzia e quasi di freddezza e quasi di ripugnanza contenuta. Due o tre volte un'espressione di dolore le era passata pel volto. Ma a poco a poco, di giorno in giorno, una sensibilità latente aveva incominciato a risvegliarsi nelle fibre di lei intorpidite dal morbo, ancóra addolorate dagli spasimi dell'isteralgia, ancóra forse dominate da un istinto ostile contro un atto già parso odioso nelle orribili notti nuziali. E un giorno di maggio, sotto il divorante ardore del giovine che le ripeteva sul volto una parola incitante, ella aveva avuta alfine la rivelazione improvvisa della suprema voluttà. Aveva gittato un grido; poi era rimasta quasi senza anima, supina, con due lacrime nel cavo degli occhi ferme come due perle, transfigurata.

Rievocando quella vista, Giorgio si sentì attraversare da un soffio di quella ebrezza. Aveva provato allora il fremito di un creatore.

Da quel giorno, nella donna, che mutazione profonda! Qualche cosa di nuovo, indefinibile ma reale, le era venuta nella voce, nel gesto, nello sguardo, in ogni accento, in ogni movenza, in ogni segno esterno. Giorgio aveva assistito al più inebriante spettacolo che possa mai sognare un uomo d'intelletto. Egli aveva veduto la donna amata trasformarsi a imitazione di lui, prendere da lui i pensieri, i giudizii, i gusti, i dispregi, le predilezioni, le malinconie, tutto ciò che a uno spirito una speciale impronta, un carattere. Parlando, Ippolita adoperava i modi da lui preferiti, pronunziava certe parole con l'inflessione a lui particolare. Scrivendo, imitava perfino la scrittura di lui. Non mai l'influenza di un essere sopra un altro era stata così rapida e così forte. Ippolita aveva meritato dall'amante il motto: gravis dum suavis.

Ma la creatura grave e soave, quella a cui egli aveva saputo infondere con tanta arte il disdegno della vita comune, tra quali umilianti contatti aveva trascorso le ore lontane?

Giorgio ripensò le angosce di quel tempo quando la vedeva allontanarsi, tornare nella casa del marito, nella casa di un uomo a lui interamente ignoto, in un mondo a lui interamente ignoto, nelle volgarità e nelle meschinità della vita borghese in mezzo alle quali ella era nata ed era cresciuta come una pianta rara in mezzo alle ortaglie. Non gli aveva ella mai nascosto nulla, in quel tempo? Non l'aveva mai ingannato? Sempre aveva potuto ella sottrarsi al desiderio del marito, col pretesto della malattia perdurante? Sempre?

Giorgio si ricordò dell'orribile dolore provato una volta ch'ella era venuta in ritardo, affannosa, con le gote insolitamente colorite e calde, portando nei capelli un odor tenace di tabacco, quel cattivo odore di cui s'impregna chi rimane a lungo in una camera dove sieno molti uomini a fumare. Ella aveva detto: - Perdonami se ho tardato; ma avevo a colazione certi amici di mio marito che si sono trattenuti fino a dianzi. - Così aveva detto, dandogli la visione di quella mensa grossolana intorno a cui uomini dozzinali esalavano la loro bestialità.

Di tanti altri piccoli fatti simili Giorgio si ricordava, e d'infinite altre sofferenze crudeli; e di sofferenze anche recenti, che si riferivano al nuovo stato d'Ippolita, alla vita di lei nella casa della madre, in una casa egualmente a lui ignota, egualmente sospetta. «Ora ella è con me, alfine! Ogni giorno, in tutti gli attimi, di continuo, io la vedrò, io la godrò. Di continuo, io saprò occuparla di me, de' miei pensieri, de' miei sogni, delle mie tristezze. Io le dedicherò tutti gli attimi senza intervalli, imaginando mille nuove maniere di piacerle, di turbarla, di addolorarla, di esaltarla, penetrandola di me così ch'ella giunga a credermi un elemento essenziale della sua vita

