Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il trionfo della morte
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LIBRO QUARTO LA VITA NUOVA

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LIBRO QUARTO

 

LA VITA NUOVA

 

 

 

I

 

Era tempo di levante. Il cielo era velato, nebuloso, quasi latteo. Una calura umida e immobile occupava l'aria. Il mare, avendo perduto ogni materialità e ogni moto, si confondeva con i vapori vaghi delle lontananze: pallidissimo, senza respiro. Una vela bianca, una sola vela bianca - questa cosa tanto rara nell'Adriatico - si levava laggiù verso le isole Diomedèe, senza muoversi, indefinitamente prolungata dallo specchio dell'acqua, formando quasi il centro visibile di quel mondo inerte che pareva a grado a grado vanire.

Ippolita, seduta sul parapetto della loggia, con un'attitudine di stanchezza, teneva gli occhi fissi alla vela, affascinati da quel bianco. Un po' curva, in un rilassamento di tutta la persona, aveva un'aria stupida, quasi d'ebetudine, che rivelava l'eclisse momentaneo della vita interiore. E, per quella mancanza della forza espressiva, le linee più volgari e più irregolari si accentuavano, il basso della faccia sembrava appesantirsi. La bocca stessa, la bocca elastica e sinuosa, al cui contatto l'amante aveva tante volte provato una specie di terrore istintivo indefinibile, ora sembrava spoglia della sua malìa e ridotta all'aspetto fisico di un comune organo bruto al quale anche l'imagine della carezza era associata come quella di un'azione meccanica scevra di qualunque nobiltà.

«Tutto è finito, a un tratto. La fiamma è spenta. Non l'amo più!» pensava Giorgio, considerando con l'occhio intento e lucido la cruda realtà della creatura inconsapevole, alla cui vita egli aveva così furiosamente mescolata la sua vita fino a quel giorno. «Non l'amo più! Com'è accaduto questo, all'improvviso?» In lui non era soltanto il disgusto dopo l'abuso, quell'avversione carnale che segue i piaceri prolungati; ma era un distacco ancor più profondo e più violento, che gli pareva definitivo e irrimediabile. «Come si può ancóra amare, dopo aver veduto quel ch'io vedoAvveniva in lui il consueto fenomeno: - associando le prime percezioni reali isolate ed esagerate, egli componeva un fantasma interno da cui i suoi nervi ricevevano un impulso assai più forte che non dall'oggetto presente. Con una inconcepibile intensità egli oramai nella persona d'Ippolita vedeva soltanto l'imagine astratta del sesso; vedeva soltanto l'essere inferiore, privo d'ogni spiritualità, semplice strumento di piacere e di lascivia, strumento di ruina e di morte. - Ed egli aveva orrore del padre! Ma che faceva egli, in fondo, se non la medesima cosa? - E gli attraversò lo spirito il ricordo della concubina; gli si risollevò dalia memoria qualche frammento dell'orribile alterco avvenuto tra lui e l'uomo bieco nella casa di campagna, davanti a quella finestra aperta dove egli aveva udito i gridi dei piccoli bastardi, davanti a quel gran tavolo ingombro di carte su cui aveva scorto il disco di cristallo con la vignetta oscena...

- Ah, mio Dio, che peso! - mormorò Ippolita, distraendo gli occhi dalla vela bianca che rimaneva pur sempre immobile nell'infinito. - Anche tu, non ti senti schiacciare?

Si levò, si trascinò per qualche passo fino a una larga sedia di vimini coperta di cuscini; vi si abbandonò come morta di fatica, con un gran sospiro, arrovesciando il capo, socchiudendo gli occhi mentre i cigli ricurvi le tremolavano. Ella ridiventava, d'un tratto, bellissima. La sua bellezza si accendeva, d'improvviso, come una torcia.

- Quando verrà il maestrale? Guarda quella vela. È sempre ! È la prima vela bianca, da che sono con te. Mi pare di sognarla.

Come Giorgio taceva, ella soggiunse:

- Ne hai tu vedute altre?

- No; anche per me è la prima.

- Da che parte verrà?

- Forse dal Gargàno.

- Dove andrà?

- Forse a Ortona.

- Che porterà?

- Forse agrumi.

Ella si mise a ridere. Le sue risa medesime l'avvolsero come in un'onda viva di freschezza, e di nuovo la trasfigurarono.

- Guarda, guarda! - ella esclamò sollevandosi su un braccio e indicando l'orizzonte maritimo, dove pareva che una cortina fosse caduta. - Altre cinque vele, laggiù, in fila.... Le vedi?

- Sì, sì, le vedo.

- Sono cinque?

- Sì, cinque.

- Ancóra, ancóra, laggiù! Guarda! Un'altra fila.... Quante!

Apparivano, sul limite estremo, rosse come fiammelle, immobili.

- Il vento muta. Sento che il vento muta. Guarda come l'acqua s'increspa.

Un soffio subitaneo investì le capigliature delle robinie, che si agitarono lasciando cadere pochi fiori simili a farfalle morte. Poi, prima che le lievi spoglie toccassero la terra, tutto rientrò nella quiete. Giunse, nella pausa, il romore sordo dell'acqua mossa contro la ghiaia e andò diminuendo col moto che si propagava lungo la spiaggia, in fine cessò.

- Hai udito?

Ella s'era levata; e, china verso il parapetto, tendeva l'orecchio nell'atto di chi accorda uno strumento.

- Ecco che viene! - esclamò, di nuovo indicando col gesto l'increspatura mobile dell'acqua su cui s'avanza il rìfolo; e stette ad aspettare, resa vivace dall'impazienza, preparata a trarre un gran respiro.

Dopo alcuni attimi, le robinie investite si agitarono lasciando piovere altri fiori. E giunse fin su la loggia l'alito fresco in cui la salsedine si mescolava al profumo di quei grappoli appassiti. Un suono argentino, singolarmente armonioso, riempì il cavo della piccola baia tra l'uno e l'altro promontorio, vibrando come in un timpano.

- Senti? - disse Ippolita, con la voce sommessa ma esultante, come se quella musica le toccasse l'anima ed ella partecipasse a quelle vicende con tutta la sua vita.

Giorgio seguiva ogni atto, ogni gesto, ogni moto, ogni voce di lei con tale intensità di attenzione che tutto il resto era come se non fosse. L'imagine anteriore non coincideva più con l'apparenza presente, se bene dominasse ancóra su lo spirito in modo da mantenere ancor profondo in lui il senso del distacco morale e da impedirgli di ritornar la donna nei primi termini, di rimetterla nel primo essere, di rintegrarla. Ma da ogni atto, da ogni gesto, da ogni moto, da ogni voce di lei emanava un potere ineluttabile. Tutte quelle manifestazioni fisiche successive parevano comporre come una trama in cui egli era preso e tenuto prigioniero. Pareva che si fosse stabilita tra lui e la donna una specie di attenenza corporea, una specie di dipendenza organica, per cui anche al minimo gesto di lei corrispondesse in lui una mutazione sensuale involontaria ed egli omai non fosse più atto a vivere e a sentire indipendentemente. Come poteva dunque conciliarsi quell'affinità palese con l'odio occulto che egli aveva scoperto in fondo a sé nell'ora medesima?

Ippolita era ancóra intenta allo spettacolo, per una curiosità spontanea, per un bisogno istintivo di moltiplicare le sue sensazioni e di esternarsi nelle cose che la circondavano. Forse appunto la facilità ch'ella aveva, di comunicare con tutte le forme della vita naturale e di trovare infinite analogie tra le espressioni umane e gli aspetti delle cose più diverse; quella simpatia rapida e diffusa che non pure la legava agli oggetti con i quali aveva un contatto cotidiano, ma agli oggetti estranei; quella specie di virtù imitatoria per cui spesso riesciva con un segno a rappresentare il particolar carattere di un essere animato o inanimato e a parlare con gli animali domestici e a interpretarne il linguaggio; tutte quelle facoltà mimetiche appunto concorrevano a rendere più visibile in lei, per gli occhi di Giorgio, il predominio della vita corporea inferiore.

- Che sarà? - ella disse, attonita, udendo un rintuono improvviso, di provenienza misteriosa. - Non senti?

Era come un colpo sordo; a cui seguirono altri colpi con una celerità crescente, così strani che non era possibile definire se partissero da un'origine prossima o remotissima nell'aria che s'illimpidiva.

- Non senti?

- Forse tuona, laggiù.

- Ah, no...

- E allora?

Guardavano intorno, perplessi. Il mare cangiava colore, d'attimo in attimo, come più il cielo si liberava dai fumi. Qua e prendeva il verde indefinibile che ha il lino non maturo quando a traverso i suoi steli diafani passa la luce del sole obliquo nei tramonti d'aprile.

- Ah, è la vela che sbatte, laggiù, - esclamò Ippolita, felice d'essere la prima a scoprire il mistero - è la vela bianca! Guarda; ora prende il vento. Ecco, si muove.

 

 

 

II

 

Ella aveva, con qualche intervallo d'indolenza sonnolenta, un desiderio smanioso di uscire, di avventurarsi al pieno sole, di battere le spiagge e le campagne intorno, di esplorare i sentieri sconosciuti. Incitava il suo compagno; talvolta quasi lo trascinava a forza; talvolta anche si metteva in cammino sola ed era poi raggiunta d'improvviso.

Andavano su per il colle seguitando una viottola chiusa da siepi cariche di fiori violacei tra mezzo a cui si aprivano certi larghi e delicati fiori nivei, di cinque petali, odorosissimi. Di dalle siepi ondeggiavano le spighe inchinate su lo stelo, tra verdi e gialle, qual più qual meno prossima a convertirsi in oro; e talune erano così alte e così folte che superavano le siepi dando imagine d'una bella tazza traboccante.

Nulla sfuggiva all'occhio vigile d'Ippolita. Di tratto in tratto ella s'inchinava per distruggere con un soffio certi globi di peluria leggerissimi in cima a lunghi gambi sottili. Di tratto in tratto s'arrestava per osservare certi piccoli ragni che salivano da un fiore umile a un alto ramo su per un filo invisibile.

Era sul colle, in una breve insenatura solatìa, un campicello di lino già secco. Gli steli giallognoli portavano in sommo una pallina d'oro, e qua e l'oro pareva come offuscato da una ruggine ferrigna. Gli steli più alti avevano un movimento che l'occhio riusciva appena a percepire. E il tutto, per l'estrema leggerezza, dava imagine d'un lavoro d'orefice.

- Guarda una filigrana! - disse Ippolita.

Le ginestre cominciavano a sfiorire. Da talune pendeva una specie di bava bianca in fiocchi; su altre strisciavano grandi bruchi neri e ranci, morbidi alla vista come il velluto. Ippolita ne prese uno ch'era punteggiato di vermiglio nella sua lanugine soave; e lo tenne su la palma della mano, tranquillamente.

- E più bello di un fiore - ella disse.

Giorgio notò (e non era la prima volta) come a lei mancasse quasi interamente il senso del ribrezzo verso gli insetti e come ella in genere non provasse quella ripulsione viva ed invincibile ch'egli provava per una quantità di cose da lui ritenute immonde.

- Gettalo via: ti prego!

Ella, ridendo, tese la mano come per mettergli il bruco sul collo. Egli gittò un grido saltando indietro. Ella rideva più forte.

- Ah che uomo coraggioso!

E, accesa dal gioco, si lanciò ad inseguirlo fra i tronchi dei querciuoli, su per le viottole ripide che formavano una specie di laberinto alpestre. Le sue risa squillavano suscitando di tra le pietre grige stormi di passeri selvaggi.

- Férmati! férmati! Tu fai paura alle pecore...

Un piccolo branco di pecore, infatti, sbigottito si sbandava trascinando giù per il pendìo sassoso un mucchio di cenci turchinicci.

- Férmati! Vedi: non ho più nulla.

Ed ella mostrò al fuggitivo le mani vuote.

- Aiutiamo la muta!

Ed ella corse verso la cenciosa che faceva inutili sforzi per trattener le pecore avvinte da lunghe corde di vimini attorcigliati. Si afferrò al fascio delle corde e puntò i piedi contro una pietra per resistere. Così ansante, vermiglia nel volto, in quell'attitudine violenta, era bellissima. La sua bellezza si accendeva d'improvviso come una face.

- Vieni! Vieni anche tu! - ella gridava a Giorgio, comunicandogli la sua schietta gioia infantile.

Le pecore s'arrestarono tra i cespugli delle ginestre. Erano sei: tre nere e tre bianche; e portavano la corda di vimini intorno al collo lanoso. La donna che le pasceva, macilenta, mal coperta dai suoi cenci turchinicci, gesticolava mettendo dalla bocca sdentata un mugolìo incomprensibile. I suoi piccoli occhi verdastri, senza cigli, pieni di cispa, di lacrime e di sangue, avevano uno sguardo malefico.

Quando Ippolita le porse l'elemosina, ella baciò le monete. Poi, lasciando andare le corde, si tolse di sul capo una pezzuola che non aveva più né coloreforma, si chinò a terra; e pianamente, con un'attenzione estrema, strinse quelle monete sotto molti nodi.

- Sono stanca - disse Ippolita. - Restiamo un poco qui seduti.

Sedettero. Giorgio s'accorse che quel luogo era prossimo al gran ginestreto dove nella mattina di maggio le cinque verginelle avevano còlto il fiore per giuncar la via alla Bella Romana. Già quella mattina gli pareva lontanissima, perduta in un vapore di sogno. Disse:

- Vedi quel folto che è quasi senza fiori? riempimmo le ceste per infiorarti la via quando tu venisti... Ah che giorno! Ti ricordi?

Ella sorrise; e, invasa da una tenerezza subitanea, gli prese una mano. Tenendola così chiusa fra le sue, appoggiò la gota alla spalla dell'amato; e s'immerse nella dolcezza di quel ricordo, di quella solitudine, di quella quiete, di quella poesia.

A tratti passava per le cime dei querciuoli un soffio; e in giù, più lungi, a tratti nel grigio degli olivi passava qualche onda chiara d'argento. La muta si allontanava a poco a poco, dietro le pecore pascolanti; e pareva lasciare su i suoi vestigi qualche cosa di fantastico, quasi un riflesso delle favole dove le fate malefiche si trasformano in rospi alle svolte dei sentieri.

- Ora non sei felice? - mormorò Ippolita.

Giorgio pensava: «Sono già quindici giorni, e nulla è mutato in me. Sempre un'ansietà, sempre un'inquietudine, sempre uno scontento! Siamo appena al principio, e già io veggo la fine. Come dunque godere dell'ora che passa?» E gli tornarono alla memoria alcune frasi d'una lettera d'Ippolita: - Oh quando potrò starti vicina in tutte le ore del giorno, quando vivrò della tua vita! Tu mi vedrai un'altra... Io ti dirò tutti i miei pensieri e tu mi dirai tutti i tuoi. Sarò la tua amante, la tua amica, la tua sorella; e, se mi crederai degna, anche la tua consiglera... Tu non dovrai avere da me se non dolcezza e riposo... Sarà una vita d'amore come non si è mai veduta... -

Pensava: «Tutta la nostra vita, da quindici giorni, si compone di piccoli episodii materiali simili a quelli di oggi. Ella già mi è apparsa, veramente, un'altra! Incomincia a mutarsi anche nell'aspetto. È incredibile la rapidità con cui ella assorbe la salute. Sembra che ogni respiro le giovi; sembra che ogni frutto le si tramuti in sangue; sembra che la bontà dell'aria le penetri da tutti i pori. Ella era fatta per questa esistenza d'ozio, di libertà, di godimento fisico, di spensieratezza. Fino a oggi, dalla sua bocca non è uscita mai una parola grave a rivelare una preoccupazione dell'anima. Ella diventa ogni giorno più puerile negli atti, nei gusti, nei desiderii. Tra me e lei non corrono se non relazioni di sensualità raffinata. Ella porta anche nei piaceri amorosi quello studio e quella lentezza con cui assapora i frutti che predilige, con cui prolunga qualunque altra più piccola delizia, mostrando di non voler vivere per altra cosa, ponendo ogni sua cura nel coltivare e nell'ornare le sue e le mie sensazioni. Le sue pause di silenzio e d'immobilità non provengono se non da stanchezze muscolari, come quella d'ora

- A che pensi? - egli le chiese.

- A nulla. Sono felice.

Poi, dopo un intervallo, ella soggiunse:

- Vuoi che andiamo?

Si levarono. Ella gli scoccò su la bocca un bacio sonoro. Era gaia e irrequieta. Di tratto in tratto si distaccava dal fianco di lui per discendere in corsa un pendìo libero di sassi; e per interrompere l'impeto si aggrappava al tronco d'un querciuolo che all'urto gemeva piegandosi. Colse un fiore violetto e lo succhiò.

- È miele - disse.

Ne colse un altro e lo porse alle labbra dell'amante.

- Prova - disse; e pareva dall'atto della bocca che per la seconda volta ella medesima provasse il sapore.

- Con tutti questi fiori, con tutte queste api, ci dev'essere un alveare qui d'intorno - ella soggiunse. - Bisogna che io mi metta in cerca, una mattina mentre tu dormi ancóra... Ti porterò un favo.

Ella si diffuse a parlare di quell'avventura che le sorrideva nella fantasia; e nelle sue parole passavano, come in sensazione reale, il fresco matutino, il mistero del bosco, l'ansietà dell'indagine, la gioia della scoperta, la biondezza e la fragranza selvaggia del miele.

Si soffermarono, a mezza costa, sul limite della zona selvosa, presi nella malinconia che saliva dal mare.

Il mare aveva un colore delicato, tra l'azzurro e il verde, che a poco a poco pendeva più nel verde; ma il cielo, d'un azzurro plumbeo nel sommo e qua e solcato di nuvole, era roseo nella curva verso Ortona. Quel bagliore si rifletteva nell'estrema linea dell'acqua, pallidamente, dando imagine di rose disciolte che vi galleggiassero. Sul fondo del mare, per gradi armoniosi, si levavano prima le due vaste querci dalla chioma cupa; e quindi i chiari olivi; e quindi i fichi dalla fronda vivace, dai rami violetti. La luna, aranciata, enorme, quasi piena, sorgeva su l'anello dell'orizzonte: simile a un globo di cristallo che lasciasse trasparire un paese chimerico figurato in basso rilievo su un disco massiccio di oro.

Si udivano gorgheggi di uccelli prossimi e lontani. Si udì il mugghio di un bove; poi, un belato; poi, il pianto di un fanciullo. In un intervallo tutte le voci tacquero; e si udì solo quel pianto.

Non era violentointerrotto, ma fioco e continuo, e quasi dolce. E attirava l'anima, la distaccava dalle altre cose, la toglieva alla seduzione crepuscolare per gravarla d'un'angoscia verace che rispondeva alla sofferenza della creatura sconosciuta, del piccolo essere invisibile.

- Senti? - disse Ippolita con la voce involontariamente sommessa, già mutata dalla pietà. - Io so chi piange.

- Tu lo sai? - chiese Giorgio, a cui la voce e l'aspetto dell'amante avevano dato uno strano sussulto.

- Sì.

Ella tendeva ancóra l'orecchio verso quel suono lamentevole che omai pareva riempire tutta la campagna. Soggiunse:

- È il bambino succhiato dalle streghe.

E pronunziò le parole senza l'accenno d'un sorriso, come se anch'ella fosse posseduta da quella superstizione.

- È laggiù, in quella casupola. Me l'ha detto Candia.

Poi, dopo una pausa esitante in cui ambedue ascoltarono il lamentìo ed ebbero la visione fantastica del bambino morituro, ella propose:

- Vuoi che andiamo a vederlo? Non è lontano.

Giorgio rimaneva perplesso, temendo lo spettacolo miserevole, temendo il contatto della gente addolorata e brutale.

- Vuoi? - ripeté Ippolita, in cui la curiosità era divenuta già irresistibile. - È laggiù, in quella casupola, sotto quel pino. Io so la via.

- Andiamo.

Ella andava innanzi affrettando il passo, a traverso un campo in pendìo. Ambedue tacevano; ambedue non erano intenti se non a quel pianto infantile che li guidava. E provavano una pena di passo in passo più acuta, come più quel pianto si faceva distinto e prendeva la qualità della povera carne esangue d'onde lo suscitava il dolore.

Attraversarono un aranceto odoroso calpestando le zàgare sparse sul terreno. Alla soglia di un tugurio, prossimo a quello ch'essi cercavano, stava seduta una femmina mostruosa per l'adipe; ed aveva su quel gran corpo una testa piccola e rotonda, gli occhi miti, i denti schietti, il sorriso placido.

