Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il trionfo della morte
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LIBRO QUINTO TEMPVS DESTRVENDI

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LIBRO QUINTO

 

TEMPVS DESTRVENDI

 

 

 

I

 

Su la loggia, la mensa era gaia con le sue porcellane chiare, con i suoi cristalli azzurrini, con i suoi garofani rossi, nella luce dorata d'una grande lampada fissa che attirava tutte le farfalle notturne sparse per la sera estiva.

- Guarda, guarda, Giorgio! Questa è infernale... Ha due occhi di demonio. Vedi come luccicano?

Ippolita indicava una farfalla, maggiore delle altre, d'aspetto singolare, coperta d'una densa pelurie fulva, con occhi sporgenti che contro luce riscintillavano come due scagliette di carbonchio.

- Ti viene addosso! Ti viene addosso! Sàlvati!

Ella rideva d'un riso effuso, prendendosi gioco dell'inquietudine istintiva che Giorgio non sapeva nascondere quando uno di quegli insetti stava per sfiorarlo.

- Ah, bisogna che io l'abbia! - esclamò ella, con l'impeto d'un capriccio puerile, tentando di far prigioniera la farfalla diabolica che aliava intorno alla lampada senza posarsi.

I suoi tentativi repentini e violenti furono inutili. Ella rovesciò un bicchiere, fece crollare un cumulo di frutti su la tovaglia, corse il rischio di spezzare il paralume.

- Eh, che furia! - disse Giorgio incitandola. - Non riuscirai.

- Sì; riuscirò - rispose la pervicace, guardandolo negli occhi. - Vuoi tu scommettere?

- Che cosa?

- Qualunque cosa.

- Bene: a discrezione.

- A discrezione.

Ella portava diffuso pel volto, alla luce calda, il suo più ricco e più dolce colore: quell'ideal colore «materiato d'ambra pallida e d'oro opaco e forse di qualche rosa un po' disfatta», in cui Giorgio Aurispa a Venezia aveva creduto rinvenire tutto il mistero e tutta la bellezza dell'antica anima veneziana emigrata nel dilettoso reame di Cipro. Ella portava tra i capelli un garofano, acceso come un desiderio. E i suoi occhi ombrati dai cigli risplendevano come i laghi tra i salici nei crepuscoli.

Ella appariva, così, la donna di delizia, il forte e delicato strumento di piacere, l'animale voluttuario e magnifico destinato a illustrare una mensa, a rallegrare un letto, a suscitare le fantasie ambigue d'una lussuria estetica. Ella così appariva nello splendore massimo della sua animalità: lieta, irrequieta, pieghevole, morbida, crudele.

Giorgio pensava, guardandola con una curiosità intenta: «Di quante diverse apparenze ella si veste agli occhi miei! La sua forma è disegnata dal mio desiderio; le sue ombre sono prodotte dal mio pensiero. Ella, quale m'appare in tutti gli istanti, non è se non l'effetto d'una mia continua creazione interiore. Ella non esiste se non in me medesimo. Le sue apparenze sono mutevoli come i sogni dell'infermo. Gravis dum suavis! Quando?» Era assai confuso nella sua memoria il tempo in cui egli l'aveva insignita di quel titolo di nobiltà ideale, baciandola su la fronte. Quella esaltazione era per lui ora quasi inconcepibile. Confusamente gli ripassavano nella memoria parole proferite da lei, che sembravano rivelare uno spirito profondo. «Chi parlava in lei, allora, se non il mio spirito? Fu una delle mie ambizioni dare alla mia anima triste quelle labbra sinuose, affinché esalasse il suo dolore per un tramite di bellezza insigne

Egli guardò quelle labbra. Si contraevano un poco, non senza grazia, partecipando all'intensità di attenzione con cui Ippolita cercava di cogliere l'attimo opportuno per sorprendere la farfalla nottivaga.

Ella ora usava una cauta astuzia nelle insidie, volendo con un sol gesto fulmineo serrare nel cavo della mano la preda alata che turbinava intorno al lume senza posarsi. Corrugava i sopraccigli; e pareva si tendesse come un arco, pronta allo scatto. Due o tre volte scattò, ma inutilmente. La farfalla era inafferrabile.

- Datti per vinta - disse Giorgio. - Sarò discreto.

- No.

- Datti per vinta.

- No. Guai se la prendo.

Ed ella seguitò la caccia, con una pazienza fremente.

- Oh, è volata via! - esclamò Giorgio, perdendo di vista l'agile adoratrice della fiamma. - È fuggita.

Ippolita si levò con dispetto vero, accesa veramente dalla scommessa; e girò lo sguardo acuto intorno per scoprire la fuggitiva.

- Eccola! - gridò trionfante. - , sul muro. Vedi?

E mostrò di pentirsi del grido.

- Non ti muovere - soggiunse a bassa voce, rivolta verso il compagno.

La farfalla s'era posata sul muro luminoso; e rimaneva immobile, simile a una piccola macchia bruna. Ippolita le s'accostava con infinita cautela; e il suo bel corpo snello e flessibile si disegnava in ombra su lo stesso muro bianco. Rapida la mano si levò, strisciò afferrando.

- È mia! L'ho nel pugno.

E una infantile allegrezza l'agitava.

- Ora che ti farò? Te la metterò nel collo. Sei anche tu in mio potere.

E accennava a eseguir la minaccia, come nel giorno della corsa su per la collina.

Giorgio rideva, conquistato dalla spontaneità di quell'allegrezza che suscitava in lui quanto di giovine non era ancor perito.

- Via, - pregò - ora siediti; e mangia i tuoi frutti in pace.

- Aspetta, aspetta.

- Che vuoi fare?

- Aspetta.

Ella si tolse lo spillo che le fermava il garofano nei capelli, e se lo pose tra le labbra. Poi pianamente aprì il pugno, prese la farfalla per le ali; e si accinse a trafiggerla.

- Che crudeltà! - disse Giorgio. - Come sei crudele!

Ella sorrise, intenta all'opera, mentre la piccola vittima batteva le ali già sfiorite.

- Come sei crudele! - ripeté Giorgio, con un accento più sommesso ma più grave, considerando nel volto d'Ippolita un'espressione ambigua tra di compiacenza e di ripugnanza, che pareva significare com'ella trovasse uno speciale gusto nel pungere e nel premere la sua propria sensibilità artificialmente.

Egli credeva ch'ella avesse manifestato appunto il gusto morboso di una simile irritazione in alcuni dei casi occorsi. Non un sentimento puro di misericordia aveva occupato il cuore di lei innanzi all'agonia del bimbo su l'aia, innanzi alle lacrime e al sangue dei pellegrini nel Santuario. Ed egli, nella memoria, anche la rivedeva accelerare il passo verso il gruppo dei curiosi chini contro il parapetto del Pincio a distinguere le tracce lasciate sul lastrico dal suicida.

«La crudeltà è latente in fondo al suo amore» egli pensò. «Qualche cosa di distruttivo è in lei, più palese quanto più forte è il suo orgasmo nelle carezze...» E rivedeva, nella memoria, l'imagine terrifica e quasi gorgònea della donna quale più volte era apparsa, tra le palpebre socchiuse, a lui convulso in uno spasimo o inerte in uno sfinimento estremo.

- Guarda! - ella gli disse, mostrandogli la farfalla trafitta che ancóra agitava le ali. - Guarda come le brillano gli occhi!

E la opponeva in varii modi alla luce con l'atto di chi voglia suscitare le iridi in una gemma.

- È un bel fermaglio - soggiunse; e se l'appuntò ne' capelli, con un gesto leggero.

Poi, guardando Giorgio in fondo alle pupille:

- E tu sempre pensi, pensi, pensi! Ma a che pensi? Prima, almeno, parlavi; e forse anche troppo. Ora sei diventato taciturno, con un'aria di mistero e di congiura... Hai qualche cosa contro di me? Parla, anche se devi farmi male.

Il suo accento era d'impazienza e di rimprovero, mutato a un tratto. Ella s'accorgeva, anche una volta, che l'amante non era stato se non uno spettatore riflessivo e solitario, un osservatore vigile e forse ostile.

- Parla, dunque! Meglio le cattive parole d'un tempo che questo silenzio misterioso. Che hai? Sei scontento d'essere qui? Sei infelice? La mia presenza continua ti affatica? Ti ho deluso?

Assalito di fronte e all'improvviso, egli s'inasprì ma contenne l'acredine; anzi cercò di sorridere.

- Perché mi fai queste domande strane? - egli disse con calma. - Ti fastidio forse il mio pensiero? Penso, come sempre, a te e alle cose che ti toccano.

Sùbito soggiunse con un sorriso dolce, per tema ch'ella sentisse un'ombra d'ironia nelle sue parole.

- Tu rendi il mio spirito fecondo. È così piena la mia vita interna, quando io mi trovo davanti a te, che mi dispiace il suono della mia voce.

Ella s'appagò di quelle parole affettate che sembravano inalzarla a un officio spirituale, rivelarla creatrice di una vita superiore. L'espressione del suo volto divenne grave, mentre ne' suoi capelli la farfalla notturna batteva le alette con una rapidità incessante.

- Lasciami tacere, senza sospetti - egli continuò, già consapevole del mutamento operato dal suo artifizio nell'anima feminile che le idealità dell'amore affascinavano ed esaltavano. - Lasciami tacere. Forse chiedi tu che io parli quando mi vedi morire sotto la carezza che prediligi? Ebbene, non la tua bocca soltanto ha la potenza di produrre in me sensazioni che trascendono ogni limite conosciuto. Tu produci in me, d'ora in ora, anche eccessi di sentimento ed eccessi di pensiero. Tu non potrai mai imaginare quali turbini susciti nel mio cervello una sola delle tue attitudini visibili. Non potrai mai imaginare quali spettacoli apra dentro di me il più lieve de' tuoi gesti. Mentre tu ti muovi, mentre tu parli, io assisto a una successione di prodigi. Talvolta tu mi dài come il ricordo di una vita che io non ho mai vissuta. Immensità di tenebre s'illuminano d'improvviso e mi rimangono come conquiste insperate. Che sono allora il pane, il vino, i frutti, tutte queste cose materiali con cui comunicano i miei sensi? Che sono le operazioni stesse dei miei organi, le manifestazioni esterne della mia esistenza corporea? Quasi mi sembra che, parlando la mia bocca, non debba giungere il suono della mia voce nelle profondità dove io vivo. Quasi mi sembra che io debba rimanere immobile e muto per non turbare la mia visione, mentre tu passi continuamente trasformandoti attraverso mondi che tu medesima hai rivelato...