Si chinò verso di lei, piano; e la baciò piano su la spalla, all'appiccatura del braccio, in quella piccola rotondità di squisita forma e di squisito colore, ove l'epidermide aveva la morbidezza di un raso che fosse così fine da sembrar quasi impalpabile. Egli sentì il profumo di lei stridulo e pur molle, il profumo cutaneo che nell'ora del gaudio diveniva inebriante come quello dei tuberosi ed era pel desiderio una terribile sferza. Guardando così da presso dormire la creatura delicata e complicata, chiusa nel mistero del sonno, strana, che pareva raggiasse da tutti i pori verso di lui una fascinazione occulta, d'una incredibile intensità, egli avvertì in fondo a sé anche una volta un vago moto istintivo di terrore.

Ippolita di nuovo mutò attitudine, senza svegliarsi, ma con un fievole gemito. Si mise supina. Un sudor lieve le inumidiva le tempie; dalla bocca socchiusa esciva un respiro più celere, un po' irregolare; di tratto in tratto i sopraccigli si contraevano. Ella sognava. - Che sognava?

Giorgio, invaso da una inquietudine che crebbe rapidamente sino a un'agitazione irragionevole, stette a spiare su quel volto i minimi accenni, credendo di sorprendere un qualche indizio rivelatore. - Rivelatore di che cosa? - Egli non poteva riflettere; non poteva reprimere quella folle insurrezione di paure, di sospetti, di dubbii.

Ippolita ebbe un sussulto nel sonno; si contorse tutta, come sotto la violenza di una persona invisibile che la tenesse afferrata pe' fianchi; si rovesciò da un lato, verso Giorgio, gemendo, gridando: - No! No! - Poi trasse due o tre respiri, forti come singhiozzi; ebbe nuovi sussulti.

Giorgio, in preda a un'ansietà folle, la guardava fiso, ascoltando, temendo di udire altre parole, forse un nome: un nome d'uomo! Aspettava con una sospensione suprema, come sotto la minaccia di una folgore che dovesse in un attimo annientarlo.

Ippolita si svegliò; lo vide in confuso, smarrita, insonnita; gli si strinse addosso, con un moto quasi inconsciente.

- Che sognavi? Di': che sognavi? - le chiese egli con una voce alterata in cui parevano ripercuotersi i battiti del cuore.

- Non so - ella rispose, languida, profondandosi ancóra nel sonno, premendo la guancia sul petto di lui. - Non mi ricordo più...

Si riaddormentava.

Ma Giorgio rimase immobile sotto la tenera pressione di quella guancia, provando una specie di sordo rancore in fondo all'anima, sentendosi pur sempre separato dalla creatura che gli dormiva sul petto, sentendosi estraneo, solo, inutilmente curioso. Tutti i suoi ricordi amari si risvegliarono in tumulto. Egli riassunse in un sol minuto le sue miserie di due anni. Nulla egli poteva opporre ai dubbii enormi che gli piombavano su l'anima e gli facevano parer greve come un macigno il capo dell'amata.

Ancóra, d'improvviso, Ippolita trasalì, si lamentò, si torse, come sotto una nuova violenza. Aprì gli occhi, sbigottita, gemendo:

- Oh mio Dio!

- Che hai? Che sognavi?

- Non so...

Ella aveva sul volto contrazioni di spasimo. Soggiunse:

- Tu mi premevi? Mi pareva che tu mi urtassi e mi facessi male.

Ella soffriva, visibilmente.

- Oh mio Dio! I soliti dolori...

Ella soffriva, a intervalli, d'un residuo d'isteralgia. Talvolta erano accessi brevissimi, passaggi rapidi d'uno spasimo, che le strappavano un gemito o un grido.

Si rivolse a Giorgio, fissandolo nelle pupille con sicuro intuito, sorprendendo i vestigi della tempesta.