- O signora, dove vai? - chiese colei, senza levarsi.

- Andiamo a vedere il bambino stregato.

- Perché ci vai? Férmati qui un poco, ripòsati. Vedi quanti ne ho io?

Tre o quattro bambini nudi, anch'essi col ventre così gonfio che parevano idropici, si trascinavano sul suolo borbottando, brancicando, portando alla bocca qualunque cosa capitasse loro sotto le mani. E la femmina teneva fra le braccia un altro bambino, tutto coperto di croste nerastre tra mezzo a cui si aprivano due grandi occhi puri ed azzurri come due fiori miracolosi.

- Non vedi quanti ne ho io e com'è questo? Férmati qui un poco!

Ella sorrideva, sollecitando con gli occhi la generosità della forestiera.

- Perché vai ? - ripetè, con un'espressione che pareva intesa a dissuadere la curiosa facendole sentire una vaga minaccia di pericolo. - Guarda com'è questo!

E mostrò di nuovo il suo figliuolo piagato, ma senza simular dolore, come se ella semplicemente offrisse alla forestiera di passaggio un oggetto di pietà prossimo in cambio d'uno più lontano e volesse dire: «Già che tu devi essere pietosa, sii pietosa verso di questo che t'è innanzi.»

- Perché è così? - chiese Giorgio guardando con una pena profonda su quel misero volto maculato i due grandi occhi puri e freschi che parevano accogliere tutta la luce sparsa nella sera di giugno.

- Chi lo sa, signore? - rispose la femmina pingue, sempre con la stessa placidezza. - Dio vuole così.

Ippolita le fece l'elemosina. E seguitarono verso l'altro tugurio, conservando nelle narici il lezzo nauseoso che emanava da quella porta piena d'ombra.

Non parlavano. Avevano il cuore stretto, la bocca disgustata, le ginocchia fiacche. Udivano il lamentìo fioco tra altre voci, tra altri rumori; e si stupivano come mai di lontano essi avessero potuto percepire soltanto quello e così distintamente. Ma attraeva i loro occhi l'alto e diritto pino il cui tronco gagliardo già si disegnava quasi nero sul chiaror diffuso del crepuscolo sostenendo una chioma tutta canora di passeri.

Come si avvicinarono, un mormorio corse tra le femmine assembrate intorno alla vittima.

- Ecco i signori, i forestieri di Candia.

- Venite! Venite!

Le femmine aprivano il cerchio perché i sopraggiunti potessero accostarsi. Una di loro, - una vecchia rugosa che aveva il colore della terra arida e due occhi senza sguardo, bianchicci, come invetriti in fondo alle occhiaie cave, - disse rivolta a Ippolita, toccandole un braccio:

- Vedi, vedi, signora? Se la succhiano le streghe, povera creatura! Vedi come l'hanno ridotta? Dio liberi la tua figliuolanza!

La sua voce era così secca che pareva artificiale, simile ai suoni articolati dagli automi.

- Signora, ségnati - ella soggiunse.

E l'avvertimento parve lugubre in quella bocca senza labbra dove la voce aveva perduta la sua qualità umana ed era divenuta una cosa morta. Ippolita si fece il segno della croce e guardò il suo compagno.

Stavano le femmine intorno come a uno spettacolo, su l'aia, d'innanzi alla porta del tugurio, dando di tratto in tratto qualche prova di condoglianza macchinalmente. E il cerchio si rinnovava di continuo: quelle già stanche di guardare si allontanavano, altre dalle case circostanti sopraggiungevano. E ripetevano quasi tutte lo stesso gesto, ripetevano quasi tutte la stessa parola, al conspetto di quel lento morire.

Il bambino era dentro una piccola culla d'abete grezzo, simile a una piccola cassa mortuaria senza coperchio. La misera creatura nuda, smunta, scarnita, verdastra, metteva un lamento continuo agitando debolmente gli ossicini spolpati delle gambe e delle braccia come per chiedere aiuto. E la madre, seduta a piè della culla, tutta ripiegata su sé stessa, con la testa china così che quasi toccava le ginocchia, non si volgeva a nessuna voce. Pareva che un peso terribile le gravasse su la nuca e le impedisse di risollevarsi. A quando a quando, con un gesto macchinale, metteva su la sponda della culla una mano rude, callosa, adusta; e faceva l'atto di cullare, pur sempre rimanendo curva e taciturna. Allora le imagini sacre, i pentacoli, i brevi, di cui l'abete era quasi tutto coperto, ondeggiavano e susurravano, in una pausa momentanea del pianto.

- Liberata! Liberata! - gridò una delle femmine scotendola. - Guarda, Liberata: è venuta la signora; è venuta alla tua casa la signora. Guardala!

La madre levò la fronte con lentezza, guardò intorno smarritamente; poi fissò su la visitatrice i suoi occhi aridi e cupi in fondo a cui, più che un dolore stanco, era una specie di terrore inerte e opaco: il terrore del maleficio notturno contro il quale non valeva nessun esorcismo; il terrore di quegli esseri insaziabili che omai avevano in potere la casa e non l'avrebbero forse abbandonata se non con l'ultimo cadavere.

- Parla! Parla! - incitò una delle femmine, ancóra scotendola per un braccio. - Parla! Di' alla signora che ti mandi alla Madonna dei Miracoli.

- -Sì, signora; falle la carità! - pregarono le altre intorno. - Mandala alla Madonna! Mandala alla Madonna!

Il bambino piangeva più forte. I passeri in cima al gran pino levavano un clamore accorante. Un cane latrava nelle vicinanze, fra i tronchi deformi degli ulivi. La luna cominciava a segnare le ombre.

- Sì, - balbettò Ippolita che non poteva più sostenere lo sguardo fisso della taciturna - sì, sì, la manderemo... domani....

- Non domani; sabato, signora.

- Sabato è la vigilia.

- Falle comprare un cero.

- Un bel cero.

- Un cero di dieci libbre.

- Hai sentito? Liberata, hai sentito?

- La signora ti manda alla Madonna!

- La Madonna ti fa la grazia!

- Parla! Parla!

- È diventata muta, signora.

- Da tre giorni non parla.

Il bambino piangeva più forte, tra il vocìo confuso delle femmine.

- Senti come piange!

- Sempre, quando si fa notte, piange di più, signora.

- Forse già qualcuna viene.

- Forse già rede...

- Ségnati, signora.

- Fra poco è notte.

- Senti come piange!

- Mi pare che suoni la campana.

- No, di qui non si sente.

- Silenzio!

- Di qui non si sente.

- Io la sento.

- Anch'io la sento.

- Ave, Maria!

Tutte tacquero, si fecero il segno della croce, si chinarono. Pareva che dal borgo lontano giungesse qualche onda di suono, appena percettibile; ma il pianto del bambino confondeva l'orecchio in ascolto. Ancóra una volta, si udì solo quel pianto. La madre era caduta in ginocchio a piè della culla, prostrata fino al suolo. Ippolita, china, pregava fervidamente.

- Guarda , nella porta - mormorò una delle femmine a quella che le stava da presso.

Giorgio, vigilante e inquieto, si volse. La porta era piena d'ombra.

- Guarda , nella porta. Non vedi nulla?

- Sì, vedo... - rispose l'altra, incerta, un po' sbigottita.

- Che c'è? Che si vede? - chiese una terza.

- Che si vede? - chiese una quarta.

- Che si vede?

Tutte furono invase, a un tratto, da quella curiosità e da quello sbigottimento; e guardarono verso la porta. Il bambino piangeva. La madre si levò, e si mise anch'ella a guardare con gli occhi sbarrati e fissi verso la porta che le tenebre interne rendevano misteriosa. Il cane latrava in mezzo agli olivi.

- Che c'è? - disse Giorgio a voce alta, pur facendo qualche sforzo per non lasciarsi dominare e vincere dall'imaginazione già turbata. - Che vedete?

Nessuna delle femmine osò rispondere. Tutte vedevano luccicare una forma vaga nell'ombra.

Allora egli si avanzò verso la porta.

Come varcò la soglia, un'afa di forno e un lezzo disgustoso gli mozzarono il respiro. Si rivolse; uscì.

- È una falce - disse.

Era una falce che pendeva dalla parete.

- Ah, una falce...

E le voci ricominciarono.

- Liberata! Liberata!

- Ma sei pazza?

- È pazza.

- Si fa notte. Noi ce ne andiamo.

- Non piange più.

- Povera creatura! Dorme?

- Non piange più.

- Ora metti la culla dentro. La sera è umida. Ti aiutiamo noi, Liberata.

- Povera creatura! Dorme?

- Pare un morticino. Non si move più.

- Porta la culla dentro. Non ci senti, Liberata?

- È pazza.

- Dove hai il lume? Ora torna Giuseppe. Non hai il lume? Ora torna Giuseppe dalla fornace.

- È pazza. Non parla più.

- Noi ce ne andiamo. Santa notte!

- Povera carne tormentata! Dorme?

- Dorme, dorme... Non soffre più.

- Gesù nostro Signore, salvalo!

- Libera noi, Signore!

- Andiamo, andiamo. Santa notte!

- Santa notte!

- Santa notte!

 

 

 

III

 

Il cane latrava ancóra in mezzo agli olivi, mentre Ippolita e Giorgio tornavano per la viottola verso la casa di Candia. Come riconobbe i due ospiti, tacque e mosse incontro a loro saltellando.

- Oh, è Giardino! - esclamò Ippolita; e si chinò per accarezzare la povera bestia scarna a cui ella era già legata d'amicizia. - Ci chiamava! È tardi...

La luna saliva lenta nel silenzio del cielo, preceduta da un'onda luminosa che bagnava a grado a grado l'azzurro. Tutte le voci della campagna si acquetavano sotto il chiarore pacifico. E la cessazione improvvisa d'ogni tumulto pareva straordinaria, quasi innaturale, a Giorgio che vigilava tenuto da uno sgomento inesplicabile.

- Férmati un poco - egli disse, trattenendo Ippolita.

E tese l'orecchio.

- Che ascolti?

- Mi pareva...

E ambedue guardarono indietro, verso l'aia che gli olivi nascondevano alla vista.

Ma non s'udiva se non la cadenza eguale e piana del mare nella cavità del piccolo golfo sottoposto. Sul loro capo un grillo rigò l'aria a volo, con uno stridore simile a quello di un diamante su una lastra di vetro.

- Non credi tu che il bambino sia morto? - chiese Giorgio, senza dissimulare la sua commozione. - Non piangeva più.

- È vero! - disse Ippolita. - Tu credi che sia morto?

Egli non rispose. Ripresero il cammino, sotto gli olivi argentei.

- Hai guardata la madre? - chiese egli ancóra, dopo un intervallo, avendo dentro di sé la cupa imagine.

- Dio mio! Dio mio!

- E quella vecchia che ti ha toccato il braccio... Quella voce! Quegli occhi!

Appariva nelle sue parole lo strano sgomento che lo teneva, quasi che egli avesse avuto dallo spettacolo reale una rivelazione spaventevole, quasi che la vita gli si fosse manifestata in un aspetto misterioso e feroce all'improvviso percotendolo e segnandolo indelebilmente.

- Sai? Quando io sono entrato nella casa, c'era dietro l'uscio per terra un animale morto... Doveva essere mezzo putrefatto... Non si poteva respirare per l'odore...

- Ma che dici?

- Era un cane o un gatto: non so... Non ci si vedeva bene, dentro.

- Ne sei sicuro?

- Sì, sì, senza dubbio: era una bestia morta... L'odore...

Un brivido di ribrezzo lo assalì, sotto la sensazione rinnovata.

- Ma perché? - domandò Ippolita a cui si comunicavano il disgusto e lo sgomento.

- Chi sa!

Il cane gittò un latrato d'avviso. Erano giunti. Candia li attendeva; e già la mensa era pronta sotto la quercia.

- O signora, com'è tardi! - esclamò la donna affabile, sorridendo. - Di dove torni? Che mi dài, se indovino? Tu sei stata a vedere il figliuolo di Liberata Mannella... Sabato sia, Gesù!

Dopo, mentre i due erano seduti a tavola, ella si accostò curiosa per parlare, per interrogare.

- L'hai veduto, signora? Non si salva, non campa. Che cosa non hanno fatto quel padre e quella madre per salvarlo!

Che cosa non avevano fatto? Ella raccontava tutte le prove, tutti gli esorcismi. Era andato il prete, e aveva proferite le parole del vangelo dopo aver coperto il capo del bambino con un lembo della stola. La madre aveva sospesa all'architrave la croce di cera, benedetta nel giorno dell'Ascensione; aveva asperso d'acqua santa i cardini delle imposte e recitato ad alta voce il Credo tre volte; aveva messo un pugno di sale in un pannolino e chiuso in un nodo l'aveva legato al collo del figliuolo morente. Il padre aveva fatto le sette notti: per sette notti aveva vegliato, nell'oscurità, dinanzi a una lucerna accesa coperta da una pentola, attento ad ogni rumore, pronto ad assalire la strega per ferirla. Sarebbe bastato anche un sol colpo di spillo per renderla visibile agli occhi dell'uomo. Ma le sette veglie erano trascorse invano! Il figliuolo dimagriva e si consumava d'ora in ora, senza rimedio. E il padre disperato in fine aveva ucciso un cane e aveva messo il cadavere dietro l'uscio, per consiglio d'una maliarda. La strega non avrebbe potuto entrare se prima non avesse contati tutti i peli della bestia morta...

- Senti? - disse Giorgio a Ippolita.

E ambedue non mangiavano più, turbati, stretti dalla pietà, sbigottiti dall'apparizione repentina di quei fantasmi d'una vita oscura ed atroce che circondava gli ozii del loro amore inutile.

- Sabato sia, Gesù! - ripeté Candia, toccandosi religiosamente con la palma della mano aperta il ventre che portava la creatura viva. - Dio liberi, signora, la tua figliuolanza.

Poi soggiunse:

- Non mangi, stasera. Non hai voglia. Hai una pena nel cuore per quell'anima innocente. Anche il tuo sposo non mangia. Vedi?

Ippolita le chiese:

- Quanti ne muoiono... così?

- Eh - rispose Candia - questa è una contrada trista. Troppo alligna qui la mala razza. Non c'è mai sicurezza. Sabato sia, Gesù!

Ripetè lo scongiuro; poi soggiunse, indicando un piatto su la mensa:

- Vedi questi pesci? Vengono dal Trabocco. L'ha portati Turchino...

E abbassò la voce.

- Vuoi sapere? Turchino è sotto una fattura, con tutta la sua famiglia, da quasi un anno; e non s'è liberato ancóra.

- Chi è Turchino? - chiese Giorgio, che pendeva dalle labbra della donna, attratto da quelle cose misteriose. - L'uomo del Trabocco?

E si ricordò di quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti.

- Sì, signore. Guarda . Se hai buona vista, lo puoi scorgere. Stanotte pesca con la luna.

E Candia indicò su la scogliera nerastra la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano.

Si udiva stridere l'argano, nell'aria tranquilla. Essendo scoperti gli scogli, nella bassa marea, il profumo delle alghe saliva per la costa vincendo di forza e di freschezza tutti gli effluvii della collina feconda.

- Ah, che delizia! - mormorò Ippolita aspirando la fragranza inebriante, sembrando già tutta occupata da quella sensazione intensa che le faceva palpitare le narici e socchiudere i cigli. - Non senti, Giorgio?

Egli era attentissimo alle parole di Candia, e imaginava quel muto dramma che pendeva sul mare. La sua anima, proclive al mistero e nativamente superstiziosa, dava ai fantasmi evocati dalla femmina ingenua nella notte serena una vita e una terribilità tragica senza limiti. Ed egli aveva già, per la prima volta, la visione vasta e confusa di quella gente a lui sconosciuta, di tutta quella carne miserabile, piena d'istinti e di dolori bestiali, curva e sudante su la gleba o accasciata in fondo ai tugurii, sotto la minaccia continua di quelle oscure potenze. Egli scopriva una violenta agitazione umana tra la dolce ricchezza della terra da lui eletta a teatro del suo amore; ed era come s'egli scoprisse un brulichìo d'insetti nella massa d'una capigliatura magnifica pregna d'aromi. Lo teneva quel raccapriccio medesimo ch'egli aveva provato già altre volte al contatto o al conspetto della vita palese e brutale: - di recente, al conspetto dei consanguinei: del padre, del fratello, della povera beghina ingorda. D'improvviso, egli non più si sentiva solo con la sua donna, in mezzo alle miti creature arboree sotto la cui scorza un giorno egli aveva creduto di sorprendere un pensiero; ma si sentiva circondato e quasi premuto da una folla ignota che, portando in sé la stessa vitalità dei tronchi cieca tenace e irreduttibile, aveva con lui il legame della specie e poteva immediatamente comunicargli la sua sofferenza con uno sguardo, con un gesto, con un sospiro, con un singhiozzo, con un gemito, con un grido.

- Eh, questa è una contrada trista - ripeteva Candia scotendo il capo. - Ma deve venire il Messia di Cappelle a purgare la terra...

- Il Messia?

- Oh padre! - gridò Candia verso la porta della sua casa. - Quando viene il Messia?

Il vecchio si fece alla soglia.

- Uno di questi giorni - rispose.

E, rivolto alle spiagge lunate che dileguavano verso Ortona, significava con un gesto vago il mistero di quel liberatore novello in cui il popolo delle campagne aveva posto la sua speranza e la sua fede.

- Uno di questi giorni. Sta per venire.

E il vecchio, desideroso di parlarne, s'accostò alla mensa; guardò l'ospite con un sorriso incerto; gli chiese:

- Tu non lo sai?

- È Simplicio, forse? - disse Giorgio, nella cui memoria si risvegliava il ricordo lontano e indistinto di quel Simplicio sulmonese che cadeva in estasi affisando il sole.

- No, signore, Sembrì è morto. Questo è Oreste di Cappelle: il nuovo Messia.

E il vecchio monocolo, con un linguaggio caldo e colorito d'imagini vive, raccontò la nuova leggenda come s'era formata nella credenza delle popolazioni campestri.

Oreste, essendo frate cappuccino, aveva conosciuto Simplicio a Sulmona e da lui aveva imparato a leggere il futuro nella faccia del sole nascente. Poi s'era messo a vagare per il mondo: era giunto a Roma e aveva parlato col papa; in un altro paese aveva parlato col re. Tornato in patria, a Cappelle, aveva passato sette anni nel cimitero, in compagnia di scheletri, portando il cilicio, percotendosi giorno e notte con la disciplina. Aveva predicato nella Chiesa madre, suscitando pianti e grida dai peccatori. Poi, di nuovo, era partito in pellegrinaggio per tutti i santuarii; era rimasto trenta giorni sul Monte di Ancona; era rimasto dodici giorni sul Monte San Bernardo; era salito su le più alte cime, a capo scoperto, sotto la neve. Tornato in patria, aveva ripresa la predicazione nella sua Chiesa. Ma, poco dopo, insidiato e scacciato dai nemici, s'era rifugiato nell'isola di Corsica; e s'era fatto Apostolo, col proposito di percorrere tutta l'Italia e eli scrivere col suo sangue su la porta d'ogni città il nome della Vergine. Come Apostolo era rientrato nella sua terra, annunziando di aver veduta una stella tra folti alberi e d'averne ricevuto il Verbo. E finalmente, per inspirazione dell'Eterno Padre, aveva preso il gran nome di Novello Messia.

Egli ora peregrinava per le campagne vestito d'una tunica rossa e d'un manto azzurro, con i capelli lunghi su le spalle e con la barba alla nazarena. Lo seguivano gli apostoli: uomini che avevano abbandonato la vanga e l'aratro per dedicarsi al trionfo della nuova fede. In Pantaleone Donadio riviveva lo spirito di San Matteo; in Antonio Secamiglio riviveva lo spirito di San Pietro; in Giuseppe Scurti, quello di Massimino; in Maria Clara, quello di Santa Elisabetta. E Vincenzo di Giambattista rappresentava San Michele Arcangelo, era il Messaggero del Messia.

Tutti costoro avevano arato il campo, avevano falciato il grano, potato la vite, premuto l'oliva; avevano condotto il bestiame nelle fiere e disputato sul prezzo; avevano condotta la donna all'altare e procreato figliuoli e veduto questi crescere, fiorire, morire; avevano vissuto in somma la comune vita della gente campestre tra i loro eguali. E passavano ora, seguaci del Messia, considerati come persone divine da quelli stessi con cui pur una settimana innanzi eran venuti a litigio su la misura delle biade. Passavano trasfigurati, partecipando della divinità di Oreste, investiti della sua Grazia.