Egli parlava con lentezza, guardando Ippolita fiso, come incantato da quel volto straordinariamente luminoso che incoronavano i capelli più cupi e più profondi della notte, in mezzo ai quali una cosa viva e moritura metteva un bàttito incessante. Quel volto, ch'era così vicino e che a lui pareva intangibile, e gli oggetti sparsi su la mensa, e gli alti fiori purpurei, e quel turbinìo di lievi forme alate intorno alla sorgente della luce, e la pura calma che scendeva dalle stelle, e il respiro musicale che saliva dal mare, e tutte insomma le apparenze che si riflettevano nella sua sensibilità, tutte erano per lui apparenze di sogno. La sua persona medesima, la sua voce medesima erano fittizie. La successione dei suoi pensieri e delle sue parole si produceva in un modo facile e vago. Come nella notte lunare al cospetto della vigna oltremirabile, ora la sostanza della sua vita e della vita di tutte le cose dissolvevasi in vapore di sogno.

 

 

 

II

 

Di sotto alla tenda piantata su la ghiaia, ancóra seminudo dopo il bagno egli guardava Ippolita ch'era rimasta al sole presso le acque avvolta nell'accappatoio bianco. Guardando, egli aveva negli occhi a tratti scintillazioni quasi dolorose; e la gran luce meridiana gli dava un senso nuovo di malessere fisico misto a una specie di vago sgomento. Era l'ora terribile, l'ora pànica, l'ora suprema della luce e del silenzio, imminente su la vacuità della vita. Egli comprendeva la superstizione pagana: l'orrore sacro dei meriggi canicolari su la plaga abitata da un dio immite ed occulto. In fondo a quel suo vago sgomento si moveva qualche cosa di simile all'ansietà di chi sia nella attesa di un'apparizione repentina e formidabile. Pareva egli a sé stesso quasi puerilmente debole e trepido, come diminuito d'animo e di forze dopo una prova sfavorevole. Immergendo il suo corpo nel mare, dando la fronte al sole pieno, percorrendo a nuoto una breve distanza, esperimentandosi nell'esercizio già prediletto, misurando il suo respiro sul soffio dello spazio illimitato, egli aveva sentito per indizii indubitabili l'impoverimento del suo vigore, la declinazione della sua giovinezza, tutta l'opera distruttiva della Nemica; aveva sentito ancóra una volta il ferreo cerchio restringersi intorno alla sua attività vitale e ridurne ancóra una zona all'inerzia e all'impotenza. Il senso di quel languore muscolare gli diveniva più profondo come più egli guardava la figura della donna alzata nella luce del giorno.

Ella aveva disciolti i suoi capelli perché si asciugassero; e le ciocche ammassate dall'umidità le cadevano su gli òmeri così cupe che sembravano quasi di viola. Il suo corpo svelto ed eretto, come avvolto nelle pieghe di un peplo, si disegnava metà sul campo glauco del mare e metà su la chiarissima trasparenza celeste. Appena si scorgeva fuor della capellatura il profilo della faccia reclinata e intenta. Ella era tutta assorta in un suo piacere alterno: - metteva i piedi nudi su la ghiaia scottante, mantenendoveli sin che fosse per lei sostenibile l'ardore; e poi così caldi li tuffava nell'acqua blanda che lambiva la ghiaia. E in quella duplice sensazione ella pareva gustare una voluttà infinita, obliosamente. - Ella si temprava, si fortificava, comunicando con le cose libere e sane, lasciandosi penetrare dalla salsedine e dal raggio. Come mai poteva ella essere, nel tempo medesimo, così inferma e così valida? Come mai poteva ella conciliare nella sua sostanza tante contrarietà e assumere tanti diversi aspetti in un giorno, in un'ora sola? La donna taciturna e triste che covava dentro di sé il male sacro, il morbo astrale; l'amante cupida e convulsa il cui ardore era talvolta quasi spaventevole, la cui lussuria aveva talvolta apparenze quasi lugubri d'agonia; quella stessa creatura, alzata sul lido del mare, poteva raccogliere e sostenere ne' suoi sensi tutta la naturale delizia sparsa nelle cose che la circondavano, apparire simile ai simulacri della Bellezza antica inchinati sul cristallo armonioso di un ellesponto.

La superiorità di quella resistenza era palese. Giorgio la considerava con un rammarico che a poco a poco addensandosi assumeva la gravità di un rancore. Il sentimento della sua debolezza s'intorbidava di odio, mentre la sua perspicacia si faceva sempre più lucida e quasi vendicativa.

Non erano belli i piedi nudi ch'ella a volta a volta scaldava su la ghiaia e rinfrescava nell'acqua; erano anzi difformati nelle dita, plebei, senz'alcuna finezza; avevano l'impronta manifesta della bassa stirpe. Egli li guardava intentamente; non guardava se non quelli, con uno straordinario acume di percezione e di esame, come se le particolarità della forma dovessero rivelargli un segreto. E pensava: «Quante cose impure fermentano nel suo sangue! Tutti gli istinti ereditarii della sua razza sono in lei, indistruttibili, pronti a svilupparsi e ad insorgere contro qualunque constrizione. Io non potrò mai far nulla per purificarla. Io non potrò se non sovrapporre alla realità della sua persona le figure mutevoli dei miei sogni, ed ella non potrà se non offrire alla mia ebrezza solitaria i suoi indispensabili organi...» Ma, mentre il suo pensiero riduceva la donna a un semplice motivo d'imaginazioni e toglieva ogni valore alla forma palpabile, per la stessa acutezza della percezione particolare egli sentiva d'esser legato appunto alla qualità reale di quella carne e non solo a quanto eravi di più bello, ma specialmente a quanto eravi di men bello in lei. La scoperta d'una bruttura non rallentava il vincolo, non diminuiva il fascino. I lineamenti più volgari esercitavano su di lui un'attrazione irritante. Egli conosceva bene questo fenomeno che s'era più volte ripetuto. I suoi occhi più volte avevano visto con estrema chiarezza nella persona d'Ippolita emergere i difetti anche men notevoli; e n'eran rimasti attratti per lungo tempo, quasi forzati a fissarli, a considerarli, ad esagerarli. Ed egli aveva provato nei suoi sensi e nel suo spirito un turbamento indefinibile, seguìto quasi sempre dall'insorgere subitaneo d'un desiderio impetuoso. Era ben questo il più fiero segno della grande ossessione carnale operata da una creatura umana su un'altra creatura umana. Obediva a una simile malìa quell'amante innominato che amava sopra tutte le cose nella sua donna i segni impressi dagli anni sul collo pallido e la riga de' capelli ogni giorno più larga e la bocca appassita ove il sale delle lacrime scendeva a rendere più durevole il sapore dei baci.

Egli pensò la fuga degli anni, la catena ribadita per sempre dall'abitudine, l'immensurabile tristezza dell'amore divenuto un vizio stanco. Vide sé stesso, nel futuro, legato a quella carne come il servo al suo ferro, privo di volontà e di pensiero, istupidito e vacuo; e la concubina sfiorire, invecchiare, abbandonarsi senza resistenza all'opera lenta del tempo, lasciar cadere dalle sue mani inerti il velo lacerato delle illusioni ma conservar tuttavia il suo potere fatale; e la casa deserta, desolata, silenziosa, aspettante l'estrema visitatrice Morte...

Gli vennero alla memoria i gridi dei piccoli bastardi, ch'egli aveva udito nella casa del padre in quel pomeriggio remoto. Pensò: «Ella è sterile. Il suo ventre è colpito di maledizione. Ogni germe vi perisce come in una fornace ardente. Ella inganna e delude in me, di continuo, il più profondo istinto della vita.» L'inutilità del suo amore gli apparve come una trasgressione mostruosa alla suprema legge. - Ma perché dunque il suo amore, non essendo se non una lussuria inquieta, aveva quel carattere di fatalità ineluttabile? Non era l'istinto di perpetuazione il motivo unico e vero d'ogni amor sessuale? Non era questo istinto cieco ed eterno l'origine del desiderio e non doveva il desiderio avere, occulto o palese, lo scopo generativo imposto dalla Natura? Perché dunque egli era legato alla donna sterile da un vincolo così forte? Perché dunque la terribile «volontà» della Specie si ostinava in lui con tanto accanimento a richiedere, a strappare il tributo vitale da quella matrice devastata già dal morbo, incapace di concepire? - Mancava al suo amore la ragion prima: l'affermazione e lo sviluppo della vita di dai limiti dell'esistenza individua. Mancava alla donna amata il più alto mistero del sesso: «la sofferenza di colei che partorisce». La miseria di entrambi proveniva appunto da questa mostruosità persistente.

- Perché tu non prendi sole? - chiese Ippolita d'un tratto volgendosi verso di lui. - Vedi quanto resisto io? Voglio diventare veramente come tu dici: come l'oliva. Ti piacerò?

Ella si accostava alla tenda, sollevando con le mani i lembi della sua tunica prolissa, mostrandosi molle e quasi leziosa negli atti, come presa da un languore subitaneo.

- Ti piacerò?

Curvandosi un poco, ella entrava nella tenda. Sotto l'abondanza delle pieghe nivee il suo corpo magro e flessibile si moveva con una grazia felina, emanando un calore e un odore che alla turbata sensibilità del giovine parvero singolarmente acuti. E, mentre ella si allungava su la stuoia a fianco di lui, le piovevano intorno al volto avvampato i capelli ancóra umidi di salsedine, per mezzo a cui riluceva il bianco degli occhi e la bocca rosseggiava simile al frutto tra le frondi.

- Mi vuoi... come l'oliva?

Ella aveva un'ombra nella voce, quale sul volto, quale nel sorriso; un'ombra infinitamente misteriosa e affascinante. Pareva ch'ella intuisse nel giovine l'ostilità segreta e si accingesse a trionfarne.

- Che guardi? - domandò quasi di scatto, trasalendo. - No, no, non guardare! Sono brutti.

E ritrasse i piedi, li nascose tra le pieghe.

- No, no, non voglio.

Ed ebbe un momento di dispetto e di vergogna: si accigliò, come se avesse sorpreso nello sguardo di lui una scintilla della verità crudele.

- Cattivo! - ella soggiunse, dopo un momento, con un tono ambiguo tra di gioco e di rancore.

Egli disse, un po' convulso:

- Tu sai che per me sei tutta bella.

E fece l'atto di trarla a sé, offrendole un bacio.

- No. Aspetta. Non guardare!