- Tu mi facevi tanto male! - ella ripeté, con un tono di rimprovero carezzevole.

Giorgio, tutt'a un tratto, se la prese tra le braccia, l'allacciò, la serrò, perdutamente, soffocandola di carezze.

 

 

 

X

 

Poiché l'aria era quasi estiva, Giorgio propose: - Vuoi che pranziamo all'aperto?

Ippolita consentì. Discesero.

Giù per la scala si tenevano per mano, posando il piede di gradino in gradino con lentezza, soffermandosi a guardare i fiori premuti, volgendo simultaneamente il viso l'un verso l'altra, come se si vedessero per la prima volta. Gli occhi sembravan loro più larghi, più profondi, quasi più lontani, cerchiati d'un'ombra quasi innaturale. Si sorridevano senza parlare, tenuti ambedue da quella sensazione indefinibile che pareva indefinitamente disperdere nell'aria la loro sostanza resa leggera come un vapore. Camminarono così verso il parapetto, si arrestarono; guardarono il mare, ascoltarono il mare.

Quel che vedevano era insolito, straordinariamente grande, e pure illuminato da una luce intima, come da una irradiazione dei loro cuori. Quel che udivano era insolito, straordinariamente alto, e pur raccolto come un segreto rivelato a loro soli.

Pochi attimi, già trascorsi! Non li riscosse un soffio del vento, non il tuono di un'onda, non un muggito, non un latrato, non una voce umana ma l'ansia medesima che sorgeva dalla loro gioia troppo forte. Pochi attimi, già trascorsi, irrevocabili! Ambedue ora sentivano la vita svolgersi, il tempo fuggire, le cose farsi estranee, l'anima ridiventare ansiosa, l'amore imperfetto. Ambedue sentivano che un minuto di oblio supremo, il minuto unico, era passato per sempre.

Ippolita mormorò, oppressa dalla gravità della solitudine, provando uno sgomento vago d'innanzi a quelle grandi acque, sotto quel cielo deserto che impallidiva dal sommo all'orizzonte per gradi lenti:

- Com'è lontano!

Ad ambedue ora il punto dove respiravano pareva infinitamente lontano dai luoghi conosciuti, remotissimo, isolato, ignorato, non accessibile, quasi fuori del mondo. E, mentre vedevano compiuto il vóto dei loro cuori, ambedue provavano nell'intimo lo sgomento medesimo, quasi che presentissero di non poter sostenere la pienezza della nuova vita. Rimasero ancóra qualche minuto in silenzio, l'uno a fianco dell'altra ma disciolti, a guardare l'Adriatico che aveva un glaciale colore plumbeo su cui le onde crescenti correvano con le loro vivide creste bianche. A tratti, un soffio fresco investiva le capigliature delle robinie trasportandone il profumo.

- A che pensi? - domandò Giorgio, scotendosi come per ribellarsi all'intempestiva tristezza che stava per sopraffarlo.

Egli era , solo con la sua donna, vivente e libero. Pure, il suo cuore non era pago. Egli portava dunque dentro di sé una disperazione inconsolabile? Sentendosi di nuovo separato dalla creatura silenziosa, la prese di nuovo per la mano, la guardò dentro le pupille.

- A che pensi?

- A Rimini - rispose Ippolita, sorridendo.

Ancóra il passato! Un ricordo della vita lontana, in quel momento! - Era lo stesso mare ai loro occhi velati da una stessa illusione? - Egli ebbe da prima entro di sé un moto ostile contro l'evocatrice inconsapevole. Poi, in un attimo, con un'agitazione repentina, vide illuminarsi nel passato tutte le sommità dell'amore e scintillare straordinariamente. Cose lontanissime gli tornarono nella memoria accompagnate da onde di musica che le esaltavano e le trasfiguravano. In un attimo egli rivisse i più alti momenti lirici della sua passione, e li rivisse nei luoghi favorevoli, fra tutti i grandi apparati della natura e dell'arte i quali avevano resa più nobile e più profonda la sua gioia. - Perché mai ora, al confronto, anche il minuto recente si scoloriva? - Ai suoi occhi, come abbacinati da quel folgorio rapido, ora si scolorivano tutte le cose. Ed egli s'accorse che la diminuzione continua della luce gli dava una specie di malessere fisico indefinibile, come se il fenomeno esteriore avesse una rispondenza immediata in lui con un elemento vitale.