Stando nel campo o nella casa, avevano udito una voce ed avevano sentito entrare nella loro carne peccatrice gli spiriti puri, all'improvviso. In Giuseppe Coppa era lo spirito di San Giovanni; in Pasquale Basilico, lo spirito di San Zaccaria. Anche le donne ricevevano il segno. Una donna di Senegallia, moglie di un Augustinone sartore di Cappelle, per dimostrare al Messia l'ardenza della sua fede, aveva voluto rinnovellare il sacrificio di Abramo appiccando il fuoco a un pagliericcio su cui giacevano i figliuoli. Altre donne avevano dato altre prove.

E l'Eletto ora peregrinava per le campagne seguìto dagli Apostoli e dalle Marie. Le moltitudini traevano sul suo passaggio dai più lontani luoghi della marina e della montagna. Sempre, all'alba, comparendo egli su la porta della casa dove aveva albergato, vedeva una gran turba in ginocchio aspettante. Diritto su la soglia, diffondeva il Verbo, riceveva le confessioni, amministrava la comunione con i frammenti d'un pane. Preferiva per suo cibo le uova condite con i fiori del sambuco o con le punte degli asparagi selvaggi, anche mangiando una mistura di miele, di noci e di mandorle, ch'egli chiamava manna per ricordare la manna del deserto.

I suoi miracoli non si numeravano. Con la semplice virtù del pollice, dell'indice e del medio levati in alto, egli liberava gli ossessi, medicava gli infermi, risuscitava i morti. Quando taluno andava a lui per consulto, egli non lasciava che aprisse bocca, ma sùbito gli diceva i nomi di tutto il parentado, gli esponeva i casi della famiglia, gli rivelava i più oscuri segreti. Dava anche notizie su le anime dei defunti; indicava i luoghi dov'erano tesori nascosti; con certi suoi brevi in forma di triangolo bandiva dai cuori le malinconie.

- Arevà Criste pe' lu munne: Cristo va di nuovo pel mondo - concluse Cola di Sciampagna, con una voce calda d'intima fede. - Anche di qui deve passare. Non hai veduto com'è alto il grano? Non hai veduto come fiorisce l'olivo? Non hai veduto com'è carica la vite?

Giorgio chiese, gravemente, rispettoso della credenza senile:

- E ora dov'è?

- Alla Piomba - rispose il vecchio.

E indicò le spiagge remote oltre Ortona, suscitando nello spirito dell'ospite la visione di quel lembo della provincia teramana bagnato dal mare: una visione quasi mistica di terre fertili rigate da fiumicelli sinuosi ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d'acqua correva su un letto di ghiaie polite.

Dopo un intervallo di silenzio, Cola soggiunse:

- Alla Piomba, con una parola ha fermato il treno su la strada ferrata! L'ha veduto mio figlio. Non è vero, Candia, che Vito l'ha detto?

Candia assentì; riferì le particolarità del prodigio avvenuto. Coperto della tunica rossa, il Messia s'era fatto incontro al treno camminando fra le due rotaie tranquillo.

Parlando, ella e il vecchio volgevano di tratto in tratto lo sguardo e il gesto verso la regione lontana, quasi che per loro fosse già visibile la persona sacra del vegnente.

- Ascolta! - interruppe Ippolita scotendo Giorgio ch'era assorto in uno spettacolo interiore sempre più vasto e più distinto. - Non odi?

Ella si levò e andò verso il parapetto dello spiazzo, sotto le robinie, seguita da lui. Ascoltarono.

- È una compagnia che va alla Madonna di Casalbordino - disse Candia.

Si distendeva nella calma lunare un canto religioso dal ritmo lento e uniforme, alternato di voci maschili e di voci feminili per eguali intervalli. Il primo semicoro cantava una strofe su un tono basso; il secondo cantava un ritornello su un tono più alto, prolungando indefinitamente la cadenza. Ed era come un'onda che si elevasse e si abbassasse di continuo avvicinandosi.

S'avvicinava con una rapidità contraria alla lentezza del ritmo. Già i primi pellegrini apparivano presso il ponte del Trabocco, alla svolta del sentiero.

- Eccoli! - esclamò Ippolita, agitata dalla novità delle cose ch'ella vedeva, ch'ella udiva. - Eccoli! Quanti!

Procedevano in una massa compatta. Ed il contrasto di misura tra il loro andare e il loro cantare era così strano che dava al loro aspetto un'apparenza quasi fantastica. Sembravano spinti alla mèta da una forza innaturale, inconsapevoli, mentre le voci uscite dalle loro bocche rimanevano sospese nell'aria luminosa e duravano dopo il passaggio ondulando.

 

Evviva Maria!

Maria evviva!

 

Passarono con uno scalpiccìo greve, con il sentore acre di una mandra, addossati gli uni agli altri per modo che dal folto non emergevano se non le alte mazze in forma di croci. Gli uomini camminavano innanzi; e le donne seguivano, in maggior numero, con un luccichìo di ori sotto le bende bianche.

 

Evviva Maria

E chi la creò!

 

Il loro canto da presso aveva la veemenza d'un grido ad ogni espirazione; poi scemava di vigore, palesando una stanchezza vinta con uno sforzo continuo e concorde che nei due semicori era quasi sempre iniziato da una voce unica più possente. E quella voce non soltanto nell'intonare vinceva le altre, ma talvolta si manteneva altissima e riconoscibile pur in mezzo all'onda piena per tutta la durata della strofe o del ritornello, significando una fede più impetuosa, un'anima singolare e dominatrice tra la folla indistinta.

La notò Giorgio e la seguì attentissimo nella digradazione della lontananza finché l'orecchio poté riconoscerla. E crebbe in lui, straordinario, il sentimento della mistica potenza che teneva alle radici la grande razza indigena da cui egli medesimo proveniva.

Sparve nell'insenatura la compagnia; poi riapparve su la cima del promontorio al chiarore; poi di nuovo sparve. E il canto per la lontananza notturna si velò, s'addolcì, si fece così tenue che quasi lo spegnevano le piane e lente cadenze della bonaccia.

Ippolita, seduta sul parapetto, con le spalle appoggiate al tronco d'una robinia, taceva immobile, non osando turbare il raccoglimento religioso in cui l'amante pareva immerso.

Che cosa poteva a lui rivelare la luce del più chiaro sole, che quel semplice canto nella notte non gli avesse già rivelato? Tutte le imagini sparse, le recenti e le antiche, quelle ancor vibranti della sensazione viva da cui eran nate e quelle sepolte negli strati della memoria più profondi, tutte si collegavano entro di lui componendogli uno spettacolo ideale che vinceva a confronto qualunque più vasta e augusta realtà. La sua terra e la sua gente gli apparivano transfigurate, sollevate fuori del tempo, con un aspetto leggendario e formidabile, grave di cose misteriose ed eterne e senza nome. Una montagna sorgeva dal centro, come un immenso ceppo originale, in forma d'una mammella, ricoperta di nevi perpetue; e bagnava le coste falcate e i promontorii sacri all'olivo un mare mutevole e triste su cui le vele portavano i colori del lutto e della fiamma. Vie larghe come fiumi, verdeggianti d'erbe e sparse di macigni e qua e segnate d'orme gigantesche, discendevano per le alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi. Riti di religioni morte e obliate vi sopravvivevano; simboli incomprensibili di potenze da tempo decadute vi rimanevano intatti, usi di popoli primitivi per sempre scomparsi vi persistevano trasmessi di generazione in generazione senza mutamento; fogge ricche, strane ed inutili v'erano conservate come testimonianze della nobiltà e della bellezza d'una vita anteriore. Passavano lunghe teorie di cavalli carichi di frumento; e i devoti cavalcavano su le some, con serti di spighe in capo, con tracolle di pasta; e deponevano ai piedi d'una statua i doni cereali. Le giovinette, con in capo canestre di grano, conducevano per le vie un'asina che portava su la groppa una maggiore canestra; ed andavano all'altare, per l'offerta, cantando. Gli uomini e i fanciulli, coronati di rose e di bacche rosee, salivano in pellegrinaggio a una rupe dov'era stampata l'orma di Sansone. Un bue candido, impinguato per un anno con abondanza di pastura, coperto d'una gualdrappa vermiglia, cavalcato da un fanciullo, procedeva in pompa tra gli stendardi e i ceri; s'inginocchiava sul limitare del tempio tra il plauso del popolo; giunto nel mezzo della navata, mandava fuori gli escrementi del cibo; e i divoti da quella materia fumante traevano gli auspicii per l'agricoltura. In festa le popolazioni fluviali si cingevano il capo di vitalbe e nella notte passavano l'acqua con canti e con suoni, portando in pugno ramoscelli fronzuti. Le vergini all'alba nelle praterie, per vóto, si lavavano le mani, i piedi e il viso nella rugiada novella. Ai monti, ai piani, il primo sole della primavera era salutato con antichi inni, con fragore di metalli percossi, con grida e con danze. Cercavano gli uomini, le donne e i fanciulli per tutta la campagna le prime serpi escite dal letargo; le afferravano vive e se ne cingevano il collo e le braccia per presentarsi così cinti al patrono che li rendeva immuni dai morsi velenosi. Giù per le colline solatìe i giovani aratori con i bovi aggiogati, al conspetto dei loro vecchi, gareggiavano a compiere il più diritto solco dalla cima al piano sottoposto; e i giudici decretavano il premio al vittorioso mentre il padre in lacrime apriva le braccia al figliuol degno. E così, in tutte le cerimonie, in tutte le pompe, in tutti gli offici, in tutti i giochi, nelle natività, negli amori, nelle nozze, nei funerali, sempre era presente e visibile un simbolo georgico, sempre era rappresentata e venerata la grande genitrice Terra dal cui grembo scaturivano le fonti d'ogni bene e d'ogni allegrezza. Le donne del parentado convenivano alla casa della sposa novella portando sul capo un canestro di grano e sul grano un pane e sul pane un fiore; entravano ad una ad una, e spargevano un pugno di quel frumento augurale su i capelli dell'avventurata. A piè del letto d'un moribondo, quando si prolungava l'agonia, due consanguinei deponevano un aratro che aveva virtù d'interrompere lo strazio affrettando la morte. L'utensile e il frutto erano elevati ad alte significazioni e potenze. Un sentimento e un bisogno del mistero profondi e continui davano a tutte le materie circostanti un'anima attiva, benefica o malefica, bene o male augurosa, che partecipava ad ogni vicenda, ad ogni fortuna, con un atto palese od occulto. Una foglia vescicatoria impressa sul braccio nudo rivelava l'amore o il disamore; le catene del camino gittate su la via scongiuravano l'uragano imminente; un mortaio posto sul davanzale richiamava i colombi smarriti; un cuore di rondine ingoiato comunicava la saggezza. Il mistero interveniva così in tutti gli eventi, circondava e serrava tutte le esistenze; e la vita soprannaturale vinceva, copriva e assorbiva la vita ordinaria creando fantasmi innumerevoli e indistruttibili che popolavano i campi, abitavano le case, ingombravano i cieli, turbavano le acque. Il mistero e il ritmo, i due elementi essenziali d'ogni culto, erano per ovunque sparsi. Uomini e donne esprimevano di continuo la loro anima col canto, accompagnavano col canto tutte le loro opere al chiuso e all'aperto, celebravano col canto la vita e la morte. Intorno alle culle e intorno alle bare ondeggiavano le melopèe lente e iterate, antichissime, antiche forse come la razza di cui manifestavano la tristezza profonda. Tristi e gravi e fisse in un ritmo non alterato mai, parevano frammenti d'inni appartenuti a liturgie immemorabili, sopravvissuti alla distruzione di un qualche grande mito primordiale. Erano in piccolo numero ma dominanti così che le canzoni nuove non potevano combatterlediminuirne la potenza. Si trasmettevano di generazione in generazione come un'eredità interiore, inerente alla sostanza corporea; e ciascuno svegliandosi alla vita le udiva risonare in sé medesimo come un linguaggio innato a cui la voce dava le forme sensibili. Al pari delle montagne, delle valli e dei fiumi, al pari degli usi, dei vizii, delle virtù e delle credenze, esse erano parte nella struttura del paese e della gente. Erano immortali come la gleba e come il sangue.

In questo paese, a questa gente veniva ora il Novello Messia di cui il vecchio agricoltore aveva narrato la vita e i miracoli. Chi era costui? Un asceta ingenuo ed innocuo come Simplicio che adorava il sole? Un simulatore astuto e cupido che tentava di trarre a suo profitto la credulità dei divoti? Chi era dunque costui che dalla riva d'un fiumicello poteva agitare col suo nome le moltitudini prossime e lontane, indurre le madri ad abbandonare i figli, suscitare visioni e voci d'un altro mondo nelle anime più rozze?

E Giorgio evocò di nuovo la figura di Oreste, coperta della tunica rossa, incedente lungo il fiumicelio sinuoso ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d'acqua correva su un letto di ghiaie polite.

«Non sarà forse» egli pensava «non sarà in questa improvvisa rivelazione la mia salvezza? Non debbo io, per ritrovare tutto me stesso, per riconoscere la mia vera essenza, non debbo io pormi a contatto immediato con la razza da cui sono uscito? Riprofondando le radici del mio essere nel suolo originario, non assorbirò io un succo schietto e possente che varrà ad espellere tutto ciò che è in me fittizio ed eterogeneo, tutto ciò che ho ricevuto consapevole ed inconsapevole per mille contagi? Non io ora cerco la verità, ma sì bene cerco di ricuperare la mia sostanza, di rintracciare in me i caratteri della mia razza per riaffermarli e renderli quanto più potrò intensi. Accordando così la mia anima con l'anima diffusa, io riavrò quell'equilibrio che mi manca. Il segreto dell'equilibrio per l'uomo d'intelletto sta nel saper trasportare gli istinti, i bisogni, le tendenze, i sentimenti fondamentali della propria razza in un ordine superiore

Il mistero e il ritmo erano per ovunque sparsi. Il mare da presso respirava su la spiaggia biancheggiante, ad intervalli eguali; ma si udivano nelle pause le cadenze, a mano a mano più deboli, delle onde che toccavano i punti successivamente più lontani. Forse ripercosso da una cavità sonora, giunse anche una volta il canto dei pellegrini; poi si dileguò. Verso il Vasto d'Aimone il cielo balenava frequente; e i baleni parevano vermigli nel quieto candore della luna. Appoggiata all'albero, Ippolita sognava fissando quel focolare di baleni muti.

Ella non s'era mai mossa. Non era insolita in lei l'immobilità prolungata in un'attitudine, che prendeva talvolta l'apparenza catalettica e faceva quasi terrore. Ella così non aveva più l'aspetto giovenile e clemente che conoscevano le piante e gli animali, ma aveva l'aspetto d'una creatura taciturna e invincibile in cui fosse raccolta tutta la virtù isolante esclusiva e distruttiva della passione d'amore. I tre divini elementi della sua bellezza - la fronte, gli occhi, la bocca - non eran forse mai giunti a un tal grado d'intensità simbolica nel significare il principio del fascino feminino eterno. Pareva che la notte serena favorisse quella sublimazione della forma sprigionando da lei la vera essenza ideale e permettendo all'amante di percepirla intieramente con l'acuità non della pupilla ma del pensiero. La notte d'estate, carica di luce lunare e di tutti i sogni e di stelle pallide o invisibili e delle voci equòree più melodiose, pareva il natural campo della sovrana imagine. Come l'ombra talvolta ingrandisce a dismisura il corpo che la produce, così la fatalità dell'amore rendeva più alta e più tragica su quell'infinito campo la persona d'Ippolita per il veggente in cui la prescienza diveniva sempre più lucida e più terribile.

Non era, nella medesima immobilità, la donna medesima che dalla loggia aveva guardato la rara vela bianca su le acque morte? Era ella; e anche ora, mentre il suo aspetto notturno pareva scevro d'ogni realità brutale, sotto al sentimento da lei suscitato si moveva quel medesimo odio: il mortale odio dei sessi, che è il fondo dell'amore e che occulto o palese permane in tutti gli effetti - dal primo sguardo al disgusto estremo.

«Ella è dunque la Nemica», pensò Giorgio. «Finché vivrà, finché potrà esercitare sopra di me il suo impero, ella m'impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo. E come ricupererò io la mia sostanza, se una gran parte è nelle mani di costei? Vano è aspirare a un nuovo mondo, a una vita nuova. Finché dura l'amore, l'asse del mondo è stabilito in un solo essere e la vita è chiusa in un cerchio angusto. Per rivivere e per conquistare, bisognerebbe che io mi affrancassi dall'amore, che io mi disfacessi della nemica... »

Anche una volta egli la imaginò morta. «Morta, ella diventerebbe materia di pensiero, pura idealità. Da una esistenza precaria e imperfetta ella entrerebbe in una esistenza completa e definitiva, abbandonando per sempre la sua carne inferma, debole e lussuriosa. - Distruggere per possedere - non ha altro mezzo colui che cerca nell'amore l'Assoluto

Ippolita, d'improvviso, ebbe un gran sussulto, come per la scossa d'un brivido straordinario.

Ella disse, alludendo alla comune superstizione:

- È passata la Morte.

E sorrise. Ma l'amante, colpito dalla singolarità del caso, non poté difendersi da un moto istintivo di sgomento e di stupore. «Ha ella sentito il mio pensiero

Si levarono ambedue, nel tempo medesimo, udendo il cane latrare con una furia subitanea.

- Chi sarà? - disse Ippolita inquieta.

Il cane iterava i latrati verso gli olivi, sul principio della viottola. Candia e il vecchio uscirono dalla casa.

- Chi sarà? - ripeté a loro Ippolita inquieta.

- Chi può essere? - fece il vecchio, guardando pel chiaro.

Una voce umana giunse di tra gli olivi: una voce umana implorante e singhiozzante. Poi apparve una forma oscura che Candia sùbito riconobbe.

- Liberata!

La madre portava sul capo la culla coperta da un panno cupo. Camminava diritta, quasi rigida, senza volgersi, senza deviare, chiusa in sé stessa e muta, simile a una sonnambula sinistra, spinta ciecamente verso una mèta ignota. E un uomo la seguiva, a capo scoperto, sconvolto, singhiozzando, implorando, chiamandola per nome, curvo battendosi l'anca o cacciandosi le mani nei capelli con atti di atroce disperazione.

- Liberata! Liberata! Sèntimi! Sèntimi! Torna alla casa! Oh Dio, oh Dio! - egli urlava tra i singhiozzi, goffo e miserabile, trascinandosi dietro alla donna sorda. - Dove vuoi andare? Che ti sta in mente? Liberata! Sèntimi! Sèntimi! Oh Dio! Oh Dio!

Egli implorava per trattenerla, per arrestarla; e non la toccava. Tendeva verso di lei le mani con gesti frenetici di dolore; e non la toccava, quasi che una causa misteriosa glie l'impedisse, quasi che una malìa rendesse intangibile quella persona.

Anche Candia non le si fece innanzi, non le precluse il passo.

- Che è, Giuseppe? Che è stato? - domandò all'uomo.

Colui con un gesto significò la demenza. E risonavano nella memoria di Giorgio e d'Ippolita le voci delle comari: «È pazza. È diventata muta, signora. Da tre giorni non parla. È pazza. È pazza

- È morto? - domandò di nuovo, sommessamente, Candia indicando la culla coperta.

L'uomo singhiozzò più forte, più forte. E risonavano, insieme, nella memoria di Giorgio e d'Ippolita le voci delle comari: «Non piange più. Povera creatura! Dorme? Pare un morticino. Non si move più. Dorme... dorme... Non soffre più.»

- Liberata! - gridò Candia, raccogliendo tutta la forza della sua gola, come per scuotere la impassibile. - Liberata! Dove vai?

Ma non la toccò, ma non le impedì il cammino.

Poi tutti tacquero e guardarono.

La madre continuò ad avanzare, alta e diritta, quasi rigida, senza volgersi, fissando innanzi a sé gli occhi dilatati ed aridi, tenendo la bocca chiusa, come premuta da un suggello, come votata già a un silenzio perpetuo e priva del respiro. Ondeggiava sul suo capo la culla mutata in bara; e la lamentazione dell'uomo prendeva un ritmo costante, quasi di monodìa.

Così la coppia tragica, attraversato lo spiazzo, discese nel sentiero impresso dalle orme recenti dei pellegrini, per ove fluttuava ancóra l'anima religiosa diffùsavi dall'inno.

E gli amanti, stretti dalla pietà e dall'orrore, guardarono la figura della madre funeraria allontanarsi nella notte, verso quel focolare di baleni muti.