Ella si scostò da lui, strisciò verso un angolo della tenda; rapidamente, con atti furtivi, si mise le lunghe calze di seta nera; poi si volse, impudica, con su le labbra un sorriso indefinibile. E, sotto gli occhi di lui tendendo l'una e l'altra gamba perfette nelle loro lucide guaine, chiuse le giarrettiere su l'uno e su l'altro ginocchio. Qualche cosa di volontariamente procace era nel suo gesto; e una sottil punta d'ironia era nel suo sorriso. E quella muta e terribile eloquenza prendeva per il giovine questa significazione distinta: «Io sono sempre l'invitta. Tu hai conosciuto sul mio corpo tutti i godimenti di cui ha sete il tuo desiderio senza fine; ed io mi vestirò delle menzogne che senza fine produrrà il tuo desiderio. Che mi fa la tua perspicacia? Io posso in un attimo ritessere il velo che tu hai lacerato; posso in un attimo rifasciarti della benda che tu hai tolta. Sono più forte del tuo pensiero. Io so il segreto delle mie trasfigurazioni nella tua anima. Io so i gesti e le parole che hanno la virtù di trasfigurarmi in te medesimo. L'odore della mia pelle può dissolvere in te un mondo

Un mondo si dissolveva in lui mentre ella gli si appressava, serpentina e insidiosa, allungandoglisi al fianco su la stuoia di giunchi. Ancóra una volta la realtà si convertiva confusamente in una favola piena d'imagini allucinanti. Il riverbero del mare empiva d'un tremolìo d'oro la tenda, mescolava mille pagliuzze d'oro ai fili del tessuto. Appariva per l'apertura l'immensità della calma, la grande immobilità delle acque sotto il quasi lugubre fulgore. E a poco a poco anche quelle apparenze vanirono. Nel silenzio egli non udì se non il ritmo del suo proprio sangue; nell'ombra egli non vide se non i due grandi occhi fissi sopra di lui con una specie di furia. Ella lo avviluppava intero, con un contatto molteplice, quasi ch'ella partecipasse della qualità d'una nube. Ed egli respirò, da tutti i pori di quella pelle ardente, la fragranza marina: come la sublimazione d'un sale a traverso una fiamma. E nel folto di quella capellatura ancóra umida trovò il mistero delle foreste di alghe più remote. E, nello smarrimento finale della conoscenza, credette di toccare il fondo di un abisso battendo l'occipite su la roccia...

Udì, poi, come di lontano, tra un fruscio di vesti, la voce d'Ippolita che diceva:

- Vuoi rimanere ancóra qui un poco? Dormi?

Aprì gli occhi; mormorò, trasognato:

- No, non dormo...

- Che hai?

- Muoio.

Egli tentò di sorridere. Travide la bianchezza dei denti nel sorriso di lei.

- Vuoi che ti aiuti a vestirti?

- Ora mi vesto. Va, va... Ora ti raggiungo - egli mormorò, come sonnacchioso.

- Allora io vado su. Ho troppa fame. Vèstiti e vieni.

- Sì, ecco...

Egli sussultò forte, sentendo all'improvviso le labbra di lei su le sue labbra. Aprì di nuovo gli occhi; tentò di sorridere.

- Pietà!

Udì cricchiare la ghiaia sotto il passo che si allontanava. Il gran silenzio rioccupò la spiaggia. Ad intervalli giungeva dal lido e dagli scogli prossimi uno sciacquìo fievole: un lieve suono simile a quello che producono nell'abbeveratoio gli animali dissetandosi.

Passarono alcuni minuti, in cui egli lottò contro l'estenuazione che stava per mutarsi in letargo. Con uno sforzo si levò finalmente a sedere; scosse il capo per fugare la nebbia; si guardò intorno, smarrito. Provava per tutto l'essere uno strano senso di vacuità; non sapeva coordinare i suoi pensieri; quasi non poteva più pensare, né poteva compiere un qualunque atto senza uno sforzo enorme. Gittò uno sguardo fuori della tenda; e di nuovo fu invaso dall'orrore della luce. «Oh se, ricoricandomi, potessi non alzarmi più! Morire! Non rivederla più!» Troppo gli era grave la certezza di dover rivedere fra pochi minuti la donna, di doversi ritrovar con lei, di doverne ancóra ricevere i baci, di doverne ancóra udire le parole.

Esitò prima di cominciare a vestirsi. Alcuni pensieri folli gli balenarono nel cervello esausto. Macchinalmente, si vestì. Uscì fuori della tenda, serrando gli occhi al barbaglio. Vide un gran chiarore rosso a traverso il tessuto delle palpebre; ebbe una leggera vertigine.

Una sensazione intraducibile gli diede lo spettacolo delle cose intorno, quando egli riaprì gli occhi. Gli parve come s'egli rivedesse quelle cose in una esistenza diversa, dopo un tempo indefinito.

La ghiaia sotto la sferza del sole aveva la bianchezza della calce. Su l'immenso lugubre specchio delle acque il cielo incandescente sembrava d'attimo in attimo abbassarsi aggravato da uno di quei cupi silenzii che accompagnano l'aspettazione d'una catastrofe ignota. I promontorii arenarii, con i loro gironi deserti, su da le scogliere nerastre levavano a guisa di torri i culmini arborati ove gli olivi stavano contro il fuoco in attitudini d'ira e di follia. Proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il Trabocco aveva un aspetto formidabile. Per mezzo all'intrico delle travi e dei cordami apparivano i pescatori chini verso le acque, fissi, immobili come bronzi. E pesava su le loro tragiche vite l'incanto mortale.

D'improvviso, nell'ardore e nel silenzio, giunse agli orecchi del giovine la voce della donna che dall'alto dell'Eremo chiamava.

Egli si scosse e si volse, con una palpitazione soffocante. La voce ripeté il richiamo, limpida e forte, quasi che volesse affermare il suo potere.

- Vieni!

Com'egli saliva su per la costa, dalla bocca fumida d'una delle gallerie si propagò per l'aria un rombo ripercotendosi nell'insenatura. Egli s'arrestò presso il binario, di nuovo provando una leggera vertigine, mentre gli balenava nel cervello vanito un pensiero folle. «Coricarsi ora a traverso le rotaie... La fine di tutto in un attimo

Fragoroso, veloce e sinistro, il treno passò gittandogli in faccia il vento della corsa; e fischiando e rombando scomparve nella bocca della galleria opposta, che fumigò nera nel sole.

III

I canti dei mietitori e delle spigolatrici si alternavano, dall'alba al vespro, giù per i fianchi della collina feconda. I cori maschili celebravano, con una veemenza bacchica, la gioia dei larghi pasti e la bontà del vino annoso. Per gli uomini della falce, tempo di mietitura era tempo di larghezza. D'ora in ora, dall'alba al vespro, secondo il costume antico, interrompevano l'opera per mangiare e per bere su la stoppia, tra i covoni recenti, in gloria del liberale signore. E ciascuno toglieva dalla sua scodella tanto di cibo che bastasse a sfamare una spigolatrice. Così, nell'ora del mangiare, Booz aveva detto a Rut Moabita: - Accostati qua, e mangia del pane, ed intigni il tuo boccone nell'aceto - ; e Rut s'era posta a sedere allato ai mietitori e s'era sazia.

Ma i cori feminili si prolungavano in cadenze quasi religiose, con una dolcezza lenta e solenne, rivelando la santità originale dell'opera frumentaria, la primitiva nobiltà di quell'officio in cui il sudore degli uomini consacrava su la terra paterna il nascimento del pane.

Li udiva Giorgio e li seguiva con l'anima in ascolto; e un benefizio insperato si spandeva a poco a poco su lui. Pareva che a poco a poco la sua anima si sollevasse in un'aspirazione sempre più larga e più serena come più pura diveniva l'onda del canto propagandosi nei pomeriggi ancóra torridi ove la speranza della sera pacificatrice incominciava a diffondere una specie di calma estatica. Era una rinnovellata aspirazione verso le fonti della vita, verso le Origini. Era forse l'ultimo sussulto della sua giovinezza ferita nell'intimo della potenza sostanziale; era l'estremo anelito verso la riconquista d'un bene omai perduto per sempre.

Il tempo della mietitura volgeva al suo termine. Passando egli lungo i campi mietuti, intravedeva certe belle usanze che sembravano riti d'una liturgia georgica. Si soffermò, un giorno, presso un campo già raso ove i mietitori avevano già composta l'ultima bica; e assistette alla cerimonia.

Alle cose affaticate dall'ardore diurno soprastava l'ora limpida e dolce che doveva raccogliere nella sua sfera di cristallo le ceneri impalpabili del giorno consunto. Il campo si disegnava in parallelogrammo su un pianoro cinto di olivi giganteschi a traverso i cui rami appariva la zona cerulea dell'Adriatico misteriosa come il velario intravisto dietro le sacre palme d'argento nel tempio. Le alte biche sorgevano a eguali intervalli, in forma di coni, dense e splendide di ricchezza adunata dalle braccia degli uomini, magnificata dal canto delle donne. Nel centro del campo la torma dei mietitori faceva cerchio intorno al suo capo, avendo fornita l'opera. Erano uomini membruti, adusti, vestiti di lino. Nelle braccia, nelle gambe, nei piedi ignudi avevano le deformità che la lunga e lenta pazienza delle fatiche alle membra esercitate. Riluceva nel pugno di ciascun uomo la falce, ricurva e sottile come il primo quarto della luna. Di tratto in tratto essi con un gesto semplice della mano libera si tergevano il sudore aspergendone il suolo ove ai raggi obliqui brillava la stipula.

Fece quel medesimo gesto il capo; e, levando quindi la mano in atto di benedire, esclamò nel sonoro idioma ricco di ritmi e di assonanze:

- Lasciamo il campo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo!

Gli uomini della falce, in coro, con alto grido risposero:

- Amen.

E il capo riprese:

- Benedetto sia il nostro signore e benedetta la signora nostra!

Gli uomini risposero:

- Amen.

E il capo, rinforzando a grado a grado la voce ed accendendosi:

- Benedetto sia chi ci portò il buon mangiare!

- Amen.

- Sia benedetto chi disse: «Non mettere acqua nel vino del mietitore

- Amen.

- Sia benedetto il padrone che disse alla padrona: « senza misura, e metti la sapa nel vino del mietitore

- Amen.

Le benedizioni si spandevano su tutti i prossimi: su colui che aveva ucciso la pecora, su colui che aveva lavato gli erbaggi e i legumi, su colui che aveva forbito il vaso di rame, su colui che aveva sparso di spezie le vivande. Il benedicente, infiammato d'entusiasmo, agitato come da un estro poetico repentino, trovava le assonanze e si esprimeva all'improvviso in distici. La torma gli rispondeva con immensi clamori che echeggiavano per tutti i seni, mentre nel ferro delle falci si accendevano i baleni vesperali e sul culmine delle biche il covone alzato pareva una fiamma.

- Sieno benedette le donne che cantano la bella canzone portando i boccali del vino annoso!

- Amen.

Fu come un tuono di gioia. Poi tutti tacquero e guardarono appressarsi il coro delle donne portatrici dell'ultima liberalità sul campo falciato.