Cercò qualche parola da proferire per richiamare a sé la donna, per riallacciarla a sé con un qualunque legame sensibile, quasi per ritrovare il valore della realtà presente, ch'egli aveva smarrito. Ma la ricerca gli era penosa: - pareva che i pensieri gli sfuggissero, si dileguassero lasciandolo vacuo. Come udì un acciottolio di piatti, domandò:

- Hai fame?

E la domanda, suggerita dal piccolo fatto materiale, proferita all'improvviso con una vivacità puerile, fece sorridere Ippolita.

- Sì, un poco - rispose ella sorridendo.

E ambedue si volsero a guardare la mensa preparata sotto la quercia. Ancóra qualche minuto, e il pranzo era pronto.

- Bisogna che tu ti contenti di quel che c'è - disse Giorgio. - Cucina molto rustica...

- Oh, io mi contento dell'erba...

Ed ella con un'aria gaia si avvicinò alla mensa; esaminò con curiosità la tovaglia, le posate, i cristalli, i piatti, trovando tutto grazioso, rallegrandosi come una bimba alla vista dei fiorami azzurri che ornavano la porcellana bianca e fine.

- Tutto mi piace, qui.

Si chinò su un gran pane rotondo ch'era ancor tiepido sotto la bella e gonfia crosta fulva. Ne aspirò con delizia la fragranza.

- Ah che buon odore!

E, come presa da una golosità fanciullesca, ne spezzò con le dita l'orlo crepitante.

- Che buon pane!

I suoi denti forti e puri lucevano nel mordere; tutti i moti della bocca sinuosa esprimevano vivamente il piacere gustato. Ed ella in quell'atto emanava da tutta la persona una schietta e fresca grazia che sedusse e meravigliò l'amante, come una novità inattesa.

- Tieni! Senti quant'è buono!

Ella gli offriva l'avanzo su cui era il segno umido del morso; glie lo spingeva fra le labbra, ridendo, comunicandogli sensualmente la sua ilarità.

- Tieni!

Egli trovò delizioso quel sapore; si abbandonò a quell'incanto leggero; si lasciò avvolgere da quella seduzione che pareva nuova. Un desiderio folle all'improvviso l'assalì: di stringere tra le braccia la provocatrice, di sollevarla su le braccia, di portarla in corsa come una preda. Il cuore gli si gonfiò d'un'aspirazione confusa alla forza fisica, alla sanità possente, a una vita di gioia quasi selvaggia, all'amore semplice e rude, alla grande libertà primordiale. Provò come un bisogno istantaneo di rompere la vecchia spoglia che l'opprimeva, d'uscirne interamente rinnovellato, immune da tutti i mali che l'avevano afflitto, da tutte le deformità che l'avevano impedito. Ebbe la visione allucinante d'una sua esistenza futura in cui egli, affrancato da ogni abitudine funesta, da ogni tirannia estranea, da ogni triste errore, guardava le cose come se le vedesse per la prima volta ed aveva innanzi a sé tutta quanta la faccia dell'Universo aperta come una faccia umana. - Non poteva dunque venire il prodigio da quella donna giovine che su la mensa di pietra, sotto la quercia sicura, aveva spezzato il nuovo pane e l'aveva diviso con lui? Non poteva dunque incominciare da quel giorno, veramente, la Vita Nuova?

 

 

 


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