 

 

 

IV

 

Ora non più da Ippolita ma da Giorgio venivano gli incitamenti alle lunghe escursioni, alle lunghe esplorazioni. Condannato «ad attendere di continuo la vita», egli ora credeva di andarle incontro, di trovarla e di coglierla nella natura reale. Con una curiosità fittizia egli ora cercava ciò che in vero poteva appena muovere la superficie dell'anima ma non penetrarla ed agitarla a dentro. Si sforzava di scoprire tra certe cose e la sua anima rapporti che non esistevano. Si sforzava di scuotere l'indifferenza ch'era al fondo: quell'indifferenza inerte che per tanto tempo l'aveva reso estraneo ad ogni agitazione esteriore. Raccogliendo tutte le sue facoltà più perspicaci, intendeva a rintracciare qualche viva rassomiglianza tra il suo essere e la natura circonstante per ricongiungersi filialmente a lei e restarle fedele in eterno.

Ma non risorse in lui quello straordinario senso che più d'una volta lo aveva esaltato e meravigliato ai primissimi giorni della sua dimora nell'Eremo, quando non era anche giunta l'amica. Egli non poté risuscitare l'ebrietà pànica del primo giorno, quando aveva creduto di sentir veramente il Sole dentro il suo cuore; né la malinconica dolcezza della prima passeggiata solitaria; né la improvvisa divina letizia comunicatagli nel mattino di maggio dalla canzone di Favetta e dal profumo delle ginestre fresche di rugiada. Su la terra e sul mare gli uomini gittavano un'ombra tragica. La povertà, la malattia, la demenza, il terrore e la morte si occultavano o si manifestavano per tutti i luoghi dov'egli passava. Un vento di fanatismo ardente correva il paese da un capo all'altro. Di giorno e di notte, presso e lontano, gli inni religiosi risonavano monotoni e interminabili. Il Messia era aspettato; e i papaveri tra le biade suscitavano l'imagine della sua veste rossa.

La fede consacrava tutte le forme vegetali intorno. La leggenda cristiana si avvolgeva ai tronchi, fioriva tra i rami. - Nel grembiule della Madonna fuggiasca, inseguita dai Farisei, il Bambino Gesù si mutava in frumento traboccante. Nascosto nella madia, faceva lievitare la massa del pane rendendola inesauribile. Su i lupini secchi e spinosi che avevano ferito i dolci piedi della Vergine, pesava una maledizione; ma il lino era benedetto perché con le sue onde aveva abbagliato i Farisei. Benedetto era anche l'ulivo perché aveva ospitato la Famiglia nel suo tronco aperto a guisa di capanna e l'aveva illuminata col suo olio puro. E benedetto era il ginepro che aveva tenuto chiuso in sé l'Infante; e benedetto l'agrifoglio per lo stesso atto cortese; e benedetto l'alloro perché prodotto dal suolo asperso dell'acqua già data in lavacro al figliuolo di Dio. -

Come sfuggire al fascino del mistero che si diffondeva su tutte le cose create transfigurandole in segni ed in emblemi d'un'altra vita?

Sentendo a quelle sollecitazioni insorgere confusamente tutte le sue tendenze mistiche, Giorgio pensava: «Se io possedessi la vera fede, quella fede che permetteva a Santa Teresa di vedere Iddio realmente nell'ostia!» E non era un desiderio vago e momentaneo, ma era una profonda e fervida aspirazione di tutta l'anima ed era anche una straordinaria angoscia in cui si agitavano tutti gli elementi della sua sostanza; poiché egli sentiva di trovarsi innanzi al segreto della sua infelicità e della sua debolezza. Come Demetrio Aurispa, egli era un ascetico senza Dio.

E gli apparve l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

Era il suo vero padre. Sembrava, per una singolare corrispondenza di nomi, che questa spirituale paternità fosse consacrata nelle parole inscritte intorno al meraviglioso ostensorio donato dagli avi e custodito nella cattedrale di Guardiagrele.

 

† Ego Demetrivs Avrispa et vnicvs Georgivs filivs mevs donamvs istvd Tabernacvlvm Ecclesiæ S. M. de Gvardia qvod factvm est per manvs abbatis Joannis Castorii de Gvardia archipresbyteri ad vsvm Evcharistiæ.

Nicolavs Andræ de Gvardia me fecit A. D. mccccxiii.

 

Entrambi, infatti, esseri d'intelletto e di sentimento, portavano l'eredità mistica di Casa Aurispa; entrambi avevano l'anima religiosa, inclinata al mistero, atta a vivere in una selva di simboli o in un cielo di pure astrazioni; entrambi amavano le cerimonie della chiesa latina, la musica sacra, l'odore dell'incenso, tutte le sensualità del culto più violente e più delicate. Ma avevano perduta la fede. Si inginocchiavano d'innanzi a un altare disertato da Dio.

La loro miseria proveniva dunque dal loro bisogno metafisico a cui il dubbio implacabile impediva di dilatarsi, di appagarsi, di riposarsi nel grembo divino. Non essendo conformati in modo da poter accettare e combattere la lotta dell'esistenza comune, essi avevano compresa la necessità della clausura. Ma come può l'esule della vita durar nella cella dove manca il segno dell'Eterno? La solitudine è la suprema prova dell'umiltà o della sovranità di un'anima; poiché non è data se non a patto della completa rinuncia in Dio o a patto che la possanza dell'anima sia tale da formare il perno incrollabile di un mondo.

L'un d'essi, all'improvviso, sentendo forse che l'acutezza della sua pena incominciava ad eccedere la resistenza dei suoi organi, aveva voluto transformarsi per la morte in un essere più alto ed era balzato nel mistero, d'onde guardava il superstite con occhi immarcescibili. - Ego Demetrius Aurispa et unicus Georgius filius meus...

Il superstite comprendeva ora, in un momento di lucidità, che egli non avrebbe potuto in nessun modo raggiungere il tipo della vita esuberante, l'ideale «dionisiaco» che gli era balenato sotto la grande quercia nell'assaporare il nuovo pane spezzato dalla donna giovine e lieta. Egli comprendeva che le sue facoltà intellettuali e morali, avendo troppe ineguaglianze, non avrebbero mai potuto trovare un equilibrio e un governo. Comprendeva infine che, invece di sforzarsi a riconquistar sé a sé medesimo, egli doveva a sé medesimo rinunziare; e che per questo gli rimanevano due sole vie: - o seguire l'esempio di Demetrio, o darsi al Cielo.

La via seconda lo seduceva. Considerandola, egli astraeva dalle circostanze avverse e dagli ostacoli immediati, per quel suo bisogno infrenabile di construire compiutamente tutte le illusioni e di abitarle per qualche attimo. - Non si sentiva egli avvolgere, in quella terra, dall'ardore della fede più che dalla vampa del sole? Non aveva egli il più puro sangue cristiano nelle vene? L'ideale ascetico non discendeva per i rami della sua stirpe, da quel nobile Demetrio donatore alla misera creatura che si chiamava Gioconda? Quell'ideale non poteva dunque risorgere in lui, ascendere alle supreme altezze, attingere l'apice dell'estasi umana in Dio? Tutto in lui era pronto a magnificar l'evento. Egli possedeva tutte le qualità dell'ascetico: - lo spirito contemplativo, il gusto dei simboli e delle allegorie, la virtù d'astrarre, l'estrema sensibilità alla suggestione visuale e verbale, la tendenza organica alle imagini dominanti e alle allucinazioni. Non mancava se non una cosa, una grande cosa che forse in lui non era morta ma soltanto sopita: - la fede, l'antica fede del donatore, l'antica fede di sua gente, quella che scendeva dalla sua montagna e cantava le laudi lungo la riva del suo mare.

Come risvegliarla? Come risuscitarla? Nessun artificio sarebbe valso. Bisognava ch'egli attendesse la scintilla repentina, la percossa improvvisa. Bisognava forse ch'egli vedesse il lampo e udisse la voce, al pari dei seguaci d'Oreste, in mezzo a un campo, nella svolta d'un sentiero.

Ed egli evocò di nuovo la figura d'Oreste, coperta della tunica rossa, incedente lungo il fiumicello sinuoso ove sotto il tremolìo innumerevole dei pioppi un filo d'acqua correva su un letto di ghiaie polite. Imaginò un incontro, un colloquio con lui. - Era il meriggio, su la costa, in prossimità d'un campo di frumento. Oreste parlava come un uomo semplice ed umile, sorridendo con un candore verginale; e i suoi denti erano puri come il gelsomino. Il romorìo continuo degli scogli, a piè del promontorio, somigliava il suono lontano d'un organo in mezzo al silenzio del mare. Ma, dietro la dolce persona, tra l'oro della mèsse matura, come la più violenta espression del desiderio i papaveri fiammeggiavano... -

«Il desideriopensò Giorgio, richiamato così alla sua donna, alla corporale tristezza del suo amore. «Chi ucciderà il desiderio

Gli vennero alla memoria gli ammonimenti dell'Ecclesiastico. - Non des mulieri potestatem animae tuae... A muliere initium factum est peccati, et per illam omnes morimur... A carnibus tuis abscinde illam... - Vide, nell'alba sacra dei tempi, in un giardino delizioso il primo uomo solitario e triste che attirava la prima compagna; e questa divenire il flagello del mondo, spargere ovunque il dolore e la morte. Ma la voluttà come peccato gli parve più fiera, più agitante. Gli parve intensa come nessun'altra l'ebrezza frenetica degli amplessi a cui si abbandonavano i martiri della Chiesa primitiva, nelle prigioni, aspettando il supplizio. Evocò imagini di donne, folli di terrore e di amore, che offrivano ai baci il viso inondato da un pianto silente.

Aspirando alla fede e alla redenzione, che faceva egli dunque se non aspirare a brividi e fremiti nuovi, a voluttà ignorate? - Infrangere il divieto e impetrare il perdono; commettere la colpa e confessarla piangendo; palesare i più piccoli mali esagerandoli e ingigantire i vizii mediocri nell'accusarsi; rimettere di continuo la propria anima e la propria carne inferme nelle mani del medico misericorde: - non avevano queste cose un fascino tutto sensuale?

Già la sua passione dalle origini portava in sé un profumo pio d'incenso svanito e di violette. Egli ripensò l'Epifanìa dell'Amore nell'Oratorio abbandonato della via Belsiana: - la piccola cappella segreta era immersa in una penombra turchiniccia; un coro di fanciulle inghirlandava la tribuna ch'era simile a un verone ricurvo; sotto, alcuni sonatori di strumenti ad arco stavano in piedi avanti ai leggii d'abete bianco; intorno intorno, su gli stalli di quercia stavano seduti i pochi uditori, quasi tutti canuti o calvi; il maestro batteva il tempo; un pio profumo d'incenso svanito e di violette si mescolava alla musica di Sebastiano Bach...

Egli ripensò anche il sogno orvietano; riebbe la visione della deserta città guelfa: - finestre chiuse; vicoli grigi dove cresceva l'erba; un cappuccino che attraversava una piazza; un vescovo che scendeva da una carrozza fermata d'innanzi a un ospedale, tutta nera, con un servo decrepito allo sportello; una torre in un cielo bianco, piovigginoso; un orologio che sonava le ore lentamente; d'un tratto, in fondo a una via, un miracolo: il Duomo. - Non aveva egli sognato di rifugiarsi in cima a quella roccia di tufo coronata di monasteri? Non aveva egli più d'una volta con sincerità aspirato a quel silenzio, a quella pace? - Gli ripassava ora nell'anima quel sogno suggerito da un languore femineo in un aprile tiepido e cinerino. «Avere un'amante, o piuttosto una sorella amante, che fosse piena di divozione; e andare , restare ... Passare lunghe ore dentro la cattedrale, d'innanzi, d'intorno; andare a cogliere le rose negli orti dei conventi; andare a prendere dalle monache le confetture... Amare e dormire molto, in un letto soffice, tra due inginocchiatoi, tutto velato di bianco, verginale...»

Di nuovo l'invase la nostalgia languida dell'ombra, del silenzio, del rifugio recinto e isolato, dove potevano schiudersi i più gracili fiori e i pensieri più tenui e le sensualità più vaghe. Tutto quel barbaglio di sole su quelle linee troppo nette e forti gli parve quasi impudente. E, come l'imagine della fonte mormorante domina il cervello di chi ha sete, così l'occupava l'imagine dell'ombra fresca e raccolta d'una navata latina.

Fin non giungeva l'invito delle campane; o vi giungeva qualche rara volta sul vento un'onda fievolissima. La chiesa del borgo era troppo discosta, forse volgare, certo senz'alcuna fama di antiche tradizioni o di bellezza. Egli aveva bisogno d'un rifugio prossimo e degno, ove il suo misticismo potesse fiorire esteticamente come in quella profonda urna marmorea che chiude le visioni dantesche di Luca Signorelli.

E si ricordò dell'abbazia di San Clemente a Casauria, veduta in un giorno lontano dell'adolescenza; e si ricordò di averla veduta in compagnia di Demetrio. Come tutti i ricordi legati all'imagine del consanguineo, anche quello era lucido e preciso quasi fosse del giorno innanzi. Bastò ch'egli si raccogliesse per rivivere quell'ora, per risuscitare i fantasmi di tutte le sensazioni. - Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l'abbazia che ancóra gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitarii e grandiosi, su quell'ampia via d'erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d'orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre. Un sentimento di santità primitiva eravi ancor diffuso, quasi che di recente l'erbe e le pietre fossero state premute da una lunga migrazione di greggi patriarcali cercanti l'orizzonte marittimo. In fondo, nel piano, appariva la basilica: quasi una rovina. Tutto il suolo a torno era ingombro di macerie e di sterpi; frammenti di pietra scolpita erano ammucchiati contro i pilastri; da tutte le fenditure pendevano erbe selvagge; costruzioni recenti, di mattone e di calce, chiudevano le ampie aperture delle arcate di fianco; le porte cadevano. E una compagnia di pellegrini meriggiava nell'atrio bestialmente, sotto il nobilissimo portico eretto dal magnifico Leonate. Ma quei tre archi, intatti, sorgevano di su i capitelli diversi con una eleganza così altera e il sole di settembre dava a quella dolce pietra bionda un'apparenza così preziosa che ambedue, egli e Demetrio, sentivano d'essere al conspetto d'una sovrana bellezza. Infatti, come più la loro contemplazione diveniva attenta, l'armonia composta da quelle linee diveniva più chiara e più pura; e a poco a poco da quel non mai veduto accordo audace d'archi a tutto sesto, d'archi acuti e d'archi a ferro di cavallo e da quelle sagome, da quei fregi variissimi degli archivolti, dai rombi, dalle losanghe, dalle palme, dalle rosette ricorrenti, dai fogliami sinuosi, dai mostri simbolici, da tutte le particolarità dell'opera, andavasi rivelando per gli occhi allo spirito l'unica assoluta legge ritmica che le grandi masse e i piccoli ornati concordemente seguivano. E la segreta forza di quel ritmo era tale che riusciva infine a vincere tutte le discordanze circostanti e a dare la visione fantastica della intera opera quale era sorta nel secolo XII, per l'alta volontà dell'abbate Leonate, in un'isola fertile abbracciata e nutrita da un fiume possente. Ambedue portavano quella visione allontanandosi. Era di settembre; e il paese a torno in quella morte dell'estate aveva un aspetto misto di grazia e di severità, quasi una rispondenza occulta con lo spirito del monumento cristiano. Cingevano la valle quieta due corone: la prima di colli tutti a vigne e ad olivi, la seconda di rocce nude e aguzze. Ed era nello spettacolo, secondo il detto di Demetrio, qualche cosa di simile al sentimento oscuro che anima quella tela di Leonardo, ove sopra un fondo di rupi desolate ride una donna affascinante. Ed anche, a rendere più acuta l'ambiguità che li turbava entrambi, sorgeva da una vigna remota un canto, preludio della vendemmia precoce; e dietro di loro rispondeva la litania dei pellegrini che riprendevano il viaggio. E le due cadenze, la sacra e la profana, si confondevano... -

Affascinato dal ricordo, il superstite non ebbe se non un desiderio chimerico: - tornare giù, rivedere la basilica, occuparla per salvarla dalla ruina, restituirla nella bellezza primitiva, ristabilirvi il gran culto, dopo un così lungo intervallo di abbandono e di oblìo rinnovellare il Chronicon casauriense. Non era quello, veramente, il più glorioso tempio nella terra d'Abruzzi, edificato in un'isola del fiume padre, antichissima sede di potenza temporale e spirituale, centro d'una vasta e fiera vita per molti secoli? L'anima clementina vi permaneva ancóra, profonda; e in quel lontano pomeriggio estivo erasi rivelata a lui e a Demetrio per mezzo del divino pensiero ritmico espresso da tutte le linee concordemente.

Egli disse a Ippolita:

- Forse muteremo luogo. Ti ricordi tu del sogno d'Orvieto?

- Ah, la città dei conventi, - esclamò ella, - dove tu non volesti condurmi!

- Voglio condurti a un'abbazia abbandonata, più solitaria del nostro eremo, bella come una cattedrale, piena di memorie antichissime: dov'è un gran candelabro di marmo bianco, un fiore d'arte meraviglioso, creato da un artefice senza nome... Diritta su quel candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima.

Egli sorrise di quella frase lirica, pur considerando dentro di sé la bella imagine che ne sorgeva. Ed ella, nell'ingenuità del suo egoismo, in quella tenace animalità interiore che forma il fondo dell'essere feminino, di nulla s'inebriava come di quella poesia momentanea. Ella era felice quando poteva apparire agli occhi dell'amante idealizzata come nella prima sera su la via azzurra, o come nell'Oratorio segreto fra la musica religiosa e i profumi svaniti, o come sul selvaggio sentiero giuncato di ginestre.

Chiese, con la sua voce più pura:

- Quando?

- Se fosse domani?

- Sia domani.

- Bada: se tu salirai, non potrai più scendere.

- Che importa? Io ti guarderò.

- Tu arderai e ti consumerai come un cero.

- T'illuminerò.

- Tu illuminerai anche il mio funerale...

Egli proferiva con accento leggero queste frasi, ma dentro di sé componeva con la consueta intensità di vita fittiva la sua favola mistica. - Dopo lunghi anni di errore, trascorsi su gli abissi della lussuria, era venuto in lui il pentimento. Avendo conosciuto nel corpo della sua donna tutti i misteri che esaltava la sua concupiscenza, egli ora implorava dal Misericordioso la grazia alla insostenibile tristezza di quel corporale amore. «Misericordia di quel che ho goduto e di quel che soffro! Fate, mio Dio, che io possa compiere il Sacrificio nel vostro nomeFuggiva seguìto dalla sua donna, cercando il rifugio. E avveniva alfine su la soglia del rifugio il miracolo; poiché l'impura, la corruttrice, la implacabile Nemica, la Rosa dell'Inferno, si spogliava all'improvviso d'ogni peccato e si faceva tutta monda per seguire il compagno fino all'altare. Divenuta luminosa, ella illuminava la tenebra sacra. In cima all'alto candelabro di marmo, rimasto per secoli muto d'ogni lume, ella ardeva nella fiamma inestinguibile e silente del suo amore. «Diritta sul candelabro, in silenzio, tu illuminerai col tuo volto le meditazioni della mia anima sino alla morte.» Ella ardeva in sé stessa, non chiedendo mai alcun alimento alla sua fiamma, nulla mai chiedendo in cambio al Diletto. Amabat amare. Rinunziava per sempre ad ogni possesso; più alta anche di Dio nella sua purità sovrana, poiché Dio ama la creatura ma vuole in compenso essere amato e diventa terribile contro chi ricusa di riamarlo. Il suo era l'amore stilite - sublime e solitario - che si nutriva di un solo sangue e di un'anima sola. Ella aveva sentito cadere intorno a sé quella parte della sua sostanza che si opponeva alla totale offerta. Nessuna cosa torbida e impura era rimasta in lei. Il suo corpo s'era trasformato in un elemento sottile, agile, chiaro e incorruttibile; i suoi sensi s'eran confusi in una suprema ed unica voluttà. Assunta in sommo dello stelo meraviglioso, ella ardeva e gioiva del suo ardore e del suo splendore, simile a una fiamma che fosse consapevole della sua propria fiammea vita... -

Ippolita disse, sostando, ascoltando:

- Non odi? Ancóra una compagnia! Domani è la Vigilia.