Cantavano le donne, in duplice fila, reggendo su le braccia i grandi vasi dipinti. E all'estraneo spettatore - che le vedeva procedere fra i tronchi degli ulivi come per intercolunnii su lo sfondo del mare - davano imagine d'una di quelle teorie votive che si svolgono armoniosamente in basso rilievo su i fregi dei templi o intorno ai sarcofaghi.

L'imagine di bellezza lo accompagnò pel sentiere quando egli si mosse verso l'Eremo. Egli pensava, in tal compagnia, camminando piano fra i prestigi del vespero ove tante onde corali fluttuavano; pensava: «Il sentimento religioso della gioia di vivere; il culto profondo della Natura madre eternamente creatrice ed eternamente lieta della sovrabbondanza di sue forze; la venerazione e l'entusiasmo per tutte le energie fecondanti, generative e distruttive; l'affermazione violenta e tenace dell'istinto agonistico, dell'istinto di lotta, di predominio, di sovranità, di potenza egemonica: non erano questi i cardini incrollabili su cui si reggeva l'antico mondo ellenico nel suo periodo ascensionale? Era radicato nella sostanza dell'Ellèno l'originario senso omerico della vita. L'energico Ellèno - a similitudine dei guerrieri celebrati nell'esametro sonante, i quali accoglievano sempre «con lo stesso allegro saluto il tuono ed i raggi del Sole» - dava pur sempre «lo stesso allegro saluto» al Bene e al Male, non ad altro anelando se non ad espandere la sua esuberanza e ad esercitare con efficacia il suo nativo istinto di dominazione. Egli sapeva trovare pur nell'atto terribile, pur nella sofferenza una fiera gioia. Pur nell'errore, pur nel dolore, pur nel supplizio egli non riconosceva se non il trionfo della Vita. Il patimento per lui era uno stimolo, producendo in lui l'effetto di quei farmachi i quali eccitano accelerano aumentano le azioni organiche da cui risulta la potenza dell'essere. Dal profondo del suo sentimento tragico non sorgeva l'aspirazione a liberarsi d'ogni terrore e d'ogni pietà, l'aspirazione a una catarsi finale, ma sì bene - come Federico Nietzsche ha intuito - l'aspirazione ad essere egli medesimo l'eterna gioia del Divenire, sopra ogni terrore ed ogni pietà: ad essere egli medesimo tutte le gioie, non escluse quelle terribili, non esclusa quella della distruzione. Il solo filosofo degno di lui fu Eraclito d'Efeso; che, a simiglianza della Sibilla, «parlando con labbro ispirato, senza sorriso senza ornamento e senza profumo, passa a traverso i secoli nella potenza del dio». L'idea della evoluzione, dello scorrere perpetuo di tutte le cose, dell'infinita mutabilità cosmica - l'idea stessa fondamentale della filosofia moderna - splende nel suo aforisma figurato: «Nessuno fu mai due volte su la medesima corrente. Anzi, fin anco il passeggero è senza identità. Noi c'imbarchiamo e non c'imbarchiamo su la stessa corrente; giacché siamo e non siamo.» L'ammaestrato da sé, considerando l'Universo, lo conobbe nell'aspetto non d'una entità stabile ma d'un continuo processo di formazione e di trasformazione; nel quale nulla era durevole fuor che l'ignea energia operante secondo un ordine razionale per un eterno succedersi di cicli. Egli conobbe che in ogni attimo lo stato dell'Universo non era se non l'espressione d'un accordo transitorio delle forze pugnaci e che l'apparenza del riposo o della morte non era se non una attività impercettibile pei sensi dell'uomo. Tutte le cose, davanti agli occhi del suo intelletto, passavano dalla nascita all'essere visibile e quindi al non essere, per innumerevoli varietà di vita, con un flusso ora tardo ora veloce in cui egli non discerneva principio, non iscopriva fine. - L'Ellèno dunque, per la sua veemente volontà di vivere esercitata con la maggior possibile abondanza di manifestazioni, non faceva se non immedesimarsi nella natura delle cose. Tra gli scopi della sua esistenza individua e il processo cosmico non eravi conflitto alcuno. Come nelle Dionisie egli celebrava la perpetuità della vita, il ritorno perpetuo delle forze trasformate, e venerava con sentimento religioso dinanzi al simbolo del Sesso il gran mistero genitale - così nella Tragedia, che è appunto di origine dionisiaca e collegata a quelle feste, non aspirava se non ad essere egli medesimo l'eterna voluttà del Divenire...»

Si arrestò Giorgio a una svolta del sentiero udendo approssimarsi una voce canora che gli parve di riconoscere. Ed ebbe, nel riconoscerla, un moto spontaneo di allegrezza. Era la voce di Favetta, della giovine cantatrice dagli occhi di falco: la soprana voce che sempre risvegliava in lui la memoria del gaudioso mattino di maggio raggiante sul laberinto delle ginestre, su l'ermo giardino d'oro, ove egli attonito aveva creduto di scoprire il segreto della Gioia.

Non sospettando la presenza dello straniero nascosto dalla siepe, Favetta si avanzava conducendo per la fune una vacca. Ella nel cantare teneva la testa alta, la bocca dischiusa verso il cielo, tutta la faccia nella luce; e il canto scaturiva dalla sua gola fluido limpido cristallino come una polla. Dietro di lei la bella bestia nivea camminava con mansuetudine, e ad ogni passo le ondeggiava la giogaia e le penzolava tra le gambe il gruppo delle mammelle rifornite di latte dalla pastura.

Come scorse lo straniero, la cantatrice s'interruppe e fece l'atto di sostare.

- Oh Favetta! - egli esclamò andandole incontro con un'aria festosa, come se rivedesse un'amica del tempo felice. - Dove vai?

Ella arrossì nel sentirsi chiamar per nome e sorrise peritandosi.

- Riconduco la vacca alla stalla - rispose.

Poiché ella aveva rattenuto il piede a un tratto, le froge della bestia le sfioravano la schiena. Il suo busto gagliardo sorgeva tra le due alte corna come nel vano d'una cetra lunata.

- Sempre canti tu! - le disse Giorgio, ammirandola in quell'atto. - Sempre!

- Eh, signore, - ella fece sorridendo - se ci levi il canto, che ci rimane?

- Ti ricordi tu di quella mattina che cogliesti il fiore delle ginestre?

- Il fiore delle ginestre per la tua sposa?

- Sì. Te ne ricordi?

- Me ne ricordo.

- Ricantami quella canzone!

- Sola non la posso cantare.

- Cantamene un'altra:

- Così, ora, davanti a te? Mi vergogno. Canterò in cammino. Addio, signore.

- Addio, Favetta.

Ed ella seguitò pel sentiere, traendo la bestia tranquilla. Dopo qualche passo, intonò la canzone con tutta la forza della sua voce, dominando a torno i luoghi luminosi.

Una luce straordinariamente viva diffondevasi per le coste e sul mare, appena tramontato il sole; un'immensa onda di oro impalpabile saliva dal cielo occidentale al sommo e declinava verso la plaga opposta penetrandone con estrema lentezza la trasparenza glauca. L'Adriatico diveniva a grado a grado più chiaro e più dolce, pendendo in quel colore che hanno le prime foglie dei salici su i novelli virgulti. Soltanto le vele rosse, nobili come se fossero di porpora, interrompevano la chiarità diffusa.

«È una Festapensava Giorgio, abbagliato dallo splendore dell'occaso, intorno intorno sentendo palpitare la gioia della vita. «Dove respira la creatura umana a cui tutto il giorno dall'alba al tramonto è una Festa consacrata da una conquista nuova? Dove vive il dominatore - il coronato dalla corona del riso, da quella corona di rose ridenti della quale parla Zarathustra - il dominatore forte e tirannico, franco dal giogo di ogni falsa moralità, sicuro nel sentimento della sua potenza, convinto che l'essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii, determinato ad elevarsi sopra il Bene e sopra il Male per la pura energia del suo volere, capace pur di costringere la vita a mantenergli le sue promesse

I canti del rinato pane per la collina continuavano, si alternavano. Apparivano su le pendici le lunghe teorie feminili e si dileguavano. Qua e , da fuochi invisibili, sorgevano colonne di fumo lentissime nell'aria senza vento. Tutto lo spettacolo si faceva solenne e sembrava retrocedere nel mistero di un secolo remoto, nella santità d'una celebrazione di Dionisie rurali.

«È questa la stessa gente che pur ieri si trascinava piangendo su la pietra consunta del Santuario e la segnava di croci con la lingua sanguinante?» Egli paragonava i due spettacoli e i due cori che gli rivelavano un senso religioso assai diverso, com'erano diverse la trista chiesa dei Miracoli e quella immensa cupola dorata dal più ricco oro crepuscolare. Sotto l'influsso dell'ideale ascetico invocato dalla sua estenuazione, egli aveva voluto esperimentare il contatto con la moltitudine degli iconolatri sperando di poter riprofondare le radici nell'infimo strato della sua razza e di ricuperare così la sua sostanza primiera. Ma quella sua tendenza a risalir verso le Origini non doveva piuttosto esser diretta a rintracciar nella sua stessa razza i principii d'una virtù vitale oltrapossente e oltrapiacente le cui vestigia gli si scoprivano pur in quel giorno, pur in quell'ora?

Ed egli ricordò l'antichissimo nome della sua città natale, il gran nome solare: Aelion, «Aelion urbs florens atque vetusta simul» com'era laudata nell'elegia di Menenio Aleieo poeta d'insigne stirpe romulea. E rivide la nobile città di pietra con le sue torri millenarie, la fiera Guardia posta a fianco della Maiella, della montagna madre, del gran ceppo incrollabile. A lei, nella cerimonia della fondazione, il sacerdote aveva pregata la fortuna rivolto verso il Sole nascente, consumandosi la vittima su l'ara con profumo di lauro e di mirto; e i guerrieri avevan segnato i confini con liste di panno candido in cima alle aste infisse nel terreno.

Guardia plena bonis fert ardua signa leonis.

Nel suo scudo era il Leone, in memoria dell'impresa di Ercole adorato dal popolo prisco. E i leoni di marmo, che su le groppe avevan sorretto le colonne del tempio dedicato al dio tutelare, ora giacevano presso i pilastri nel portico di Santa Maria Maggiore, nel portico degli aristocrati, il cui accesso era riserbato ai Cavalieri.