Ancóra le albe, i meriggi, i vespri e le notti risonavano di canti religiosi. Una turba seguiva l'altra, sotto il sole, sotto la luna. Tutte migravano a una stessa mèta e celebravano uno stesso nome, trascinate dalla veemenza d'una stessa passione, terribili e miserabili all'aspetto, lasciando sul cammino gli infermi e i moribondi, senza arrestarsi, pronte ad abbattere qualunque ostacolo per giungere dove era il balsamo a tutti i loro mali, la promessa a tutte le loro speranze. Andavano, andavano, senza riposo, bagnando dei loro sudori le loro proprie orme nella polvere infinita. Andavano, andavano.

Che immensa forza doveva irraggiare una semplice Imagine per muovere e attrarre tutte quelle masse di carne greve! Circa quattro secoli innanzi, un vecchio settuagenario in una pianura devastata dalla grandine aveva creduto scorgere in cima a un albero la Vergine di Misericordia; e da quel giorno, ogni anno, nell'anniversario dell'apparizione, tutte le genti della montagna e del litorale peregrinavano verso il luogo santo a chieder grazia del loro soffrire.

Ippolita conosceva già la leggenda, per la bocca di Candia; e da alcuni giorni nutriva un desiderio pio di visitare il Santuario. Il predominio dell'amore e l'abitudine del piacere sensuale avevano in lei sopraffatto lo spirito religioso; ma ella, romana di razza, anzi nata in Trastevere, cresciuta in una famiglia di quella borghesia dove per tradizione immemorabile un prete ha sempre nelle mani la chiave delle coscienze, ella era cattolicissima, inclinata a tutte le pratiche esterne della Chiesa, soggetta a ricorsi periodici di alto fervore.

- Perché non andiamo anche noi, intanto, a Casalbordino? - ella disse. - Domani è la Vigilia. Vuoi che andiamo? Sarà per te un grande spettacolo. Porteremo con noi il vecchio.

Giorgio assentì. Il desiderio d'Ippolita rispondeva al suo. Era necessario, nel suo pensiero, ch'egli seguisse quella profonda corrente, ch'egli facesse parte di quella selvaggia agglomerazione umana, ch'egli esperimentasse l'aderenza materiale con lo stato infimo della sua razza, con quello strato denso e permanente in cui le impronte primitive duravano forse intatte.

- Domattina partiremo - egli soggiunse, sollecitato da una specie di ansietà, mentre udiva avvicinarsi il canto.

Ippolita riferì, secondo la narrazione di Candia, qualcuna delle prove atroci che i pellegrini usavano compiere per vóto. Ella rabbrividiva d'orrore. Ed entrambi, mentre il canto si faceva più forte, sentirono passare sul loro spirito un soffio tragico.

Erano su la collina, di notte. La luna saliva per l'arco del cielo. Una fresca umidità si dilatava nelle vaste masse vegetali ancor vibranti dell'acquazzone pomeridiano. Tutte le fronde lacrimavano, e quelle miriadi di lacrime adamantine riscintillavano al chiarore lunare transfigurando la selva. Come Giorgio urtò per caso un fusto, le gocce luminose caddero dai rami scossi su la persona d'Ippolita e la constellarono. Ella diè un piccolo grido; poi rise.

- Ah perfido! - mormorò ella imaginando che Giorgio avesse voluto sorprenderla con quell'aspersione improvvisa; e si accinse alla rappresaglia.

Alberi ed arbusti agli urti si spogliavano delle loro gemme liquide con un crepitìo vivace, mentre le risa della donna squillavano a intervalli giù pel declivio. Giorgio anche rideva rispondendo, subitamente immemore dei suoi fantasmi, lasciandosi conquistare da quella seduzione giovenile, lasciandosi penetrare da quella vivificante freschezza notturna in cui si scioglievano tutte le fragranze terrestri. Egli cercava di giunger primo all'albero che appariva con la chioma più carica, ed ella gli contendeva il passo con ardire correndo sicura sul pendìo sdrucciolevole. Giungevano per lo più insieme presso il tronco designato e lo scotevano insieme rimanendo sotto la pioggia. Nell'ombra mobile del fogliame, sul volto d'Ippolita il bianco degli occhi e il bianco dei denti rendevano uno splendore straordinario; e le minutissime stille, come un pulviscolo di diamante, rilucevano su i capelli lievi delle tempie, su le gote, su le labbra, perfino nei cigli, tremule nel tremolìo del riso.

- Ah maga! - esclamò Giorgio lasciando il tronco e afferrando la donna che ancóra una volta gli appariva in un misterioso baleno di bellezza notturna.

E si mise a per tutta la faccia, sentendola sotto le labbra sue fresca e rorida come un frutto allora allora spiccato dal ramo.

- Tieni! Tieni! Tieni!

Egli stampava forte ogni bacio su la bocca, su le gote, su gli occhi, su le tempie, sul collo, insaziabile, come se quella carne fosse per lui nuova. Ed ella sotto i baci aveva l'attitudine quasi estatica che soleva prendere quando sentiva che l'amante era in un minuto di vera ebrezza. Ella, in quei minuti, pareva come intesa a sprigionare dalla profondità della sua sostanza il più dolce e il più possente profumo d'amore per esaltare quell'ebrezza fino all'angoscia.

- Tieni!

Ed egli s'arrestò, invaso dall'angoscia, essendo giunto al limite estremo della sensazione e non potendo trascenderlo.

Non parlarono più; si presero per mano; seguitarono verso l'Eremo valicando i campi aperti, poiché avevano smarrita la viottola nella corsa obliosa. Il turbamento del gaudio inaspettato li rendeva gravi. Provavano ora una stanchezza e una malinconia indefinibile. Giorgio era come trasognato e attonito. - Così, dunque, la Vita all'improvviso, quasi con un gesto furtivo nell'ombra, gli aveva offerto un sapore nuovo: una sensazione nuova, reale e profonda, al termine di un giorno inquieto, vissuto in un chiostro di fantasmi fluttuanti! - Ma era la Vita? O non era forse il Sogno? «L'uno, sempre, è l'ombra dell'altra» egli pensò. «Dov'è la Vita è il Sogno; dov'è il Sogno è la Vita

- Guarda! - interruppe Ippolita, trasalendo di meraviglia.

E parve ch'ella illustrasse con uno spettacolo il pensiero di lui non rivelato.

Una vigna si levava nel chiarore lunare, tacita. Le viti alzate si attorcigliavano alle canne come ad agili tirsi; e i pampini stillanti, diafani contro la luce con tutti gli intrichi delle loro nervature sottili, perfettamente immobili come le cose minerali, in un'apparenza vitrea, ialina, indescrivibilmente fragile e labile, non avevano realtà terrestrecomunione alcuna con le circostanti forme, ma sembravano l'ultimo frammento visibile d'un mondo allegorico ideato da un teurgo, presso a scomparire.

Spontaneo sorse nella memoria di Giorgio il versetto del Cantico: «Vinea mea coram me est

 

 

 

V

 

Fin dall'alba, nella stazione di Casalbordino, i treni versavano a brevi intervalli immense onde di popolo. Erano genti venute dalle piccole città e dai borghi, miste alle compagnie dei contadi più remoti, che non avevano potuto o voluto compiere il pellegrinaggio pedestre. Si precipitavano con violenza dalle vetture; si accalcavano alla porta, contro i cancelli; urlavano e gesticolavano, respingendosi a vicenda, per salire su i carri e su le carrozze, tra gli schiocchi delle fruste, tra il tintinnìo dei sonagli; - o si disponevano in lunghe file dietro un crocifero e procedendo su per la strada polverosa intonavano l'inno.

Già sgomentati dal disagio, aspettando che la folla si diradasse, Giorgio e Ippolita istintivamente si volsero verso il mare prossimo. Un campo di canape ondeggiava in pace, contro il fondo ceruleo dell'acque. Le vele splendevano come fiamme su l'orizzonte puro.

Giorgio disse alla compagna:

- Hai coraggio? Temo che sia troppa fatica per te.

Ella disse:

- Non temere. Sono forte. E poi, bisogna soffrire un poco per meritare la grazia...

Ed egli sorridendo:

- Tu ne chiederai una?

- Una sola.

- Ma non siamo noi in peccato mortale?

- È vero!

- E allora?

- La chiederò.

Avevano condotto il vecchio Cola perché, pratico dei luoghi e degli usi, facesse da guida. Quando la porta rimase libera, uscirono; e si misero in una carrozza che partì di galoppo con un gran tintinnìo di sonagli. I cavalli erano ornati e impennacchiati come barberi. I vetturali portavano penne di paone al cappello e agitavano di continuo la frusta accompagnando di gridi rauchi gli schiocchi strepitosi.

- Quanto di strada, prima d'arrivare? - domandò al vecchio Ippolita che tormentavano un'impazienza e un'inquietudine straordinarie come se per lei in quel giorno un qualche grande avvenimento dovesse compiersi.

- Mezz'ora, scarsa - rispose il monocolo.

- La chiesa è antica?

- No, signora. Io mi ricordo quando non c'era. Cinquant'anni fa, c'era soltanto una cappelletta.

Egli tirò fuori un foglio piegato in forma d'un breve, lo spiegò e lo mostrò a Giorgio.

- Leggi. Qui c'è la storia.

Era l'Imagine seguìta dalla leggenda. La Vergine in un coro d'angeli posava sopra un olivo e un vecchio l'adorava prostrato a piè del tronco. Quel vecchio aveva nome Alessandro Muzio. Di lui narrava la leggenda: - Sul vespro del 10 di giugno, nell'anno di Nostro Signore 1527, essendo la domenica di Pentecoste, un uragano infuriò su la terra di Casalbordino e distrusse le vigne, le biade e gli oliveti. La mattina seguente, un vecchio settuagenario di Pollutri, Alessandro Muzio, possedendo al Piano del Lago un campo di grano, si mosse per andare a vederlo. Gli doleva il cuore, alla vista della terra desolata; ma nella sua profonda umiltà lodava la giustizia di Dio. Divotissimo della Vergine, recitava in cammino il Rosario; quando, sul limite della valle, udì la campana che segnava l'elevazione della Messa. Sùbito s'inginocchiò e raccolse tutto il suo fervore nella preghiera. Ma, mentre pregava, si vide circonfuso d'una luce che vinceva quella del sole; e in quella luce gli apparve la Madre di Misericordia, ammantata d'azzurro, e gli parlò con dolcezza. «Va e reca la novella. Di' che il pentimento sarà rimunerato. Sorga qui un tempio e io vi spanderò le mie grazie. Va al tuo campo e troverai il tuo grano intattoDisparve, con la sua corona d'angeli. E il vecchio si levò, andò al suo campo, trovò il suo grano intatto. Corse quindi a Pollutri, si presentò al parroco Mariano d'Iddone, gli narrò il prodigio. In un attimo la novella si propagò per tutta la terra di Casalbordino. Tutto il popolo trasse al luogo santo, vide il suolo asciutto intorno all'albero, vide il grano ondeggiare prosperoso, riconobbe il miracolo; e versò lacrime di penitenza e di tenerezza.

Poco dopo, il Vicario di Arabona pose la prima pietra della cappella; e furono procuratori per la fabbrica Geronimo di Geronimo e Giovanni Fatalone casalesi. Su l'altare fu dipinta la Vergine col vecchio Alessandro prostrato in atto d'adorarla. -

La leggenda era semplice, comune, simile a molte altre, fondata sul miracolo. Dopo quel primo benefizio, nel nome di quella Maria, le navi si salvavano dalla tempesta, i campi dalla grandine, i viandanti dai ladroni, gli infermi dalla morte. Posta in mezzo a un popolo travagliato, l'Imagine era una fonte di salute perenne.

- Questa è la Madonna che fa più grazie nel mondo - disse Cola di Sciampagna, baciando il foglio sacro prima di riporselo nel petto. - Dicono che n'è uscita un'altra, ora, nel Regno. Ma questa vince. Non temere! La nostra va sempre innanzi a tutte...

Era palese nella sua voce e nella sua attitudine quel fanatismo di parte, che accende il sangue di tutti gli idolatri e che talvolta in terra d'Abruzzi muove le popolazioni a guerre feroci per la supremazia di un idolo. Il vecchio, come tutti i suoi fratelli di fede, non concepiva l'Essere divino fuori del simulacro ma vedeva e adorava nel simulacro la presenza reale della persona celeste. L'Imagine su l'altare viveva come una creatura di carne e d'ossa: respirava, sorrideva, batteva le palpebre, reclinava la fronte, accennava con la mano. Così, dovunque, tutte le statue sacre, di legno, di cera, di bronzo, d'argento, vivevano d'una vita sensibile nella loro materia preziosa o vile. Se invecchiavano, se si spezzavano, se si disfacevano pel gran tempo, non cedevano il posto alle statue nuove senza dar segni fierissimi della loro collera. Una volta il frammento di un busto, divenuto irriconoscibile e confuso tra la legna da ardere, aveva sprizzato sangue vivo sotto la scure e parlato parole di minaccia. Un altro frammento, piallato e commesso tra le doghe di un tino, aveva manifestata la sua essenza soprannaturale producendo nell'acqua il fantasma della sua figura primitiva integra...

- Ohè, Aligi! - gridò il monocolo verso un pedone che camminava a fatica sul ciglio della strada in mezzo alla polvere soffocante. - Ohè!

Volgendosi ai suoi ospiti, soggiunse impietosito:

- È un buon cristiano, della nostra contrada. Va a portare un vóto. È convalescente. Vedi come si scalma, signora! Lascialo salire in serpe!

- Sì, sì. Ferma! Ferma! - esclamò Ippolita, commossa.

La carrozza si fermò.

- Aligi, corri! I signori ti fanno la carità. Puoi salire.

Il buon cristiano si avvicinò. Ansava, curvo su la sua mazza crociata, coperto di polvere, grondante di sudore, inebetito dal sole. Una collana di barba rossiccia, dalle orecchie girando sotto il mento, gli circondava la faccia sparsa di lentiggini; cernecchi rossicci gli escivano di sotto al cappello appiastricciati su la fronte e su le tempie; gli occhi cavi, convergenti verso la radice del naso, trascoloriti, ricordavano quelli dei convulsionarii. Egli disse, ansando, con la voce rauca:

- Grazie. Dio vi rimeriti! La Madonna v'accompagni! Ma non posso salire.

Egli reggeva con la mano sinistra una cosa avvolta in una pezzuola bianca.

- Porti il vóto? - gli domandò il monocolo. - Fa vedere.

Colui discostò i lembi della pezzuola e mostrò una gamba di cera, pallida come una gamba cadaverica, su cui era dipinta una piaga violacea. Il calore l'aveva ammollita e resa lucida, quasi sudaticcia.

- Non vedi che ti si strugge?

E il vecchio stese la mano per palparla.

- È molle. Se tu séguiti a piedi, ti cade per via.

Aligi ripeté:

- Non posso salire. Ho fatto il vóto.

Ed inquieto esaminò l'appiccàgnolo sollevando la gamba di cera all'altezza degli occhi obliqui.

Su quella strada di fuoco, tra quella polvere, sotto quella gran luce cruda, nulla era più triste di quell'uomo sfinito e di quella cosa pallida, ributtante come un membro amputato, che doveva perpetuare la memoria d'una piaga su pareti già coperte dai simulacri silenti e immobili di tante infermità diffuse per secoli nella povera carne umana.

- Avanti!

E i cavalli ripresero la corsa.

Ora, lasciate indietro le piccole colline, la strada passava per mezzo a una pianura opulenta di mèssi quasi mature. Cola raccontava, con la sua loquacità senile, gli episodii della malattia d'Aligi: diceva della piaga cancrenosa medicata dal dito della Vergine. Di qua, di dalla strada le dolci spighe superavano le siepi dando imagine d'una bella tazza traboccante.

- Ecco il Santuario! - esclamò Ippolita indicando un edificio di mattone rossastro che sorgeva nel centro di una vasta prateria ingombra.

E, dopo qualche minuto, la carrozza toccava la folla.

 

 

 

VI

 

Era uno spettacolo meraviglioso e terribile, inopinato, dissimile ad ogni aggregazione già veduta di cose e di genti, composto di mescolanze così strane aspre e diverse che superava i più torbidi sogni prodotti dall'incubo. Tutte le brutture dell'ilota eterno, tutti i vizii turpi, tutti gli stupori; tutti gli spasimi e le deformazioni della carne battezzata, tutte le lacrime del pentimento, tutte le risa della crapula; la follia, la cupidigia, l'astuzia, la lussuria, la frode, l'ebetudine, la paura, la stanchezza mortale, l'indifferenza impietrita, la disperazione taciturna; i cori sacri, gli ululi degli ossessi, i berci dei funamboli, i rintocchi delle campane, gli squilli delle trombe, i ragli, i muggiti, i nitriti; i fuochi crepitanti sotto le caldaie, i cumuli dei frutti e dei dolciumi, le mostre degli utensili, dei tessuti, delle armi, dei gioielli, dei rosarii; le danze oscene delle saltatrici, le convulsioni degli epilettici, le percosse dei rissanti, le fughe dei ladri inseguiti a traverso la calca; la suprema schiuma delle corruttele portata fuori dai vicoli immondi delle città remote e rovesciata su una moltitudine ignara e attonita; come tafani sul bestiame, nuvoli di parassiti implacabili su una massa compatta incapace di difendersi; tutte le basse tentazioni agli appetiti brutali, tutti gli inganni alla semplicità e alla stupidezza, tutte le ciurmerie e le impudicizie professate in pieno meriggio; tutte le mescolanze erano , ribollivano, fermentavano, intorno alla Casa della Vergine.

La Casa era massiccia, di architettura volgare, disadorna, fabbricata a mattone, senza intonaco, rossastra. Contro le mura esterne, contro i piloni del portico, i mercanti di oggetti sacri avevano inalzato le loro tende, collocato i loro banchi; e mercanteggiavano. Sorgevano da presso le baracche dei girovaghi, coniche, parate di larghi quadri raffiguranti battaglie sanguinose e pasti di cannibali. Uomini biechi, d'aspetto ignobile e ambiguo, strombettavano e vociavano su l'ingresso. Femmine impudenti, dalle gambe enormi, dal ventre gonfio, dal seno floscio, mal coperte di maglie sporche e di stracci luccicanti, celebravano in un gergo sguaiato le meraviglie che celava dietro di loro la cortina rossa. Una di queste bagasce disfatte, che pareva un essere generato da un uomo nano e da una scrofa, imboccava con la sua bocca viscida una scimmia lasciva, mentre a fianco un pagliaccio impiastricciato di farina e di carminio agitava con furia frenetica una campanella assordante.

Le compagnie giungevano, precedute dai crociferi, cantando l'inno, in lunghe file. Le donne si tenevano a vicenda per un lembo della veste e camminavano estatiche, inebetite, con gli occhi sbarrati e fissi. Quelle del Trigno portavano una veste di panno tinto in grana, a mille pieghe, fermata a mezzo della schiena quasi sotto le ascelle, attraversata ai fianchi da una cintura multicolore che rialzandola e serrandola formava un rilievo simile a una gobba. E, come camminavano stracche, curve, con le gambe aperte, strascicando le scarpe plumbee, davano imagine di strani animali gibbosi. Talune erano gozzute; e le collane d'oro luccicavano sotto i gozzi adusti.

 

Viva Maria!

 

Emergevano dalla folla le sonnambule poste a sedere su piccoli palchi eminenti, le une di fronte alle altre, in contrasto. Bendate, del viso non mostravano se non la bocca loquace, in continua salivazione, infaticabile. Parlavano con una cantilena sempre eguale, alzando ed abbassando la voce, segnando la cadenza con una scossa del capo. A tratti, con un leggero sibilo, ritiravano in dentro la saliva soverchia. Una gridava, mostrando una carta da giuoco untuosa: «Ecco l'àncora della buona speranza!» Un'altra, dalla bocca smisurata dove appariva e spariva tra i denti guasti la lingua coperta d'una patina giallastra, stava tutta china verso gli ascoltanti, tenendo su le ginocchia le grosse mani dalle vene gonfie e nel cavo del grembo un mucchio di monete di rame. Gli ascoltanti intorno, attentissimi, non perdevano una parola; non battevano palpebra, non facevano un gesto. Solo, di tratto in tratto, inumidivano con la lingua le labbra disseccate.

 

Viva Maria!

 

Nuove torme di pellegrini giungevano, passavano, scomparivano. Qua e , all'ombra delle baracche, sotto i larghi ombrelli azzurri, o in pieno sole, le vecchie, sfinite dalla fatica, dormivano prone, con la faccia tra le due mani, nell'erba arsiccia. Altre, sedute in giro, con le gambe allargate sul terreno, masticavano carrube e pane faticosamente, in silenzio, senza sguardo, estranee all'agitazione che le circondava; e si vedevano i bocconi troppo grossi passare con sforzo nelle loro gole giallognole e rugose come le membrane delle testuggini.

Talune erano piene di piaghe, o di croste, o di cicatrici, senza denti, senza cigli, senza capelli; non dormivano, non mangiavano; stavano immobili, rassegnate, quasi aspettassero la morte; e su le loro carcasse turbinava, denso e fervido come su le carogne nei fossi, un nuvolo di mosche.

Ma nelle béttole, sotto le tende infocate dal sole meridiano, intorno alle travi infisse nel terreno e ornate di frasche, si esercitava la voracità di coloro che avevano penosamente ammassato i piccoli risparmi fino a quel giorno per sciogliere il vóto sacro e per appagare un desiderio di crapula, enorme, covato a lungo tra gli scarsi pasti e le dure fatiche. Si scorgevano le loro facce curve su la scodella, i moti delle loro mandibole stritolanti, i gesti delle loro mani dilanianti, tutte le loro attitudini di bruti alle prese con un cibo inconsueto. Fumigavano i larghi tegami pieni di polpi violacei, dentro buche circolari trasformate in fornelli, e il vapore si spandeva intorno attirando. Una fanciulla, smilza e verdognola come una locusta, offriva lunghe filze di cacio in forma di piccoli cavalli o di uccelli o di fiori. Un uomo che aveva una faccia liscia e untuosa di femmina, con le campanelle d'oro agli orecchi, con le mani e le braccia colorite d'anilina come quelle dei tintori, offriva sorbetti che parevano veleni.

 

Viva Maria!

 

Nuove torme giungevano, passavano. La moltitudine rigurgitava intorno al portico, non potendo penetrare nella chiesa già occupata e colma. Giocolari, bari, barattieri, biscazzieri, truffatori, ciurmatori d'ogni specie, la richiamavano, la distoglievano, la seducevano. Tutti questi fratelli di rapina fiutavano da lontano le prede, piombavano diritti e fulminei, non mancavano mai il colpo. Allettavano il gonzo in mille modi, dandogli la speranza d'un guadagno pronto e sicuro; lo eccitavano al rischio con infinite simulazioni; esasperavano in lui la cupidigia sino alla febbre. Poi, quando egli aveva perduto ogni ritegno e ogni lume, lo spogliavano interamente, senza pietà, con il dòlo più facile e più rapido; lo lasciavano stupefatto e misero, sghignazzandogli sotto il naso e dileguandosi. Ma l'esempio non salvava gli altri dal cadere nell'insidia. Ciascuno, stimandosi più avveduto e più esperto, si proponeva di vendicare il compagno beffato; e si gittava con veemenza nella ruina. Gli innumerabili stenti senza tregua patiti per giungere a convertire in denaro i risparmii di un anno raffilati, centesimo per centesimo, su i bisogni vivi - gli indicibili stenti che rendono l'avarizia dell'agricoltore sordida e cruda come quella dell'accattone - tutti palesava il tremito della mano callosa nel prendere la moneta riposta e nell'esporla al rischio.

 

Viva Maria!

 

Nuove torme giungevano, passavano. Una corrente sempre nuova persisteva in mezzo alla folla confusa e fluttuante; una cadenza sempre eguale dominava tutti i clamori misti. A poco a poco l'orecchio non percepiva se non il chiaro nome di Maria sul fondo cupo degli strepiti diversi. L'inno vinceva lo schiamazzo. L'onda continua e gagliarda batteva le mura del Santuario incendiate dal sole.

 

Viva Maria!

Maria evviva!

 

Ancóra per qualche minuto Giorgio e Ippolita, smarriti, affranti, guardarono la tremenda folla da cui emanava un lezzo nauseabondo, da cui qua e emergevano i volti imbellettati delle mime, i volti bendati delle sibille. Il disgusto li prendeva alla gola, li eccitava a fuggire; e pure l'attrazione dello spettacolo umano era più forte, li tratteneva nelle strettoie della calca, li portava dove la miseria appariva peggiore, dove si rivelavano con peggiori eccessi la crudeltà, l'ignoranza, la frode, dove le grida irrompevano, dove le lacrime scorrevano.

- Avviciniamoci alla chiesa - disse Ippolita, che pareva fuori di sé, investita dalla fiamma di demenza che esalavano le turbe fanatiche passando con una furia più folle come più tristo feriva i cranii quel sole.

- Hai ancóra forza? - le domandò Giorgio prendendole le mani. - Vuoi che andiamo via di qui? Troveremo un luogo dove riposarci. Temo che tu ti senta male. Vuoi che andiamo via?

- No, no. Sono forte, posso resistere. Avviciniamoci alla chiesa; entriamo nella chiesa. Non vedi? Tutti vanno . Senti come gridano!

Visibilmente ella soffriva; aveva la bocca convulsa, i muscoli del viso contratti; e tormentava con le dita il braccio di Giorgio. Ma non distoglieva lo sguardo dalla porta del Santuario, che pareva velata da un fumo azzurrognolo a traverso il quale, oraora no, brillavano le fiammelle dei cèrei.

- Senti come gridano!

Ella titubava. Le grida sembravano venire da una strage: da uomini e donne che si sgozzassero a vicenda e si dibattessero nel sangue gorgogliante.

Cola disse:

- Chiedono la grazia.

Egli non s'era mai distaccato dai suoi ospiti; s'era affaticato di continuo ad aprir la via tra la calca, a fare un po' di largo intorno a loro.

- Volete andare? - domandò.

Ippolita si risolse.

- Andiamo, andiamo.

Il vecchio li precedeva, lavorando di gomiti, verso il portico. Ippolita quasi non toccava terra, quasi trasportata su le braccia da Giorgio che raccoglieva tutte le sue forze per regger lei e sé medesimo. Una mendicante li seguiva da presso, li premeva, chiedendo l'elemosina con una voce lamentevole, tendendo la mano e avanzandola talvolta sino a toccarli. Ed essi vedevano soltanto quella mano senile, deformata da grossi nodi alle nocca, tra giallognola e turchiniccia, con le unghie lunghe e violette, con la pelle tra dito e dito escoriata; che somigliava alla mano d'una scimmia inferma e decrepita.

Giunsero finalmente al portico; s'addossarono a uno dei pilastri, presso il banco d'un mercante di rosarii.

Le compagnie giravano intorno alla chiesa, aspettando il loro turno per entrare; giravano, giravano senza posa, a capo scoperto, dietro i crociferi, senza mai interrompere il canto. Uomini e donne portavano un bastone crociato o fiorito su cui s'appoggiavano con tutto il peso della loro stanchezza. Le loro fronti grondavano; rivoli di sudore correvano per le loro gote, inzuppavano le loro vesti. Gli uomini avevano la camicia aperta sul petto, il collo nudo, le braccia nude e su le mani, su i polsi, sul riverso delle braccia, sul petto la cute era tempestata di figure incise, colorite con l'indaco, in memoria dei santuarii visitati, delle grazie ricevute, dei vóti sciolti. Tutte le deformazioni dei muscoli e delle ossa, tutte le diversità della bruttezza corporea, tutte le indelebili impronte lasciate dalle fatiche, dalle intemperie, dai morbi: - i cranii acuminati o depressi, calvi o lanuti, coperti di cicatrici o di escrescenze; gli occhi bianchicci e opachi come bolle di siero, gli occhi tristamente glauchi come quelli dei grossi rospi solitarii; i nasi camusi, come schiacciati da un pugno, o adunchi come il becco dell'avvoltoio, o lunghi e carnosi come una proboscide, o quasi distrutti da una corrosione; le gote venate di sanguigno come le foglie della vite in autunno, o giallicce e grinze come il centopelle di un ruminante, o ispide di peli rossastri come la saggina; le bocche sottili come tagli di rasoio, o aperte e flaccide come fichi sfatti, o rapprese nella loro vacuità come foglie bruciacchiate, o munite di denti formidabili come le zanne dei cinghiali; i labbri leporini, i gozzi, le scrofole, le risipole, le pustole: - tutti gli orrori della carne umana passavano nella luce del sole, davanti alla Casa della Vergine.

 

Viva Maria!

 

Ogni torma aveva il suo crocifero e il suo duce. Il duce era un uomo membruto e violento che eccitava di continuo i fedeli con urli e con gesti da forsennato, percotendo nella schiena i tardi, trascinando i vecchi sfiniti, ingiuriando le donne che interrompevano l'inno per trarre un respiro. Un gigante olivastro, a cui fiammeggiavano gli occhi sotto un gran ciuffo nero, trascinava tre donne per tre corde di tre capestri. Un'altra donna veniva innanzi ignuda dentro un sacco da cui escivan fuori soltanto il capo e le braccia. Un'altra, lunga e scarna, dal volto livido, dagli occhi bianchicci, veniva innanzi trasognata, senza cantare, senza mai volgersi, lasciando scorgere sul suo petto una fascia rossa che pareva la benda cruenta d'una ferita mortale; e di tratto in tratto vacillava come se non potesse più reggersi in piedi e dovesse alfine cader di schianto e non rialzarsi più. Un'altra, grifagna, iraconda, simile a una Furia rustica, con il manto sanguigno avvolto intorno ai fianchi ossuti, con sul busto un ricamo lucente come una spina di pesce, brandiva un crocifisso nero guidando e incitando il suo manipolo. Un'altra portava su la testa una culla coperta da un panno cupo, come Liberata nella notte funebre.

 

Viva Maria!

 

Giravano, giravano senza posa, accelerando il passo, elevando la voce, eccitandosi sempre più agli urli e ai gesti degli energùmeni. Le vergini, con gli scarsi capelli sciolti e impregnati d'olio d'oliva, quasi calve sul cocuzzolo, stupide e pecorine nel volto e nelle attitudini, procedevano in fila, ciascuna tenendo una mano su la spalla della compagna, guardando a terra, compunte, - creature miserevoli, le cui matrici dovevano senza voluttà perpetuare in carne battezzata gli istinti e la tristezza della bestia originaria. Dentro una specie di bara profonda, portata a braccia da quattro uomini, giaceva un paralitico affogato dalla pinguedine, con le mani penzoloni contorte e nocchiolute per la mostruosità della chiragra come radici. Un continuo tremore glie le agitava; un sudore abondante gli stillava dalla fronte e dal cranio calvo, rigandogli la larga faccia ch'era d'un color roseo disfatto, sottilissimamente venato di vermiglio come la milza dei buoi. Ed egli portava appesi al collo molti brevi, spiegato sul ventre il foglio dell'Imagine. Ansava e si lamentava come in un'agonia tormentosa, già semispento; tramandava un insoffribile odore, quasi di dissoluzione; esalava da tutti i pori l'atroce pena che gli davano quegli ultimi guizzi della vita; ma pure non voleva morire: si faceva trasportare in una bara ai piedi della Madre per non morire. A breve distanza da lui, altri uomini di forza, usi a reggere nelle sagre le statue massicce o gli altissimi stendardi, trascinavano per le braccia un ossesso; che si dibatteva sotto le loro tenaglie ruggendo, lacero nelle vesti, con la bava alla bocca, con gli occhi fuori dell'orbite, con il collo gonfio di arterie, con i capelli sconvolti, violaceo come uno strangolato. Passò anche Aligi, l'uomo della grazia, divenuto più pallido della sua gamba di cera. E di nuovo tutti gli altri passarono, nel continuo giro: passarono le tre donne dal capestro; passò la Furia dal crocifisso nero; e la taciturna dalla zona sanguigna; e quella con la culla sul capo; e quella vestita d'un sacco, chiusa nella sua mortificazione, rigata il volto di silenziose lacrime che le sgorgavano di sotto alle palpebre chine, figura di un evo remoto, isolata nella folla, come circondata da un'aura dell'antica severità penitenziale, suscitando nello spirito di Giorgio ancóra la visione della grande e pura basilica clementina ove la rude cripta primitiva ricordava i cristiani del IX secolo, i tempi di Ludovico

 

 

 

VII.

 

Viva Maria!

 

Giravano, giravano senza mai soffermarsi, accelerando il passo, elevando la voce, resi dementi dal sole che li feriva in fronte o all'occipite, eccitati dagli urli degli energùmeni e dai clamori interni che udivano passando innanzi alla porta, invasi da una frenesia feroce che li spingeva ai sacrifici sanguinosi, agli strazii della carne, alle prove più inumane. Giravano, giravano, impazienti di entrare, impazienti di prosternarsi su la pietra sacra, di colmare col pianto il solco lasciato ivi da mille e mille ginocchia. Giravano, giravano, aumentando di numero, accalcandosi, incalzandosi, con tal furia concorde che non più parevano un adunamento di singoli uomini ma la coerente massa d'una qualche cieca materia sospinta da una forza vorticosa.

 

Viva Maria!

Maria evviva!

 

Un giovine, nella massa, d'improvviso stramazzò còlto da un accesso di mal caduco. I suoi prossimi lo circondarono, lo trassero fuori del vortice. Altri molti, dalla folla che occupava lo spiazzo, accorsero allo spettacolo.

- Che è accaduto? - domandò Ippolita impallidendo, straordinariamente alterata nel volto e nella voce.

- Nulla, nulla... Un colpo di sole - rispose Giorgio prendendola per un braccio, volendo allontanarla.

Ma Ippolita aveva compreso. Ella aveva scòrto due uomini aprire a forza le mascelle del caduto e mettergli una chiave in bocca: - per impedirgli di mozzarsi la lingua coi denti? - Ella aveva provato nei suoi denti, per suggestione, quell'orribile stridore; e un raccapriccio istintivo l'aveva scossa fin nelle profonde radici della sua sostanza dove il «male sacro» dormiva e poteva svegliarsi.

- È uno che soffre di male di San Donato - disse Cola di Sciampagna. - Non aver paura.

- Andiamo via di qui, andiamo via - insisteva Giorgio, cercando di trar seco la sua compagna, inquieto, sbigottito.

«Se mi cadesse ora qui d'un tratto! Se la prendesse il male ora qui in mezzo alla folla!» egli pensava, sentendosi dentro agghiacciare. E gli ritornavano alla memoria le lettere di lei datate da Caronno, nelle quali ella con parole disperate gli aveva fatta la tremenda rivelazione. E di nuovo, come allora, imaginava «le mani pallide e convulse, tra le dita la ciocca dei capelli strappati...»

- Andiamo via! Vuoi che entriamo nella chiesa?

Ella non parlava più, come stupefatta da una percossa nella nuca.

- Vuoi che entriamo? - ripeté Giorgio, scotendola, cercando di dissimulare la sua inquietudine. E voleva soggiungere: - A che pensi? - ma non osò. Vide negli occhi di lei una tristezza così cupa che n'ebbe il cuore stretto e la gola chiusa. Poi, dubitando che quel silenzio e quello stupore fossero indizii di un accesso imminente, fu invaso da una specie di pànico. Senza riflettere, balbettò: - Ti senti male?

E quelle parole ansiose, che confessavano il dubbio, che rivelavano la paura segreta, aumentarono in entrambi il turbamento.

- No, no - ella disse, con un brivido visibile, compresa d'orrore, serrandosi addosso al compagno perché egli la difendesse contro la minaccia.

E, premuti dalla calca, perduti, scorati, miserabili come tutti, bisognosi di pietà e di soccorso come tutti, sentendo come tutti il peso della loro carne mortale, entrambi per qualche attimo comunicarono veracemente con la moltitudine in mezzo a cui temevano e soffrivano; entrambi per qualche attimo smarrirono i confini delle loro anime nell'immensità della tristezza umana.

E fu Ippolita la prima a volgersi verso la chiesa, verso la grande porta che pareva velata da un fumo azzurrognolo a traverso il quale, or sì or no, brillavano le fiammelle dei cèrei sul torrente vorticoso.

- Entriamo - ella disse, con la voce strozzata, senza distaccarsi da Giorgio.

Cola avvertì che non era possibile entrare per la porta grande.

- Io so un'altra porta - soggiunse. - Venite dietro di me.

A fatica si aprirono un varco. Eppure li reggeva una energia fittizia, li spingeva una ostinazione cieca, simile in parte a quella che mostravano i fanatici nei loro giri senza fine. Era l'effetto del contagio. Sentiva Giorgio omai di non esser più padrone di sé. I nervi lo dominavano, gli imponevano il disordine e l'eccesso delle loro sensazioni.

- Venite dietro di me - ripeteva il vecchio, dividendo con la forza dei gomiti il torrente, affannandosi per difendere dagli urti i suoi ospiti.

Entrarono da una porta laterale in una specie di sagrestia dove tra un fumo azzurrognolo si scorgevano le pareti ricoperte interamente dai vóti di cera sospesi a testimonianza dei miracoli compiuti dalla Vergine. Gambe, braccia, mani, piedi, mammelle, frammenti informi che rappresentavano i tumori, le cancrene e le ulceri, figurazioni rozze di morbi mostruosi, pitture di piaghe scarlatte e violacee sul pallore della cera stridenti, - tutti quei simulacri immobili su le quattro alte pareti avevano un aspetto mortuario, facevano ribrezzo e paura, davano imagine d'un carnaio ove fossero raccolte le membra amputate in un ospedale. Mucchi di corpi umani inerti ingombravano il pavimento; tra mezzo ai quali apparivano volti lividi, bocche sanguinanti, fronti polverose, cranii calvi, capelli bianchi. Erano quasi tutti vecchi, svenuti per lo spasimo davanti all'altare, portati a braccia, ammucchiati come cadaveri in tempo di pestilenza. Un altro vecchio veniva dalla chiesa portato a braccia da due uomini che singhiozzavano; e nel moto il capo gli penzolava ora sul petto ora su una spalla, e stille di sangue gli gocciolavano su la camicia dalle escoriazioni del naso, delle labbra, del mento. Disperate grida lasciava egli dietro di sé, che forse più non udiva: grida di dementi che imploravano la grazia ch'egli non aveva ottenuta.

- Madonna! Madonna! Madonna!

Era un clamore inaudito, più atroce degli urli di chi arde vivo in un incendio senza scampo, più terribile d'un richiamo di naufraghi in un mare notturno condannati a morte certa.

- Madonna! Madonna! Madonna!

Mille braccia si tendevano verso l'altare, con una frenesia selvaggia. Le femmine si trascinavano su le ginocchia, singhiozzando, strappandosi i capelli, percotendosi le anche, battendo la fronte nella pietra, agitandosi come in convulsioni demoniache. Talune, carponi sul pavimento, sostenendo su i gomiti e su i pollici dei piedi scalzi il peso del corpo orizzontale, avanzavano a poco a poco verso l'altare; strisciavano come rèttili. Si contraevano puntando i pollici, con piccole spinte consecutive; e apparivano fuori della gonna le piante callose e giallastre, i malleoli sporgenti e acuti. Le mani aiutavano di tratto in tratto lo sforzo dei gomiti; tremavano intorno alla bocca che baciava la polvere, presso alla lingua che nella polvere segnava croci con la saliva mista di sangue. E su quelle tracce sanguigne i corpi striscianti passavano senza cancellarle, mentre davanti a ciascuna testa un uomo alzato batteva con la punta di un bastone il pavimento per indicare la via diritta verso l'altare.

- Madonna! Madonna! Madonna!

Le consanguinee, trascinandosi su le ginocchia ai due lati del solco, vigilavano il supplizio votivo. Di tratto in tratto si chinavano a confortare le misere. Se quelle davano segno di venir meno, le soccorrevano reggendole per le ascelle o sventolando sul loro capo un pannolino. Piangevano negli atti, dirottamente. Più forte piangevano nell'assistere i vecchi e i giovinetti al medesimo vóto. Non le femmine soltanto ma i vecchi, gli adulti, i giovinetti, per giungere all'altare, per esser degni di sollevare gli occhi verso l'Imagine, si assoggettavano al supplizio. Ciascuno posava la lingua dove l'altro aveva già lasciato il vestigio umido; ciascuno batteva il mento o la fronte dove l'altro aveva già lasciato un brano di pelle o una goccia di sangue e il sudore e le lacrime. Improvviso un raggio di luce radente, dalla porta maggiore penetrando per gli interstizii della calca, illuminava le piante dei piedi contratti, incallite su la gleba arida o sul sasso della montagna, difformate, non più umane quasi, ma bestiali; illuminava gli occipiti capelluti o calvi, bianchi di canizie o fulvi o bruni, sostenuti da colli taurini che si gonfiavano nello sforzo, o tentennanti debolmente come il capo verdognolo d'una vecchia testuggine sbucato dal guscio, o simili a un teschio dissotterrato dove ancóra rimanessero tra rosicchiature qualche ciocca grigia e qualche lembo di cuoio rossiccio.