Sotto quel portico aperto in vista delle convalli fertili e dell'Adriatico lontano, sotto quel portico bruno che riceveva il primo saluto del Sole, erano scolpite le insegne dei nobili: degli Orsini, degli Ugni, degli Aurispa, degli Scioli, degli Stella, dei Vallereggia, dei Cassaura, dei Palleaurea, degli Spina, dei Comino. Il sentimento della potenza aveva avuto quivi il suo posto d'onore; il privilegio eravi fiorito dal tepor del sangue sparso. Tutti quegli uomini forti non avevano avuto altro intento se non d'espandere e d'imporre il loro istinto profondo di predominio. La loro morale, come quella dell'Ellèno, aveva la radice nella sovrana concezione della loro dignità e tendeva alla glorificazione superba della vita.

 

Guardia plena bonis fert ardua signa leonis.

 

E Giorgio Aurispa si ricordò delle parole di Zarathustra: «Quando il cuor vostro palpita nella sua maggior pienezza e sta per traboccare - simile al fiume, benedetto e temuto dagli abitatori dell'argine - ivi è la fonte della vostra virtù

Quante volte aveva egli provata la sensazione di quella pienezza? Quante volte aveva egli sentito diffondersi in tutta la sua sostanza la voluttà dell'energia? - Gli tornavano alla memoria episodii lontani ne' quali egli credeva di rinvenire il fantasma d'una tale gioia. E le sue aspirazioni fittizie verso l'ideale «dionisiaco», verso la vita «ascendente» prendevano forma nelle parole del discepolo al Maestro distruttore e creatore. «In verità, mille sguardi oggi si volgono verso la tua montagna e verso il tuo cedro. Un desiderio ardente s'è levato e messo in cammino. E già molti appresero a dimandare: - Chi è dunque Zarathustra? - E tutti coloro nel cui orecchio tu per avventura infondesti il tuo canto e il tuo miele, tutti i nascosti, tutti i solitarii e i solitarii in coppia, tutti interrogaron d'improvviso il lor cuore dicendo: - Soggiorna tuttavia tra i viventi Zarathustra? Non val più la pena di vivere; tutto è inutile, tutto è vano, se non si viva con Zarathustra

Nella sua estenuazione mortale, sentendosi perire, egli invocava anche una volta un intercessore per la vita. «In verità, come un giovenil riso squillante su mille bocche, Zarathustra penetra in tutte le catacombe ridendo di quanti vegliano la notte e la morte, di quanti fan risonare un fascio di lugubri chiavi. Il tuo riso, o Zarathustra, li spaventerà e li abbatterà come un soffio. Il lor mancare e il loro svegliarsi testimonieranno del tuo potere. E pur nell'ora in cui scenderanno su noi il lungo crepuscolo e la stanchezza mortale, tu non diserterai il nostro orizzonte, o Intercessore per la Vita! Tu ci discopristi nuove stelle e nuovi splendori notturni. In verità, il riso pur lo dispiegasti tu su le nostre teste come una tenda variopinta. D'ora in poi un giovenil riso irromperà da tutte le bare; un trionfal vento disperderà ogni mortale stanchezza. Tu stesso ce ne sei il mallevadore e l'augure

Il verbo di Zarathustra, del Maestro che insegnava il Superuomo goethiano, gli pareva il più virile e il più nobile che fosse mai stato proferito da un poeta e da un filosofo nell'età moderna. Egli, il fiacco, l'oppresso, il titubante, l'infermiccio, aveva teso l'orecchio con un profondo turbamento a quella voce nuova che scherniva con sì aspri sarcasmi la debilità, l'irritabilità, la sensibilità morbosa, il culto della pietà, il vangelo della rinunzia, il bisogno di credere, il bisogno di umiliarsi, il bisogno di redimere e di redimersi, tutti insomma i più ambigui bisogni spirituali dell'epoca, tutta la ridevole e miserevole effeminazione della vecchia anima europea, tutte le mostruose rifioriture della lue cristiana nelle razze decrepite. Egli, il solitario, il contemplatore, lo speculatore inerte, il malsicuro seguace di Gautama, aveva teso l'orecchio con una strana ansietà a quella voce che affermava la vita, che considerava il dolore come la disciplina dei forti, che ripudiava ogni fede e in ispecie la fede nella Morale, che proclamava la giustizia della ineguaglianza, che esaltava le energie terribili, il sentimento della potenza, l'istinto di lotta e di predominio, l'eccesso delle forze generatrici e fecondanti, tutte le virtù dell'uomo dionisiaco, del vincitore, del distruttore, del creatore. «Crearediceva Zarathustra. «Ecco l'atto che affranca dal dolore e fa men grave il peso della vita. Ma, perché esista colui che crea, è necessario l'aiuto dei patimenti e di quali metamorfosi!» E Giorgio Aurispa aveva pensato più d'una volta, d'innanzi alla vastità della sua conscienza dolorosa: «A furia di soffrire essendo io riuscito a moltiplicar senza fine i fenomeni del mio mondo interno, perché sia completa la mia vita io non debbo se non cercare il mezzo di rendere attivo il mio dolore. La scienza del necessario deve avere per suo natural termine l'azione, la creazione.» E più d'una volta, in certe ebrezze causate dall'eccesso della pena, aveva anch'egli evocata la memoria di quel re Viçvamitra; il quale nelle volontarie torture durate per mille anni acquistò una tal sicurtà nel suo potere, una sì gran fidanza in sé medesimo, che imprese a construire un nuovo cielo. «Oh, come otterrò io la fede in me medesimo? Il dubbio mi divora, il dubbio corrode la mia volontà e lacera il mio sogno. Datemi tutti i supplizii dell'universo, ma fate ch'io ritrovi in fondo a qualunque inferno la mia volontà incandescente e ch'io possa brandirla per dispiegare intiero sul mio capo il più largo de' miei sogni a similitudine di un nuovo cielo

Diceva Zarathustra: «Infine io son colui che benedice e colui che afferma; e lungo tempo pugnai da fierissimo giostratore per avere un giorno le mani libere a benedire. Ed ecco la mia benedizione: - Essere sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come la sua volta immutabile, la sua cupola azzurra, la sua eterna sicurtà: - e benedetto è colui che così benedice! Perocché tutte le cose sieno battezzate su le fonti dell'eternità, di dal Bene e dal Male, e il Bene e il Male sieno ombre fugaci, brume d'afflizione, nebbie al vento

Diceva: «Per caso! - ecco il titolo di nobiltà più antico al mondo. Io lo resi a tutte le cose, io affrancai tutte le cose dal giogo della finalità. E questa libertà e questa serenità celesti io le dispiegai su tutte le cose, come una cupola azzurra, allorché insegnai che né sopra di loro né dentro di loro alcuna volontà eterna vuole.»

Non era in queste sentenze una grande e pura elevazione della vita? Non era il profeta di un'Aurora colui che bandiva gli spiriti da ogni passato, da ogni presente, e li spingeva per mille ponti e per mille strade verso il futuro, verso «la terra dei figli», verso la terra non anche scoperta, in grembo ai più lontani mari, ove un giorno doveva apparire l'Essere superiore all'uomo, l'Essere sopraumano, il Superuomo? La forma ideale, a cui tendeva la specie con un continuo ascendere passando per le sue metamorfosi, come si poteva raggiungere se non con la profusione della vita? «Che un sideral raggio brilli nel tuo amore! Che la tua speranza sia questa: - Possa io generare il Superuomo

Sterili conosceva Giorgio Aurispa i suoi amori, sterili le sue agitazioni come quelle del mare che incominciava a fremere sotto il vento del crepuscolo. In nessun figliuolo egli avrebbe perpetuato le impronte della sua sostanza, preservato la sua effigie, propagato il movimento ascensionale dello spirito verso l'attuazione di possibilità sempre più alte. In nessuna opera egli avrebbe adunato l'essenza del suo intelletto, manifestato armonicamente la potenza delle sue facoltà molteplici, rivelato interamente il suo universo. La sua sterilità era incurabile. La sua esistenza si riduceva a un mero flusso di sensazioni, di emozioni, di idee, privo d'ogni fondamento sostanziale. Egli adombrava l'uomo di Gautama. La sua personalità non era se non un'associazione temporanea di fenomeni intorno a un centro, «come un cane legato a un palo». Egli non poteva aspirare se non a una fine. E per metter fine a tutti i sogni egli non doveva se non sognare di non voler più sognare.

A che dunque, in quel vespero estivo, tra i canti della mietitura, nella festa sacra del rinato pane, egli evocava il fantasma di quell'ultimo intercessore per la vita?

L'oro crepuscolare quasi era estinto, consunto; e una cenere eterea pioveva dal sommo del cielo. Ma su l'orizzonte maritimo una zona verde come il berillo, straordinariamente limpida e lucida, resisteva alla discolorante ombra e diffondeva sul limite delle acque un sorriso misterioso. Dall'altura, dov'egli era giunto deviando, si scorgevano ingigantiti nell'ombra i lineamenti dei seni e dei promontorii lontani; e davano imagine d'una immensa forma animata che traesse profondi respiri addormentandosi sul mare.

«Ah quel sorriso dell'anima che langue nella sua pienezza, piegando sotto la dovizia della sua propria felicità, e aspetta, e tende le manipensava Giorgio con un'invidia e un rammarico infiniti, ricordando il bel salmo di Zarathustra.

«O mia anima! Io feci bere al tuo suolo ogni saggezza, ogni vin novello e ogni vecchio e robusto vino di saggezza immemorabile.

O mia anima! Io versai su te ogni sole e ogni notte e ogni silenzio e ogni desiderio; e tu crescesti allora sotto gli occhi miei, come una vigna.

O mia anima! Eccoti colma, eccoti traboccante, eccoti simile a una vigna dalle gonfie poppe, carica di grappoli tutt'ambra e oro.

Carica della tua propria felicità, piegando sotto la dovizia, tu sei in attesa - tanta è la tua pienezza; e ancor tu hai vergogna della tua attesa.

O mia anima! Ora non v'è in nessuna plaga una più amante, una più allacciante, una più vasta anima. Ove mai dunque l'avvenire e il passato si congiungono meglio che in te?

O mia anima! Tutto io ti ho dato, ho per te vuotato le mie mani; e ora!... Ora tu sorridi e piena di languore tu mi dici: - A chi di noi due conviene render grazie? -

Non convien forse a colui che dona render grazie a colui che riceve? Non è forse il donare un bisogno? Il ricevere non equivale forse all'aver pietà?

O mia anima! Io comprendo il sorriso del tuo languore. La tua pienezza medesima or langue e tende le mani

Anch'egli, Giorgio Aurispa, aveva abbeverata d'ogni saggezza e d'ogni follia la sua anima, d'ogni verità e d'ogni errore; e aveva versato su lei tutti i desiderii, i più dolci e i più atroci; e le aveva dato tutte le forme e tutte le attitudini; e l'aveva tentata con tutti gli enigmi; e l'aveva ornata di tutti i simulacri e di tutti i simboli; e l'aveva resa più vasta, sempre più vasta. Ma ben altra era la sua aspettazione e ben altro il suo languore!

Come un'allegoria gli si ripresentava alla memoria spontaneamente quel grande chiostro di cento colonne eretto dal divino Michelangelo nelle Terme di Diocleziano; ove, in un pomeriggio di settembre, egli aveva creduto di veder raffigurata per segni un'abituale condizione della sua anima. - Era un pomeriggio di settembre e «l'odore e il pallore di qualche primavera dissepolta» erano diffusi nel cielo silente che s'incurvava sul grande chiostro armonioso. In mezzo allo spazio mistico i cipressi michelangioleschi torti e dilaniati da un ciclone, aspri e neri avanzi d'una tenacia secolare, dicevano l'infinita tristezza della meditazione solitaria e l'inutilità d'ogni più salda resistenza contro l'ingiuria delle forze cieche. Ma, alla loro ombra, su fulcri vestiti di edera sorgevano in ordine simetrico marmoree teste colossali di tori, di cavalli, di liocorni e di arieti: emblemi della possa bruta. E dovunque all'ingiro, su l'erba rasa, tra i cespugli di mirto negli intercolunnii, contro le pareti dei portici puri, apparivano i frammenti fittivi d'una vita bella carnale e superba: - pieghe di pepli intorno a seni mutilati; chiome pendule come grappoli su fronti brevi; ventri feminei nudi, molli, segnati dall'ombelico come da un suggello di grazia; mani atteggiate a sostenere il lembo d'una clamide; braccia erculee dai bicipiti, tesi in uno sforzo terribile; mammelle enormi, bastevoli a nutrire una prole titanica; dolci nomi di donne e di liberti, scolpiti su cippi funerarii; anfore memori d'un vino di cent'anni; volti di deità sereni o maschere dalla bocca rotonda e vacua, in cima a steli di marmo fibrati come vegetali; in rilievo su bianchi sarcofaghi una danza di menadi, un satiro in atto d'offrire a una capra un racemo, un serpe uscente da un canestro, una corona di frutti e di fiori.

 

 

 

IV

 

Dalla notte tragica in cui Candia a bassa voce aveva parlato dell'incantesimo che stava sopra agli uomini del Trabocco, quella grande ossatura biancastra protesa su la scogliera aveva più volte attirato lo sguardo e incitata la curiosità degli ospiti. Nella piccola baia lunante e musicale quella forma irta e insidiosa, in agguato perpetuo, pareva sovente contrastare la benignità della solitudine. Ai meriggi torridi e immoti, ai tramonti foschi, prendeva talora aspetti formidabili. S'udiva talora nella quiete stridere l'argano e scricchiolare tutta la carcassa. Si vedeva nelle notti illuni il rossore delle faci rispecchiate dalle acque.

E, in un pomeriggio di pesantissimo ozio, Giorgio propose a Ippolita:

- Vuoi che andiamo sul Trabocco?

Ippolita rispose:

- Andiamo, se tu vuoi. Ma come farò a passare il ponte? Ho già provato una volta...

- Ti condurrò io per la mano.

- È troppo stretto.

- Proveremo.

Andarono. Discesero per la viottola. Giunti al gomito, trovarono una specie di scalèa tagliata nell'arenaria, disagevole, che con gradi irregolari si prolungava fin su la scogliera all'estremità del ponte sospeso.

- Vedi? Come farò? - disse Ippolita rammaricandosi. - Ho il capogiro, soltanto a guardarlo!

Per il primo tratto il ponte era formato d'una sola tavola, strettissima, sostenuta da puntelli infissi nello scoglio; pel secondo tratto si allargava composto di assicelle trasversali, bianche d'una bianchezza quasi argentea, consunte, secche, mal connesse, così gracili che parevano doversi rompere sotto la minima pressione del piede.

- Non vuoi provare? - le chiese Giorgio, pur sentendo in fondo a sé uno strano sollievo nell'accertarsi che Ippolita non avrebbe mai potuto compiere il passaggio periglioso. - Vedi? Viene qualcuno verso di noi per darci una mano.

Veniva dalla piattaforma correndo un fanciullo seminudo, agile come un gatto, bruno come un bronzo ricco d'oro. Sotto il suo piede infallibile le assicelle scricchiolavano, le tavole si piegavano. Giunto all'estremità del ponte, presso i forestieri, con gesti vivaci li incoraggiò ad affidarglisi guardandoli con i suoi occhi acuti d'uccello di rapina.

- Non vuoi provare? - ripetè Giorgio sorridendo.

Irresoluta, ella mise il piede su la tavola oscillante, guardò lo scoglio e l'acqua; poi si ritrasse, non potendo vincere il turbamento.

- Temo la vertigine - ella disse. - Sono sicura che cadrei.

Soggiunse, con rammarico palese:

- Va, va tu solo. Non hai paura?

- No. Ma tu che farai?

- Mi metterò a sedere , nell'ombra, e ti aspetterò.

Ella soggiunse, esitando, come per tentare di trattenerlo:

- Ma perché vai?

- Vado. Sono curioso di vedere.

Pareva quasi ch'ella si dolesse di non poterlo seguire, si pentisse di lasciarlo andare in un luogo dove ella non avrebbe potuto giungere, e se ne dolesse e se ne pentisse non soltanto per causa della rinunzia a una curiosità e a un diletto ma anche per un'altra causa non bene distinta. Ella soffriva pur di quell'ostacolo temporaneo che stava per interporsi fra lei e l'amante, di quell'ostacelo da lei non superabile: tanto forte era divenuto in tutta la sua sostanza il bisogno di tenere continuamente legato l'amante con un legame sensuale, di avere con lui un continuo contatto, di dominarlo, di possederlo.

Con un'aria di dispetto, appena percettibile, disse:

- Va, va pure.

A tale sentimento istintivo faceva contrasto quello già da Giorgio avvertito in fondo a sé medesimo: quella specie di sollievo nell'accertarsi che v'era alfine un luogo inaccessibile a Ippolita, un rifugio completamente isolato contro la Nemica, un ritiro difeso dallo scoglio e dall'acqua, dove egli avrebbe potuto trovare qualche ora di verace riposo. E in ambedue quei moti interiori, pur non bene distinti ed in effetto quasi puerili, ma senza dubbio contrarii, era la dimostrazione dello stato reale in cui gli amanti si trovavano l'un verso l'altra: l'uno, consciente vittima destinata a perire; l'altra, carnefice inconsapevole e carezzevole.

- Addio. Vado - disse Giorgio, con una leggera provocazione nel tono della voce e nell'attitudine.

Se bene si sentisse mal sicuro, egli rifiutò l'aiuto del fanciullo; e fu attentissimo a procedere in apparenza franco e spedito senza esitare e senza vacillare su la tavola oscillante. Appena mise il piede sul tratto più largo, accelerò il passo, preoccupandosi pur sempre dello sguardo d'Ippolita e mettendo istintivamente nello sforzo il calore d'una specie di reazione ostile. Quando calcò l'assito della piattaforma, ebbe la sensazione illusoria di trovarsi su la coperta d'un naviglio. In un attimo, allo strepito fresco della maretta che assaliva gli scogli, rivisse nella memoria qualche frammento della sua vita di bordo sul Don Juan e provò per tutto l'essere un orgasmo istantaneo nel desiderio chimerico di salpare. «Alla vela! Alla vela

Sùbito dopo, fissò lo sguardo su le cose che lo circondavano; ne colse tutte le particolarità, con la consueta lucidezza.

Turchino lo salutava con un cenno brusco, non mitigato da parola o da sorriso, come se nessun avvenimento - fosse pure insolito e straordinario - valesse a interrompere anche per un attimo la preoccupazione terribile che appariva in quel suo viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti.

La preoccupazione medesima si leggeva nell'aspetto dei suoi figliuoli, che salutarono anch'essi in silenzio e si rimisero alla loro bisogna in compagnia dell'immutabile tristezza. Erano giovani oltre i vent'anni, scarni, riarsi, tenuti da una continua inquietudine muscolare, come i demoniaci. Tutti i loro moti parevano contrazioni convulsive, sussulti; e si vedevano a tratti i muscoli tremare sotto la pelle dei loro volti senza mento.

- Buona pésca? - domandò Giorgio indicando la vasta rete immersa, di cui apparivano a fior d'acqua i lembi.

- Niente oggi, signore, - mormorò Turchino con un accento di collera contenuta.

Soggiunse, dopo una pausa:

- A meno che non la porti tu a noi, la buona pésca!

- Tirate la rete. Vediamo. Chi sa!

I figliuoli si accinsero a muovere l'argano.

Per gli interstizii dell'assito si vedeva brillare e spumare l'onda. In un angolo della piattaforma sorgeva una capanna bassa, col tetto di paglia, spiovente, il cui vertice era difeso da una fila di tégoli rossi e ornato d'un toppo di quercia scolpito in forma d'una testa bovina, con infisse due grandi corna - contro il maleficio. Altri talismani pendevano dal tetto, commisti a certi dischi di legno su cui erano fermati con pece frammenti di specchio rotondi come occhi; e un fascio di quadridenti arrugginiti giaceva davanti all'apertura angusta. A destra e a sinistra sorgevano dalla scogliera le due maggiori antenne verticali, sostenute alla base da piuoli di tutte le grossezze, che s'intersecavano, s'intralciavano congiunti tra di loro per mezzo di chiodi enormi, stretti da filo di ferro e da funi, rinforzati con mille ingegni contro le ire del mare. Due altre antenne, orizzontali, tagliavano in croce quelle e si protendevano come bompressi, di dalla scogliera, su l'acqua profonda e pescosa. Alle estremità forcute delle quattro antenne pendevano le carrucole con i canapi corrispondenti agli angoli della rete quadrata. Altri canapi passavano per altre carrucole in cima a travi minori; fin negli scogli più lontani eran conficcati pali a sostegno dei cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga e pertinace lotta contro la furia e l'insidia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva vivere d'una vita propria, avere un'aria e un'effigie di corpo animato. Il legno esposto per anni ed anni al sole, alla pioggia, alla raffica, mostrava tutte le fibre, metteva fuori tutte le sue asprezze e tutti i suoi nocchi, rivelava tutte le particolarità resistenti della sua struttura, si sfaldava, si consumava, si faceva candido come una tibia o lucido come l'argento o grigiastro come la selce, acquistava un carattere e una significazione speciali, un'impronta distinta come quella d'una persona su cui la vecchiaia e la sofferenza avesser compiuta la loro opera crudele.

L'argano strideva girando per l'impulso delle quattro leve; e tutta la macchina tremava e scricchiolava allo sforzo, la vasta rete emergendo a poco a poco su dalla profondità verde con un luccichìo aurino.