Si distendeva talora su i lenti rèttili un'onda d'incenso cerulea lentamente; e velava per alcuni attimi quell'umiltà, quella speranza e quel corporale dolore, quasi pietosa. Si presentavano d'innanzi all'altare, oltrepassando, nuovi pazienti a chiedere il miracolo; e coprivano con le loro ombre e con le loro voci gli atterrati che parevano non dover mai giungere a risollevarsi.

- Madonna! Madonna! Madonna!

Le madri si scoprivano le mammelle inaridite e le mostravano alla Vergine per implorare la grazia del latte; mentre dietro di loro le consanguinee recavano i figliuoli macilenti, quasi moribondi, che mettevano un piagnucolìo fioco. Le spose pregavano pel loro ventre sterile la fecondità, offrendo in dono le vesti e gli ori nuziali.

- Fammi tu la grazia, per quel figlio che hai in braccio, Maria santa!

Pregavano da prima sommesse, narrando tra le lacrime la loro pena, come se comunicassero con l'Imagine in un colloquio isolato, come se l'Imagine si chinasse dall'alto fino a loro per ascoltare il lamento. Poi, a grado a grado, si eccitavano sino al furore, sino alla demenza. Pareva che volessero strappare il consenso del prodigio a furia di grida e di gesti folli. Raccoglievano tutte le forze per gittare un urlo più acuto che giungesse all'imo cuore della Vergine.

- Fammi la grazia! Fammi la grazia!

E attendevano, in una pausa ansiosa, sbarrando gli occhi, sperando di cogliere alfine un segno nel volto della persona celeste che scintillava tempestata di gemme tra le colonne dell'altare, inaccessibile.

Un nuovo flutto di fanatici sopravveniva, prendeva il posto, si distendeva per tutta la lunghezza del cancello. Le alte grida e i gesti violenti s'alternavano con le offerte. Di dal cancello, che precludeva l'accesso all'altar maggiore, i preti ricevevano nelle loro mani grasse e pallide le monete e le gioie. Nel tendere la destra e la sinistra da una parte all'altra, si dondolavano come le bestie prigioniere nelle gabbie dei serragli. Dietro di loro i chierici sostenevano larghi vassoi di metallo, su cui le offerte s'accumulavano sonando. Da un lato, presso la porta della sagrestia, altri preti stavano curvi intorno a un tavolo: numeravano le monete, esaminavano gli ori, mentre uno ossuto e fulvo scriveva con una penna d'oca in un gran registro. Per turno, essi tralasciavano la bisogna e officiavano. Di tratto in tratto squillava la campanella, e il turibolo si levava nell'aria fumigando. Lunghe liste azzurrine si svolgevano su per le teste chericute e si dileguavano oltre il cancello. L'aroma sacro si mesceva al lezzo umano.

 

- Ora pro nobis, Sancta Dei Genitrix.

- Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

 

Si udivano talvolta distinte le parole latine, in certe pause improvvise e terribili come quelle della burrasca, quando la moltitudine era oppressa dall'ansia dell'aspettazione.

 

- Concede nos famulos tuos...

 

Veniva innanzi, per la porta maggiore, una coppia di sposi seguìta dal parentado in pompa, con un luccichìo di ori, con un fruscìo di seta. La sposa, fresca e possente, aveva una testa di regina barbara, dai sopraccigli folti e congiunti, dai capelli neri ondulati e lucidi, dalla bocca tumida e sanguigna a cui i denti incisivi irregolari sollevavano il labbro superiore ombrato d'un'ombra virile. Una torque di grossi àcini d'oro le cingeva per tre giri il collo; le pendevano dagli orecchi su le guance i larghi cerchi d'oro fioriti di filigrane; un busto scintillante come un giaco le frenava il seno. Ella incedeva con gravità, tutta assorta nel suo pensiero, quasi senza battere pàlpebra, tenendo una mano carica di anelli su la spalla dello sposo. E giovine anche era lo sposo, di minore statura, quasi imberbe, pallidissimo, con una espressione di profonda tristezza, come se lo divorasse un male segreto. E ambedue parevano recare nel loro aspetto la fatalità d'un mistero primitivo.

Un susurro si propagava sul loro passaggio. Essi non parlavanovoltavano mai il capo, seguìti dai parenti allacciati in catene, uomini e donne, per le braccia come in una danza antica. - Quale vóto scioglievano? Quale grazia chiedevano? - Correva di bocca in bocca sommessamente la novella. Essi chiedevano che fosse resa al giovine la potenza genitale, distrutta in lui forse da una malìa. La verginità della sposa era ancóra intatta; il sangue non aveva ancor macchiato il talamo.

Come furono presso il cancello, ambedue levarono gli occhi all'Imagine, in silenzio; e rimasero immobili per alcuni istanti, assorti nella stessa muta implorazione. Ma, dietro di loro, le due madri tesero le braccia, agitarono le mani rugose e aduste che avevano sparso in vano il frumento augurale nel giorno delle nozze. Tesero le braccia e gridarono:

- Madonna! Madonna! Madonna!

Con gesti lenti la sposa si tolse dalle dita gli anelli e li offerse. Poi si tolse i cerchi pesanti. Poi si tolse la collana ereditaria. Ed ogni ricchezza offerse all'altare.

- Prendi, Vergine benedetta! Prendi, Maria Santissima dei Miracoli! - esclamavano le madri, con la voce già rauca per le grida, moltiplicando i segni del loro fervore, guardandosi a vicenda con un fuggevole sguardo obliquo per vigilare che l'una non superasse l'altra nell'agitazione al conspetto della folla intenta.

- Prendi! Prendi!

Vedevano esse cadere gli ori, cadere nelle mani del prete impassibile; udivano poi tintinnire sul vassoio del chierico il metallo prezioso, acquistato con le fatiche assidue di più generazioni, custodito per anni ed anni nel forziere profondo, rimesso in luce ad ogni nuovo giorno di sponsali. Vedevano esse cadere la ricchezza familiare, cadere, sparire per sempre. La violenza del sacrificio le rendeva disperate; e la loro agitazione si comunicava ai prossimi. Alfine tutta la parentela gridò concordemente. Solo taceva il giovine, tenendo sempre fissi all'Imagine gli occhi onde sgorgavano due rivi di lacrime silenziose.

Successe una pausa, in cui si udirono le parole latine dell'officio e le cadenze dell'inno che cantavano le compagnie turbinando intorno al tempio. Poi la coppia, nell'attitudine primitiva, tenendo sempre gli occhi fissi all'Imagine, indietreggiò lentamente. Una nuova torma si frappose tra quella e il cancello gridando. Per qualche attimo la giovine donna emerse di tutto il capo sul tumulto, priva de' suoi ori nuziali ma più bella e possente, quasi circonfusa d'un mistero dionisiaco, spirante quasi un'aura di antichissima vita su quella moltitudine barbarica; e disparve, indimenticabile.

La seguì con lo sguardo Giorgio, finché ella disparve. Il suo spirito, esaltato fuor del tempo e della realità, viveva nell'orrore di un mondo sconosciuto, al conspetto di un popolo senza nome, partecipando a un rito d'origine oscurissima. I volti degli uomini e delle donne gli apparivano come in una visione di delirio, con l'impronta di una umanità diversa dalla sua, formati d'una materia diversa; e gli sguardi e i gesti e le voci e tutti i segni percettibili lo colpivano di stupore, come se non avessero alcuna analogia con le comuni espressioni umane a lui note fino a quel giorno. Certe figure l'attraevano d'improvviso magneticamente. Egli le seguiva tra la calca, sospingendo Ippolita; le accompagnava con lo sguardo sollevandosi su la punta dei piedi, ansioso; ne vigilava ogni atto; ne sentiva ripercuotere le grida nel suo proprio cuore; si sentiva invadere dalla medesima follia; e provava anch'egli un bisogno brutale di gridare e di agitarsi.

Si guardavano in viso, di tratto in tratto, egli ed Ippolita; e si vedevano pallidi, convulsi, sbigottiti, stanchi. Ma nessuno proponeva di abbandonare il luogo terribile, se bene e l'uno e l'altra non avessero più forze. Incalzati dalla folla, talvolta quasi trasportati, vagavano di qua e di in mezzo al fragore, avvinti per le mani o per le braccia, mentre il vecchio faceva sforzi continui per assisterli e per proteggerli. Una compagnia sopraggiungendo li spinse contro il cancello. Per alcuni minuti rimasero prigionieri, chiusi da ogni parte, avvolti nel fumo dell'incenso, assordati dalle grida, soffocati dalla calura, nel più forte dell'agitazione e della demenza.

- Madonna! Madonna! Madonna!

Erano le femmine rèttili che, giunte alla mèta, si alzavano. Una di loro fu sollevata dalle parenti, rigida come un cadavere; fu sostenuta in piedi e scossa. Pareva morta. Aveva tutto il viso polveroso, la fronte e il naso escoriati, la bocca piena di sangue. Quelle del soccorso le soffiarono sul viso perché riprendesse la conoscenza; le tersero la bocca con un pannolino che diventò vermiglio; la scossero di nuovo e la chiamarono per nome presso all'orecchio. Ella, d'improvviso, arrovesciò il capo indietro. Poi si gittò contro il cancello, abbrancò i ferri convulsa; e si mise a urlare come una partoriente.

Urlava e si dibatteva, coprendo ogni altro clamore. Un profluvio di lacrime le inondava la faccia, lavando la polvere e il sangue.

- Madonna! Madonna! Madonna!

E dietro di lei, a fianco di lei, altre sorgevano, vacillavano, si rianimavano, deprecavano.

- La grazia! La grazia!

Perdevano la voce, trascolorivano, cadevano di schianto, erano portate via di peso; mentre altre ancóra sorgevano come di sotterra.

- La grazia! La grazia!

A quegli urli che parevano lacerare i petti da cui irrompevano, a quelle sillabe iterate senza tregua con la stessa persistenza fidente e invitta, a quel denso fumo che s'appesantiva come una nube di tempesta, a quel contatto dei corpi, a quella mescolanza dei fiati, alla vista del sangue e delle lacrime, tutta la moltitudine in un punto fu posseduta da una sola anima, divenne un essere solo, miserabile e terribile, ch'ebbe un gesto, una voce, uno spasimo e un furore. Tutti i mali divennero un solo unico male che la Vergine doveva distruggere; tutte le speranze divennero una sola unica speranza che la Vergine doveva compire.

- La grazia! La grazia!

E sotto l'Imagine scintillante le fiamme dei cèrei tremarono a quel vento di passione.

 

 

 

VII

 

Ora sedevano all'aperto, in disparte, sotto gli alberi, Giorgio e Ippolita, stupefatti e abbattuti come due naufraghi scampati al periglio, silenziosi e quasi privi di pensiero, se bene ancor li attraversasse a quando a quando un brivido del recente orrore. Ippolita aveva gli occhi rossi di pianto. Ambedue, dentro il Santuario, nel momento tragico, erano stati invasi dal comune delirio; ed erano fuggiti, paventando la follia.

Ora sedevano in disparte, sul confine della largura, sotto gli alberi. Quel lembo di terreno era quasi deserto. Soltanto, intorno a qualche tronco scontorto di ulivo, stavano gruppi di giumenti coi basti vuoti, in una immobilità di forme inanimate; e rendevano triste l'ombra dell'albero. Giungeva il romorìo cupo della moltitudine formicolante; giungevano le cadenze del canto sacro, gli squilli delle trombe, i rintocchi delle campane; si vedevano le compagnie distendersi in lunghe file, girare intorno alla chiesa, entrarvi, uscirne.

- Vuoi dormire? - chiese Giorgio a Ippolita, accorgendosi ch'ella chiudeva le palpebre.

- No; ma non posso più vedere...

Giorgio provava la medesima ripugnanza. La continuità e l'acutezza delle sensazioni avevano trasceso la resistenza de' suoi organi. Lo spettacolo era divenuto intollerabile. Egli si levò.

- Vieni; àlzati - le disse. - Andiamo a sederci più in .

Scesero in un avvallamento coltivato; cercarono un poco d'ombra. Il sole era ardentissimo. Ambedue pensarono alla loro casa di San Vito, alle belle stanze ariose in conspetto del mare.

- Soffri molto? - chiese Giorgio, scorgendo sul volto dell'amica i segni palesi della sofferenza e negli occhi di lei la cupa tristezza che già, dianzi, in mezzo alla folla, presso il pilastro del portico, lo aveva sbigottito,

- No. Sono stanchissima.

- Vuoi dormire? Perché non dormi un poco? Appòggiati a me. Vuoi? Ti sentirai meglio, dopo.

- No, no.

- Appòggiati. Aspetteremo che torni Cola, per andare a Casalbordino. Tu puoi riposarti, intanto.

Ella si tolse il cappello; poi si chinò verso di lui, appoggiò la testa.

- Come sei bella! - egli soggiunse, guardandola in quell'atto.

Ella sorrise. Di nuovo, la sofferenza la trasfigurava, metteva in lei una seduzione più profonda.

Egli soggiunse:

- Da quanto tempo tu non mi dài un bacio!

Si baciarono.

- Ora dormi un poco - egli pregò, teneramente.

Gli pareva rinnovellato il sentimento dell'amore, dopo tutte quelle cose orribili ed estranee che l'avevano sopraffatto. Di nuovo egli s'isolava, si restringeva in sé, respingeva qualunque comunione che non fosse con la creatura da lui eletta. Con una rapidità inconcepibile il suo spirito si liberava di tutti i fantasmi creati nel periodo dell'illusione mistica, dell'ideale ascetico; scoteva il giogo del «divino», ch'egli aveva tentato di sostituire alla sua volontà inerte disperando di risvegliarla. Provava ora per la «fede» il medesimo disgusto che aveva provato dentro la chiesa per la bestia immonda strisciante nella polvere consacrata. Rivedeva le mani grasse e pallide dei preti che ricevevano le offerte, e il dondolìo continuo delle nere figure dietro il cancello chiuso. Tutto era ignobile, e tutto negava la presenza di quel Signore che egli aveva sperato di conoscere in una rivelazione fulminea. Ma il grande esperimento era alfine compiuto. Egli aveva esperimentata l'aderenza materiale con lo strato infimo della sua razza; e non altro era sorto in lui se non un senso d'invincibile orrore. Il suo essere non aveva radici in quel fondo; non poteva aver nulla di comune con quella moltitudine che - come la maggior parte delle specie animali - aveva raggiunto il suo tipo definitivo, aveva definitivamente incarnato nella sua carne bruta la moralità de' suoi costumi. Da quanti secoli, per quante generazioni erasi perpetuato quel tipo immutabile? La specie umana aveva dunque un fondo interamente inerte che permaneva sotto le ondulazioni delle zone mobili superiori. Il tipo ideale dell'umanità non era dunque nel lontano futuro, non era al termine ignoto di un periodo progressivo; ma poteva soltanto manifestarsi alla sommità delle onde, negli esseri più elevati. Ora egli s'accorgeva che, volendo ritrovare tutto sé e riconoscere la sua vera essenza nel contatto immediato con la razza da cui era uscito, errava come chi volesse ricercar le cause della forma, della dimensione, della direzione, della velocità, della forza di un'onda marina nella massa acquea sottostante. Lo scopo dell'esperimento era fallito. Egli era estraneo a quella moltitudine come a una tribù di oceanidi; egli era anche estraneo al suo paese, alla terra natale, alla patria, com'era estraneo alla sua famiglia, alla sua casa. Egli doveva rinunziare per sempre a quella vana ricerca del punto fisso, dell'appoggio stabile, del sostegno sicuro. «Il senso ch'io ho del mio essere è simile a quello che può avere un uomo il quale, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di continuo mancargli l'appoggio, dovunque egli posi il piede.» Con questa imagine aveva egli rappresentato, una volta, la sua perpetua ansietà. Ma perché dunque, volendo conservare la vita, non diverrebbe egli, a forza di metodo, così valido e così agile da abituarsi a rimanere in equilibrio pur tra quelle diverse impulsioni e a danzare pur su l'orlo del precipizio liberamente e arditamente? Certo, egli voleva conservare la vita. N'erano una prova palese le sue stesse consecutive esperienze. In lui un istinto profondo, rimasto ancóra intatto, si sollevava con sempre nuovi artifizii a combattere l'estenuazione mortale. Quel suo sogno ascetico, con tanta ricchezza construito, con tanta eleganza ornato, che altro era se non un espediente per lottare contro la morte? Egli stesso, fin da principio, aveva posto il dilemma: - o seguire l'esempio di Demetrio, o darsi al Cielo. Aveva scelto il Cielo per conservare la vita. «Ora intendi lo spirito ad acquistare il disgusto della verità e della certezza, se vuoi vivere. Rinunzia all'acuta esperienza. Rispetta i veli. Credi nella linea visibile e nella parola proferita. Non cercare oltre il mondo delle apparenze creato dai tuoi sensi meravigliosi. Adora l'illusione

Ed egli già trovava un incanto in quell'ora fugace. La profondità della sua conscienza e l'infinita estensione della sua sensibilità lo inorgoglivano. I fenomeni innumerevoli che si succedevano nel suo mondo interiore, d'attimo in attimo, gli facevano apparire illimitata la potenza comprensiva della sua anima. Ed ebbe veramente un singolare incanto per lui quell'ora fugace in cui gli parve di scoprire nascosti rapporti ed analogie segrete tra le rappresentazioni del Caso e il suo sentimento.

Giungeva in confuso il romorìo della folla selvaggia da' cui vortici egli era uscito pur dianzi; giungeva in confuso, a tratti suscitandogli la visione istantanea d'una grande vampa sinistra ove si dibattevano in un tragico viluppo gli ossessi. E su quel romorìo incessante egli percepiva, ad ogni alito di aura, il fremito benigno dei rami che proteggevano la sua meditazione e il riposo d'Ippolita. Riposava Ippolita, assopita, con la bocca socchiusa, appena respirando; e un sudor lieve le inumidiva la fronte. Ella teneva le mani raccolte nel grembo, senza guanti, pallide; e l'imaginazione dell'amante vedeva tra le dita «la ciocca dei capelli strappati...» Appariva e spariva come quella ciocca, nella luce cruda sul terreno arsiccio, il fantasma dell'epilettico; - di quel medesimo che sotto il portico era caduto all'improvviso; - e si divincolava nella stretta di due uomini che volevano aprirgli a forza le mascelle e mettergli una chiave in bocca. Appariva e spariva il fantasma, quasi fosse il sogno della dormente esternato e reso visibile. «S'ella si risvegliasse e in lei il male sacropensava Giorgio, con un brivido intimo. «L'imagine che si forma nel mio cervello m'è forse trasmessa da lei. Forse io vedo il suo sogno. E il suo sogno ha forse per causa la perturbazione che incomincia nei suoi organi e che aumenterà sino all'accesso. Non è talvolta un sogno il presagio d'un morbo covato?» Ed egli s'indugiò nel considerare quei misteri della sostanza animale, intuiti vagamente. Sul fondo diffuso della sua sensibilità organica, già rischiarato dai cinque sensi soprani, andavano a poco a poco apparendo altri sensi intermedii le cui percezioni sottilissime scoprivano un mondo fin allora sconosciuto. Non poteva egli trovare nell'infermità occulta d'Ippolita uno stato favorevole per comunicar con lei in qualche modo straordinario?

Egli la guardava intento, come sul letto in quel primo giorno già lontanissimo. Vedeva sul volto di lei tremolare le ombre leggere dei rami penduli. Udiva il fragore incessante che si propagava dal Santuario per la luce infinita. La tristezza gli ripiombò sul cuore; di nuovo la stanchezza lo vinse. Appoggiò il capo al tronco dell'albero; chiuse gli occhi, senza più pensare.

Stava per invaderlo il sonno, quando un sussulto d'Ippolita lo scosse.

- Giorgio!

Ella si destava sbigottita, confusa, come se non riconoscesse i luoghi; e, offesa dalla gran luce, si copriva le palpebre con le mani, lamentandosi.

- Dio mio, che dolore!

Si lamentava d'un dolore alle tempie.

- Dove siamo? Ah, è tutto un brutto sogno!

- Io non dovevo condurti - disse Giorgio, inquieto. - Come mi pento!

- Non ho la forza d'alzarmi. Aiutami.

Egli la sollevò per le braccia. Ella vacillò, si afferrò a lui, presa da una vertigine.