- Nulla! - mormorò il padre vedendo il fondo vacuo della rete salire a fiore dell'acqua.

I figliuoli lasciarono le leve a un tratto; e l'argano girò stridendo più forte, battendo l'aria con la violenza delle sue quattro braccia capaci di spezzare in due un uomo. La rete si sommerse. Tutti tacquero. Nel silenzio non si udì se non lo strepito della maretta contro gli scogli.

Il peso del maleficio gravava su quelle vite miserabili. Era caduta in Giorgio ogni curiosità d'interrogare, di scoprire, di sapere; ma sentiva egli che quella compagnia taciturna e tragica avrebbe avuto in séguito per lui un'attrazione quasi di affinità dolorosa. - Non era anch'egli vittima di un maleficio? - E istintivamente guardò verso la spiaggia, dove appariva la figura della donna disegnata su un fondo di sasso.

 

 

 

V

 

Tornò al Trabocco quasi tutti i giorni, in ore diverse. Divenne quello il luogo favorito del suo sogno e della sua meditazione. I pescatori si erano abituati alle sue visite; e gli facevano un'accoglienza rispettosa, gli tenevano pronto all'ombra della capanna una specie di giaciglio composto d'una vecchia vela che odorava di catrame. Ed egli era con loro sempre liberale.

Ascoltando il romorìo delle acque, fissando la cima di un'antenna immobile nell'azzurro, evocava i suoi ricordi nautici, riviveva la sua vita errante nelle estati lontane, quella vita di diporto in una libertà senza confini, che ora gli pareva straordinariamente bella, quasi chimerica. Si ricordava della sua ultima navigazione nell'Adriatico, avvenuta alcuni mesi dopo l'Epifania dell'Amore, in un periodo di tristezze e di entusiasmi poetici, sotto l'influenza di Percy Shelley, di quel divino Ariele transfigurato dal mare in qualche cosa di ricco e di strano: into something rich and strange. E si ricordava dello sbarco a Rimini, dell'entrata in Malamocco, dell'ancoraggio dinanzi alla Riva degli Schiavoni tutta d'oro nel sole di settembre... - Dov'era in quel momento l'antico suo compagno di viaggio, Adolfo Astorgi? Dov'era il Don Juan? - Pochi giorni innanzi, egli ne aveva ricevuto notizie da Candia in una lettera che pareva portare in sé l'odore della mastica e che annunziava il prossimo invio d'una quantità di confetture orientali.

Era veramente Adolfo Astorgi uno spirito fraterno, il solo con cui egli aveva potuto vivere qualche tempo in comunione completa senza provare il disagio, il malessere e la ripugnanza che gli causava quasi sempre la familiarità prolungata con gli altri amici. Grande sfortuna ch'egli fosse ora così lontano! - E lo imaginava talvolta come un liberatore improvviso che apparisse con la sua vela nelle acque di San Vito per proporgli una fuga.

Nella sua debolezza incurabile, in quell'abolizione assoluta della volontà attiva, egli s'indugiava talvolta intorno a simili sogni: invocava qualcuno, forte e imperioso, che lo scotesse con violenza, che lo rapisse, che lo trascinasse lontano, spezzando d'un tratto ogni legame, ultimamente, per sempre, e lo confinasse in un paese remotissimo dov'egli non fosse conosciuto da alcuno e non conoscesse alcuno e dovesse ricominciare la sua vita o morire di men disperata morte.

Egli doveva morire. Conosceva la sua condanna e la sapeva omai irrevocabile; e credeva che l'atto finale si sarebbe compiuto nella settimana precedente il quinto anniversario, tra gli ultimi giorni di luglio e i primi di agosto. Dopo la tentazione balenatagli nell'orrore meridiano dinanzi alle rotaie luccicanti, anche gli pareva che il modo fosse già stabilito. Tendeva di continuo l'orecchio al rombo del treno; provava una strana inquietudine quando s'approssimava l'ora nota del passaggio. Poiché una delle gallerie attraversava il promontorio dal Trabocco, egli udiva dal giaciglio il cupo fragore che scoteva tutta l'altura; e talvolta, se era distratto in altri pensieri, trasaliva di sgomento, quasi che d'improvviso gli giungesse il rombo del suo destino.

Non era uno stesso pensiero dominante in lui e in quegli uomini taciturni? Non sentivano tutti sul loro capo, fin nel più candido fulgore canicolare, una medesima ombra? Per tal comunanza forse egli amava quella compagnia e quel luogo. Su le musiche dell'acqua si lasciava cullare dalle braccia del fantasma ch'egli aveva creato, mentre la volontà di vivere si ritirava da lui a poco a poco, come il calore abbandona un cadavere.

Erano le grandi calme di luglio. Il mare appariva tutto bianco, latteo, qua e verdognolo nelle vicinanze del lido. Una caligine appena appena colorita di violaceo velava le coste lontane: la punta del Moro, la Nicchiòla, la punta di Ortona, la Penna del Vasto. Le quasi impercettibili ondulazioni della bonaccia producevano tra gli scogli un'armonia sommessa, misurata da pause eguali. Su l'estremità d'una delle lunghe antenne protese, il fanciullo stava alla vedetta: scrutava con occhi vigili lo specchio dell'acqua sottostante e di tratto in tratto - per costringere ad entrar nella rete il pesce sbigottito - gittava una pietra. Quei tonfi sordi aumentavano la malinconia delle cose.

Talvolta l'ospite si assopiva, blandito dai ritmi lenti. I brevi sopori erano il compenso unico alle sue notti insonni. Ed egli soleva addurre a pretesto quel bisogno di riposarsi, affinché Ippolita gli concedesse di rimaner sul Trabocco per un tempo indefinito. Egli le assicurava di non poter dormire se non su quelle tavole, tra le esalazioni degli scogli, nella musica del mare.

Dava egli a quella musica un orecchio sempre più attento e acuto. Ne conosceva omai tutti i misteri; ne comprendeva tutte le significanze. Lo sciacquìo fievole della risacca, simile al romor linguale d'un gregge che si disseti, - il gran tuono subitaneo del fiotto gagliardo che sopraggiungendo dal largo urta e schiaccia l'onda rifratta dalla riva, - la nota più umile e la nota più superba e le innumerevoli gamme intermedie e le diverse misure degli intervalli e i più semplici e i più complessi accordi e tutte le potenze di quella profonda orchestra equòrea nel sonoro golfo egli conosceva, egli comprendeva.

Misteriosa la sinfonia crepuscolare svolgevasi lentamente crescendo, lentamente crescendo, sotto un cielo di pure viole pe' cui cespi eterei lucevano i primi timidi sguardi delle costellazioni non ancor disvelate. I soffii erranti alzavano sospingevano le onde qua e , rare da prima, poi più spesse, poi men deboli; alzavano sospingevano le onde che tenui fiorivano in sommo, rapivano al crepuscolo un bagliore, per un attimo fervevano, languide ricadevano. Talora come un suono di cimbali fioco, talora come un suono di dischi d'argento l'un contro l'altro percossi, talora come un suono di cristalli giù per un pendìo precipitanti era il suono che quelle nel silenzio facevano ricadendo, morendo. Nuove onde si levavano da un più lungo soffio generate, s'incurvavano limpide e intere portando nella loro curva l'estrema grazia del giorno, si frangevano quasi con mollezza, simili a bianchi rosai mobili che si sfogliassero, lasciando schiume durevoli come petali su lo specchio che si dilatava dov'esse scomparivano per sempre. Altre si levavano, aumentavano di celerità e di forza, tendevano alla riva, l'attingevano con uno scroscio trionfale a cui seguiva uno strepito diffuso come uno stormire di frondi aride. E, mentre durava l'ingannevole stormire della foresta inesistente, giù giù per la riva lunata altri scrosci si succedevano con intervalli a grado a grado più brevi, seguìti dal medesimo strepito; così che la zona sonora pareva distendersi all'infinito composta dalle vibrazioni perpetue d'una miriade di frondi aride.

Era questa imitativa armonia silvana la trama costante su cui l'onda avversa alla grande scogliera poneva i suoi ritmi interrotti. Arrivava l'onda con una veemenza d'amore o di collera su i massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava con la sua liquidità tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un'anima naturale oltrasovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore.

Rideva, gemeva, pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare su la cima del più arduo scoglio la piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s'insinuava nella fenditura obliqua ove i molluschi prolificavano; piombava su i folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. Il gocciar tardo eguale degli stillicidii nella caverna occulta; il ritmico traboccare delle fontane, simile alla pulsazione d'un cuore capace; il chioccolìo roco delle polle sul declivio scabro; il cupo fragore del torrente prigione tra due pareti di roccia; il tonare iterato del fiume precipite dal sommo della rupe: ogni suono prodotto dalle acque vive su la pietra inerte, e il gioco degli echi, ella fingeva. La tenera parola susurrata all'ombra in disparte; il sospiro esalato da un'angoscia mortale; il clamore d'una moltitudine sepolta in una catacomba profonda; il singulto d'un petto titanico; lo scherno alto e feroce: ogni suono prodotto da bocca umana o triste o lieta, e il mugghio e il ruggito, ella fingeva. I richiami notturni degli spiriti dalle aeree lingue; il bisbiglio delle larve fugate dall'aurora; le risa rattenute delle fluide creature malefiche in agguato al limitare degli antri; le lusinghe dei fiori vocali nei paradisi di lussuria; le riprese della danza magica sotto la luna: ogni suono udito segretamente dall'orecchio dei poeti, gli incanti dell'antica sirena, ella fingeva. Una ed innumerevole, labile ed imperitura, ella comprendeva in sé tutti i linguaggi della Vita e del Sogno.

Fu, nello spirito dell'attentissimo ascoltatore, quasi la resurrezione d'un mondo. La grandezza della sinfonia marina gli risuscitò la fede nella virtù illimitata della Musica. Egli si stupì come mai avesse potuto per sì lungo tempo privare di quel cotidiano alimento il suo spirito, rinunziare al solo mezzo conceduto all'uomo per affrancarsi dall'inganno dell'Apparenza e per discoprire nell'universo interiore dell'anima l'Essenza reale delle cose. Egli si stupì come mai avesse potuto per sì lungo tempo trascurare quel religioso culto che fin dagli ultimi anni della puerizia, sotto l'esempio di Demetrio, aveva praticato con tanto fervore. Non era stata, per lui e per Demetrio, la Musica una Religione? Non aveva ad entrambi ella rivelato il mistero della vita suprema? Ad entrambi ella aveva ripetuto, ma con un senso diverso, la sentenza del Cristo: «Il nostro regno non è di questo mondo

E rivide l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

Ancóra una volta, profondissimo gli divenne il sentimento del fascino soprannaturale che dal sepolcro esercitava su lui quell'uomo esistente fuor della vita. Cose lontane gli tornarono alla memoria con onde di armonia indistinte; elementi di pensiero, a lui comunicati da quel rivelatore, parvero assumere figure vaghe di ritmi; tutto l'ideal simulacro del defunto parve trasfigurarsi musicalmente, perdere i suoi contorni visibili, rientrare nell'unità profonda dell'Essere, in quella unità che il solitario violinista per la luce della sua ispirazione aveva scoperto sotto la diversità delle Apparenze.