- Che hai? Che ti senti? - gridò egli, con la voce mutata, invaso dal pànico, credendo ch'ella fosse colpita da un accesso del male, , nell'aperta campagna, lungi da ogni soccorso. - Che hai? Che hai?

E la strinse forte, se la tenne stretta sul cuore che gli batteva con una violenza orribile.

- No, no, non è nulla, - balbettò Ippolita che subitamente aveva compreso il terrore di lui e s'era fatta smorta, - non è nulla... Mi gira un po' il capo. Il sole m'ha stordita. Non è nulla...

Ella aveva le labbra quasi bianche ed evitava di guardare negli occhi l'amante. Egli non poteva ancóra dominare l'ambascia ed era punto dal rammarico di aver ridestato in lei la preoccupazione paurosa e l'onta. Gli tornavano alla memoria le parole d'una lettera: «Se questo male mi prendesse fra le tue braccia? No, no, io non ti vedrò più, non voglio più vederti

Ella disse, piano:

- È passato. Sto meglio. Ma ho sete. Dove si potrà bere?

- Laggiù, intorno alla chiesa, dove sono le tende - rispose Giorgio.

Ella negò col capo, vivacemente.

- Andrò io. Tu mi aspetterai qui.

Ella negò, ostinata.

- Manderemo Cola. Dev'esser qui nelle vicinanze. Ora lo chiamo.

- Sì, chiamalo. Ma andiamo a Casalbordino. Beveremo . Posso resistere. Moviamoci.

Ella si appoggiò al braccio di Giorgio. Risalirono il declivio; giunti sul ciglio, rividero il piano gremito di popolo, le baracche bianche, l'edifizio rossastro. Ancóra intorno ai tronchi contorti degli olivi le forme malinconiche dei giumenti stavano immobili. Da presso, nell'ombra medesima ove prima entrambi s'erano rifugiati, stava seduta una vecchia che all'aspetto pareva centenaria: anch'ella immobile, con le mani posate su le ginocchia, con le scarne tibie scoperte fuor della gonna. I capelli bianchi le scendevano lungo le gote ceree; la bocca non aveva labbra, simile a una ruga profonda; gli occhi erano suggellati per sempre dalle palpebre sanguinose; in tutto il suo aspetto era come diffusa una memoria di dolori innumerabili.

- È morta? - disse Ippolita sommessamente, soffermandosi, compresa di timore e di reverenza.

La moltitudine tumultuava intorno al Santuario. Le compagnie turbinavano, cantando, sotto il sole crudele. Una di esse, uscendo dalla porta maggiore, si dirigeva verso lo spazio sgombro, preceduta dal crocifero. Uomini e donne, giunti a poca distanza dal confine, si arrestarono e si rivolsero verso il tempio, disponendosi in semicerchio; le donne accosciate, gli uomini in piedi, il crocifero nel centro. Pregarono e si segnarono. Poi gittarono verso il tempio un alto grido concorde: l'ultima salutazione. E ripresero il cammino, intonando l'inno.

 

Viva Maria!

Maria evviva!

 

La vecchia non mutò attitudine. Qualche cosa di grande, di terribile e d'indefinitamente soprannaturale emanava dalla sua vecchiezza solitaria all'ombra dell'olivo arido e quasi lapideo, il cui tronco bipartito pareva segnato dalla folgore del Cielo. Se pure ella era ancóra vivente, certo i suoi occhi non vedevano, i suoi orecchi non udivano, tutti i suoi sensi erano estinti. Tuttavia ella aveva l'aspetto di una Testimone, volta verso la parte invisibile dell'eternità.

«La morte non è tanto misteriosa quanto quel residuo di vita in quella ruina umanapensò Giorgio mentre si levava nel suo spirito, con un sentimento straordinario, l'imagine vaga di un mito antichissimo. «Perché non risvegli tu la Madre secolare che dorme su la soglia della morte? Nel suo sonno è la Scienza primiera. Perché non interroghi tu la saggia Madre terrestre?...» Vaghe parole, frammenti d'incerte epopee lontane, gli si risvegliavano nella memoria; indefinite linee di simboli ondeggiando lo avvolgevano.

- Andiamo, Giorgio - disse Ippolita, scotendolo lievemente, dopo un intervallo di silenzio pensoso. - Come tutto è triste qui!

Ella aveva la voce estenuata, e negli occhi quella cupa ombra in cui l'amante leggeva un orrore e un rancore inesprimibili. Egli non osava confortarla, per tema ch'ella sentisse nel conforto una preoccupazione dell'orrenda minaccia che pareva pendere su lei fin dal momento in cui ella aveva veduto stramazzare l'epilettico tra la folla.

Ma, dopo pochi passi, ella di nuovo s'arrestò, come soffocata da un'ambascia che non potesse reprimere, come stretta da un nodo di pianto che non potesse sciogliere. Guardò l'amante, guardò intorno a sé, perdutamente.

- Dio, Dio, che tristezza!

Era una tristezza tutta corporea, una tristezza brutale, che saliva dal fondo della sua sostanza, come una cosa densa e greve, opprimendola d'un peso insostenibile. Ella avrebbe voluto lasciarsi cadere a terra, come sotto una soma esorbitante, per non rialzarsi più; avrebbe voluto perdere la conscienza, divenire una massa inerte, esalare la vita.

- Dimmi, dimmi che vuoi ch'io faccia! Dimmi che posso fare per sollevarti! - balbettava Giorgio, tenendola per le mani, agitato da uno sgomento folle.

Non era forse quella tristezza la larva del male?

Per alcuni istanti ella rimase fissa, con gli occhi leggermente stravolti. Trasalì ferita dal grido che mise, poco di lungi, una compagnia salutando il tempio nel partire.

- Conducimi in qualche luogo. C'è forse un albergo a Casalbordino... Dove sarà Cola?

Giorgio acuiva la vista sperando di scorgere il vecchio.

- Forse va in cerca di noi tra la folla - egli disse - o s'è incamminato per Casalbordino credendo di trovarci lassù...

- Andiamo soli, allora. Vedo, in fondo, le vetture.

- Andiamo, se tu vuoi. Ma appòggiati a me.

Si diressero verso la strada che biancheggiava lungo un lato del piano. Pareva che lo strepito li incalzasse. La tromba d'un giocoliere mandava squilli acutissimi dietro di loro. La sempre eguale cadenza dell'inno persisteva su tutte le altre voci con la sua continuità esasperante.

 

Viva Maria!

Maria evviva!

 

Un accattone comparve d'improvviso come se fosse balzato di sotterra; e tese la mano.

- La carità, per amore della Madonna!

Era un giovine, col capo fasciato da un fazzoletto rosso che per un lembo gli copriva un occhio. Sollevò il lembo e mostrò l'occhio enorme, gonfio come una borsa, purulento, in cui il battito della palpebra superiore metteva un tremolìo orribile a vedersi.

- La carità, per amore della Madonna!

Giorgio gli fece l'elemosina; ed egli ricoprì la bruttura. Ma, poco oltre, un uomo gigantesco, sanguigno, monco d'un braccio, si trasse a metà la camicia per mostrare la cicatrice increspata e rossastra dell'amputazione.

- Un morso! Il morso d'un cavallo! Guardate! Guardate!

E si gittò a terra, così scoperto; e baciò la terra più volte, gridando ogni volta con una voce aspra:

- Misericordia!

Un altro accattone, uno storpio, stava sotto un albero, su un giaciglio composto d'un basto, d'una pelle di capra, d'una scatola da petrolio vuota e di grosse pietre. Avvolto in un lenzuolo lurido, d'onde uscivano due stinchi vellosi e chiazzati di fango secco, egli agitava rabbiosamente una mano ritorta come una radice, per cacciare le mosche che lo assalivano a nugoli.

- La carità! La carità! Fate la carità! La Madonna vi farà la grazia. Fate la carità!

Scorgendo altri mendicanti che accorrevano, Ippolita affrettò il passo, Giorgio chiamò con i gesti il vetturale più vicino. Come furono nella vettura, Ippolita esclamò con un respiro di sollievo:

- Ah finalmente!

- C'è un albergo in Casalbordino? - chiese Giorgio al vetturale.

- Sì, signore; c'è.

- Quanto tempo per arrivare?

- Scarsa mezz'ora, signore.

- Andiamo.

Egli prese le mani d'Ippolita; tentò di rallegrarla.

- Su, coraggio! Avremo una stanza, potremo riposarci. Non vedremo più nulla, non sentiremo più nulla. Anch'io son rotto di fatica e ho la testa vuota...

Soggiunse, sorridendo:

- Non hai un poco di fame?

Ella rispose al sorriso. Egli ancóra soggiunse, evocando la memoria del vecchio albergo di Ludovico Togni:

- Sarà come ad Albano. Ti ricordi?

Gli pareva che a poco a poco ella si rischiarasse. Volle trarla a pensieri lievi e lieti.

- Che farà Pancrazio? Ah, uno di que' suoi aranci, ora! Ti ricordi? Non so che darei per un arancio... Hai molta sete? Soffri?

- No... Mi sento meglio. Non mi par vero che il supplizio sia finito. Dio mio! Non mi potrò mai dimenticare di questo giorno; mai, mai.

- Povera anima!

Egli le baciò le mani, teneramente. Poi, indicando i campi che limitavano la via, esclamò:

- Guarda com'è bello il grano! Purifichiamo la nostra vista.

Di qua, di , si stendevano le mèssi incontaminate, già mature per la falce, alte e folte, respiranti nella luce per i vertici leggeri delle spighe innumerevoli che parevano a tratti vampeggiare quasi convertite in un oro evanescente. Solitarie sotto il limpido arco del cielo, esalavano uno spirito di purità che i due cuori contristati e affaticati ricevettero come un refrigerio.

- Ma che riverbero forte! - disse Ippolita socchiudendo i suoi lunghi cigli.

- Tu hai le tue cortine...

Ella sorrise. Pareva che la sua nube di tristezza fosse per disciogliersi.

Alcune vetture alla fila venivano incontro, discendendo verso il Santuario. Sollevarono nel passaggio un nembo di polvere soffocante. Per qualche minuto la polvere nascose la strada, le siepi, i campi, tutto intorno, bianchissima.

- La carità, per amore della Madonna! La carità! La carità!

- Fate la carità, per la Vergine dei Miracoli!

- Date l'elemosina a una povera anima di Dio!

- La carità! La carità!

- Date l'elemosina!

- Date un tozzo di pane!

- La carità!

Una due tre quattro cinque voci, più e più voci d'esseri ancóra invisibili, proruppero in mezzo al nembo, rauche, acute, aspre, cavernose, umili, irate, singhiozzanti, tutte diverse e discordi.

- Date l'elemosina!

- Fate la carità!

- Ferma! Ferma!

- La carità, per Maria Santissima dei Miracoli!

- La carità! La carità!

- Ferma!

E tra la polvere apparve in confuso un viluppo di mostri. Uno dalle mani mozze agitava i moncherini sanguigni come se la troncatura fosse ancor fresca o mal cicatrizzata. Un altro aveva le palme munite d'un disco di cuoio e su quelle trascinava a fatica la massa del corpo inerte. Un altro aveva un gran gozzo grinzoso e violaceo che gli ondeggiava come una giogaia. Un altro, per una crescenza del labbro, pareva tenesse fra i denti un brano di fegato crudo. Un altro mostrava il volto devastato da una erosione profonda che gli scopriva le fosse nasali e la mascella di sopra. Altri mostravano altri orrori, a gara, con gesti violenti, con attitudini quasi di minaccia, come per far prevalere un diritto.

- Ferma! Ferma!

- Date l'elemosina!

- Guardate! Guardate! Guardate!

- A me! A me!

- Date l'elemosina!

- Fate la carità!

- A me!

Era un assalto, era quasi un'imposizione. Tutti parevano risoluti ad esigere l'obolo, a costo d'abbrancarsi alle ruote e d'afferrare le zampe dei cavalli.

- Ferma! Ferma!

Mentre Giorgio cercava nelle sue tasche le monete per gittarle alla marmaglia, Ippolita si stringeva contro di lui, presa alla gola dal disgusto, incapace omai di dominare il fantastico terrore che la invasava sotto quella gran luce bianca, in quella terra ignota brulicante d'una vita così lugubre.

- Ferma! Ferma!

- Date l'elemosina!

- A me! A me!

Ma il vetturale s'adirò; e, drizzatosi a un tratto, brandendo la frusta nel pugno gagliardo, prese a percuotere con tutta la sua forza gli accattoni; ed ogni colpo accompagnava di vituperii. Sibilava nell'aria la corda serpentina. Colpiti, gli accattoni imprecavano ma non si ritraevano. Ciascuno voleva la sua parte.

- A me! A me!

Giorgio allora gittò un pugno di monete nella polvere; e la polvere coperse la mischia dei mostri, soffocò le bestemmie. Quello dalle mani mozze e quello dalle gambe fiaccate tentarono ancóra di seguir la vettura per un tratto; ma, alla minaccia della sferza, s'arrestarono.

- Non t'intimorire, signora, - disse il vetturale. - Nessuno più s'accosterà. Te lo prometto.

Voci nuove sorgevano: gemevano, urlavano, invocavano la Vergine e Gesù, dichiaravano la natura delle deformità e delle piaghe, narravano la malattia o la disgrazia. Oltre l'agguato di quel primo gruppo facinoroso, un esercito di pezzenti si distendeva in due catene ai lati della strada sino alle case lontane del borgo.

- Dio mio, Dio mio, che paese maledetto! - mormorò Ippolita, esausta, sentendosi venir meno. - Andiamo via! Andiamo via! Torniamo indietro! Ti prego, Giorgio: torniamo indietro!

Nulla, - né il vortice di demenza che trascinava le turbe fanatiche intorno al tempio; né le grida disperate che sembravano partire da un incendio o da un naufragio o da una carneficina; né i vecchi tramortiti e sanguinolenti che giacevano ammucchiati lungo le pareti della stanza votiva; né le femmine convulse che strisciavano verso l'altare lacerandosi la lingua contro la pietra; né il supremo clamore prorotto dalle viscere della moltitudine confusa in un solo spasimo e in una speranza sola - nulla, nulla eguagliava in terribilità lo spettacolo di quella grande erta polverosa, accecante di bianchezza, su cui tutti quei mostri della miseria umana, tutti quegli avanzi d'una razza disfatta, corpi accomunati alla bestia immonda e alla materia escrementale, ostentavano fuor de' cenci le loro brutture e le proclamavano.

Era una tribù innumerevole, che occupava i ciglioni e le fosse, con le famiglie, con le figliolanze, con le parentele, con le masserizie. Vi si vedevano femmine seminude, sfiancate come cagne dopo il parto, e fanciulli verdi come ramarri, macilenti, con gli occhi rapaci, con la bocca già appassita, taciturni, che covavano nel sangue il morbo ereditario. Ciascuna comunità aveva il suo mostro: un monco, uno storpio, un gobbo, un cieco, un epilettico, un lebbroso. Ciascuna aveva in patrimonio la sua ulcera da coltivare perché rendesse. Incitato, il mostro si distaccava dal gruppo, s'avanzava nella polvere, gesticolava e implorava a benefizio comune.

- Fate la carità se volete la grazia! Date l'elemosina! Guardate la vita mia! Guardate la vita mia!

Un monòmero, fosco e camuso come un mulatto, con una gran capellatura leonina, raccoglieva la polvere tra i suoi cincinni e poi squassava la testa circondandosi di una nube. Una erniaria, d'età inconoscibile, che più non aveva aspetto umano, accosciata sotto un palo, sollevava il grembiule per mostrare la sua ernia enorme e giallognola come una vescica di sevo. Un elefantiaco seduto a terra indicava una gamba massiccia come un tronco di quercia, coperta di verruche e di croste gialle, qua e abbronzita o nera, così smisurata che pareva non gli appartenesse. Un cieco, in ginocchio, con le palme rivolte al cielo, nell'attitudine di un estatico, aveva sotto una vasta fronte calva due piccoli fóri sanguinosi. Altri, altri ancóra si presentavano, fin dove giungeva la vista, nel barbaglio del sole. Tutta la grande erta n'era infestata, senza intervallo. Le implorazioni si propagavano ininterrotte, elevandosi, abbassandosi, in coro, a contrasto, con mille accenti. L'ampiezza della campagna solitaria, il cielo deserto e muto, il riverbero allucinante della via ignea, l'immobilità delle forme vegetali, tutte le cose intorno rendevano più tragica l'ora evocando l'imagine biblica d'un cammino di desolazione che conducesse alle porte d'una città maledetta.

- Andiamo via! Torniamo indietro! Ti prego, Giorgio; torniamo indietro! - ripeteva Ippolita, con un fremito d'orrore, dominata dall'idea superstiziosa d'un castigo divino, paventando altri e più atroci spettacoli sotto quel cielo rovente e vacuo per ove incominciava a spandersi un rombo metallico.

- Ma dove andremo? Dove andremo?

- Dovunque, dovunque. Torniamo indietro, laggiù, al mare. Aspetteremo l'ora di partire, laggiù... Ti prego!

E il digiuno e la tortura della sete e l'ardore dell'aria aumentavano in ambedue il turbamento dello spirito.

- Vedi? Vedi? - gridò ella, fuori di sé, come davanti a un'apparizione soprannaturale. - Vedi? Non finirà mai!

Nella luce, nella luce bianca e implacabile, s'avanzava verso di loro uno stuolo d'uomini e di femmine in cenci preceduto da una specie di banditore che vociava agitando un piatto di rame. E quegli uomini e quelle femmine portavano in spalla un pancone coperto d'un pagliericcio su cui giaceva un'inferma dall'aspetto cadaverico, una creatura scheletrita e gialligna, stretta in fasce di tela come una mummia, coi piedi nudi. E il banditore - ch'era olivastro e serpentino e aveva gli occhi d'un folle - mostrando la moribonda, narrava ad alta voce com'ella, inferma d'un flusso di sangue da più anni, avesse ottenuto il miracolo dalla Vergine all'alba di quel giorno medesimo. E implorava l'elemosina perché ella, liberata dal male, potesse rinsanguarsi. E agitava il piatto di rame su cui alcune monete tintinnivano.

- La Madonna ha fatto il miracolo! Il miracolo! Il miracolo! Date l'elemosina! Per la misericordia di Maria Santissima, fate la carità!

E gli uomini e le femmine, concordemente, contraevano il viso nell'atto di piangere. E l'emorroissa levava a pena in un gesto vago le mani òssee movendo le dita come per prendere qualche cosa nell'aria; mentre i suoi piedi nudi, gialligni come le mani, come la faccia, lucidi ai malleoli, avevano una rigidità mortale. E tutto appariva nella luce bianca e implacabile, da presso, da presso, sempre più da presso...

- Torna indietro! Torna indietro! - gridò Giorgio al vetturale. - Volta e sferza!

- Siamo arrivati, signore. Di che hai paura?

- Torna indietro!

E l'ordine fu così reciso che il vetturale voltò i cavalli, in mezzo a un vocìo assordante.

- Sferza! Sferza!

E giù per la discesa fu come una fuga, tra nuvoli di polvere densi che fendeva a tratti qualche urlo rauco.

- Dove andiamo, signore? - chiese il vetturale, curvandosi nel nembo.

- Giù, giù, al mare. Sferza!

Giorgio sorreggeva Ippolita quasi svenuta, senza cercare di rianimarla. Non era in lui se non un senso confuso della realtà di tutto quel che avveniva. Imagini reali e fantastiche gli turbinavano nello spirito e lo allucinavano. Un rombo continuo gli occupava l'orecchio e gli impediva di percepire altri romori distinti. Gli stringeva il cuore un'ansietà angosciosa, come nell'incubo: l'ansietà di escir fuori dalla zona di quel sogno orrendo, l'ansietà di riacquistare la conoscenza primiera e di sentir palpitare viva sul suo petto la creatura amata e di rivederne il sorriso tenero.

 

Viva Maria!

 

Ancóra una volta gli giunse l'onda dell'inno; ancóra una volta la Casa della Vergine gli apparve, a sinistra, sul brulichìo innumerevole, rossastra in un incendio di sole, sovrastante ai vertici delle tende profane, irraggiante un potere formidabile.

 

Viva Maria!

Maria evviva!

 

E l'onda si dileguò; e, in una curva della discesa, il Santuario scomparve. E, all'improvviso, quasi un alito fresco passò sopra le larghe mèssi che fluttuarono. E una lunga lista cerulea secò l'orizzonte.

- Ecco il mare! Ecco il mare! - proruppe Giorgio, come se in quel punto avesse toccata la sua salvezza.

E il cuore gli si dilatava.

- Su, anima! Guarda il mare!

 

 

 


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