«Certo» egli pensava «la Musica lo iniziò al mistero della Morte; gli mostrò di dalla vita un notturno impero di meraviglie. L'armonia, elemento superiore al tempo e allo spazio, gli fece intravedere come una beatitudine la possibilità di affrancarsi dallo spazio e dal tempo, di distaccarsi dalla volontà individua che lo serrava nella carcere della persona collocata in un luogo angusto e lo teneva soggetto in perpetuo all'elemento bruto della sua sostanza corporea. Avendo sentito tante volte svegliarsi dentro di sé, nelle ore dell'ispirazione, la volontà universa e provato una straordinaria gioia nel riconoscere l'unità suprema che è in fondo alle cose, egli credette di prolungarsi nell'infinito per mezzo della morte, credette di dissolversi nell'armonia continua del Gran Tutto e di partecipare all'eterna voluttà del Divenire. Perché dunque non avrei io la stessa iniziatrice allo stesso mistero

Alte imagini gli si levavano dallo spirito, rampollando le stelle a una a una dal silenzio dei cieli. Egli ritrovò alcuni de' suoi più poetici sogni. Si ricordò del sentimento immenso di gioia e di libertà ch'egli aveva provato un giorno nell'immedesimarsi fantasticamente con un uomo sconosciuto che giaceva estinto in una bara al sommo d'un catafalco maestoso circondato di fiaccole, mentre per la profondità dell'ombra sacra l'anima del divino rivelatore Beethoven nell'organo, nell'orchestra e nelle voci umane parlava con l'Invisibile. Rivide il chimerico naviglio occupato da un organo gigantesco che tra cielo e mare, per infinite lontananze, versava dalla sua selva di canne su la calma delle acque torrenti di armonia, mentre all'estremo orizzonte fiammeggiavano i roghi vesperali o si diffondeva nella notte la serenità estatica del plenilunio o pe' cerchi delle tenebre le costellazioni brillavano dai loro carri di cristallo. Ricostruì quel meraviglioso Tempio della Morte, tutto di marmo bianco, ove tra le colonne del propileo stavano musici insigni; i quali seducevano con i suoni i giovini passeggeri e nell'iniziarli usavano di tanta arte che nessuno iniziato mai, mettendo il piede su la soglia funebre, si rivolgeva a salutare la luce in cui sino a quel giorno aveva gioito.

«Datemi una maniera nobile di trapassare! Che la Bellezza distenda uno de' suoi veli sotto il mio ultimo passo! Questo soltanto imploro dal mio Destino

Un calore lirico dilatava il suo pensiero. La fine di Percy Shelley, già più volte invidiata e sognata sotto l'ombra e il fremito della vela, gli riapparve in un immenso baleno di poesia. Quel destino aveva una grandiosità e una tristezza sovrumane. «La sua morte è misteriosa e solenne come quella degli antichissimi eroi ellenici che d'improvviso una virtù invisibile sollevava dalla terra assumendoli trasfigurati nella sfera gioviale. Come nel canto di Ariele, nulla di lui è vanito, ma il mare l'ha trasfigurato in qualche cosa di ricco e di strano. Il suo corpo giovenile arde sopra un rogo, a piè dell'Appennino, al conspetto del Tirreno solitario, sotto l'arco ceruleo del cielo. Arde con gli aromi, con l'incenso, con l'olio, col vino, col sale. Le fiamme si levano fragorose in un'aria senza mutamento, vibrano canore verso il sole testimonio che fa scintillare i marmi dei culmini montani. Una rondine marina cinge dei suoi voli il rogo, finché il corpo non è consunto. E, poi che il corpo incenerito si disgrega, appare nudo e intatto il cuore: - cor cordivm

Anch'egli, come il poeta dell'Epipsychidion, in una esistenza anteriore non aveva forse amato Antigone?

Sotto di lui, intorno a lui la sinfonia del mare cresceva cresceva nell'ombra e il silenzio del cielo stellato sopra di lui diveniva più profondo. Ma dalla parte della costa si avvicinava un rombo, diverso da ogni altro strepito, riconoscibile. E, com'egli si volse verso quella parte, vide i due fanali del treno simili a due occhi di fiamma folgoranti.

Fragoroso veloce e sinistro il treno passò scotendo il promontorio; percorse in un attimo la strada scoperta; fischiando e rombando scomparve nella bocca della galleria opposta.

Egli balzò in piedi; s'accorse ch'era rimasto solo.

- Giorgio! Giorgio! Dove sei?

Era il richiamo inquieto d'Ippolita che veniva a cercarlo; era un grido d'ansietà e di sgomento.

- Giorgio, dove sei?

 

 

 

VI

 

Ippolita diede segni di grande allegrezza quando Giorgio le annunziò l'arrivo del pianoforte e dei libri di musica. - Come gli era grata di questa cara sorpresa! Finalmente avrebbero avuto il modo d'interrompere l'ozio delle lunghe ore diurne e di evitare le tentazioni...

Ella rideva, alludendo a quella specie di febbre erotica ch'ella medesima di continuo teneva accesa nell'amante; ella rideva, alludendo a quella loro opera carnale non interrotta se non dai silenzii della stanchezza e da qualche fuga dell'uno.

- Così - ella soggiunse ridendo con una punta di malizia ma senza rancore - così tu non te ne fuggirai più su quel maledetto Trabocco... È vero?

Ella gli si avvicinò, gli prese la testa stringendogli con le palme le tempie, e lo guardò in fondo agli occhi.

- Confessami che tu vai per questo - ella gli mormorò con una voce morbida come per indurlo a confessare.

- Per che cosa? - domandò egli, provando sotto quelle mani la sensazione che si prova nell'impallidire.

- Per la paura dei miei baci.

Ella pronunziò queste parole con lentezza, quasi scandendo le sillabe, e con una voce divenuta a un tratto singolarmente limpida. Ed aveva nello sguardo un misto di passione, d'ironia, di crudeltà e di orgoglio, indefinibile.

- È vero? - soggiunse. - È vero?

Ella seguitava a stringergli le tempie fra le palme; ma a poco a poco le sue dita s'insinuavano tra i capelli, vellicavano lievissimamente gli orecchi, scorrevano sino alla nuca, con una di quelle carezze molteplici in cui ella era divenuta maestra sovrana.

- È vero? - ripeteva mettendo anche in quella ripetizione una sottile blandizia, dando alla sua voce quell'accento ch'ella già per esperienza sapeva efficace a turbare l'amante. - È vero?

Egli non rispondeva; chiudeva gli occhi: si abbandonava; sentiva la vita fuggire, il mondo vanire.

Ancóra una volta egli era vinto dal semplice tocco di quelle mani magre; ancóra una volta la Nemica esperimentava su lui trionfalmente il suo potere. Pareva ch'ella gli significasse: «Tu non puoi sfuggirmi. Io so che tu mi temi. Ma il desiderio che io suscito in te è più forte del tuo terrore. E nulla m'inebria più che il leggere ne' tuoi occhi e il sorprendere nel fremito delle tue fibre questo terrore

Ella, nell'ingenuità del suo egoismo, sembrava non avere alcuna consapevolezza del male che faceva, dell'opera distruttiva a cui attendeva senza tregua e senza ritegno. Abituata alle singolarità dell'amante - alle sue malinconie, alle sue contemplazioni intense e mute, alle sue inquietudini subitanee, ai suoi ardori cupi e quasi folli, alle sue parole amare ed ambigue - ella non comprendeva tutta la gravità della condizion presente ch'ella medesima aggravava sempre più, d'ora in ora. Esclusa a poco a poco dal partecipare alla vita interna di lui - se bene il taciturno l'avesse già esaltata come la fecondatrice di quella vita - ella, prima per istinto e poi per proposito, aveva posto ogni studio nel raffermare il suo dominio sensuale. Il nuovo modo di vivere, all'aria aperta, in quella campagna, su quel mare, favoriva lo sviluppo della sua animalità, eccitava nella sua natura inferma una forza fittizia e il bisogno di esercitarla sino all'eccesso. L'ozio completo, l'assenza di fastidii vili, la presenza continua dell'amato, la comunanza del letto, la tenuità degli abiti estivi, il bagno cotidiano, tutte le nuove abitudini contribuivano ad affinare e a moltiplicare i suoi artificii voluttuosi dandole frequentissime occasioni di ripeterli. E veramente ora pareva ch'ella si prendesse una rivincita terribile su la sua frigidità dei primi giorni, su la sua inesperienza dei primi mesi, e ch'ella corrompesse a sua volta colui che l'aveva corrotta.

Ella era divenuta così esperta, così certa de' suoi effetti; aveva tanta prontezza d'invenzioni improvvise e una così facile grazia di attitudini e di gesti; poneva talora nell'offrirsi una frenesia così violenta che Giorgio non seppe più evocare dalle sembianze di lei l'esangue creatura ferita e fasciata, sommessa a tutte le più temerarie carezze con uno smarrimento profondo, ignara, sbigottita, da cui egli aveva avuto quell'acre e divino spettacolo che è l'agonia del pudore sopraffatto dalla passione soverchiatrice.

Egli aveva pensato una volta, contemplandola nel sonno: «Anche la verace comunione sensuale è una chimera. I sensi della mia amante sono oscuri come la sua anima. Io non potrò mai sorprendere nelle sue fibre un disgusto segreto, un appetito mal soddisfatto, una irritazione non placata. Io non potrò mai conoscere le sensazioni diverse che una medesima carezza le ripetuta in momenti diversi...» Ebbene, ella aveva acquistata questa scienza sopra di lui; ella possedeva questa scienza infallibile: conosceva fin le più segrete e sottili sensibilità dell'amante e sapeva ricercarle con un meraviglioso intùito degli stati fisici ch'esse stimolate determinavano e delle lor rispondenze e de' loro accordi e delle loro alternative. In lui la sensazione piacevole, ricevuta in una parte del corpo, tendeva a dilatarsi a complicarsi ad esagerarsi svegliando fantasmi di sensazioni analoghe superiori e quindi producendo uno stato di conscienza inteso ad ottener quella larghezza quella molteplicità e quell'acuzie. Ciò è dire: in lui - per quella sua straordinaria attitudine a comporre dal noto l'ignoto - a una semplice sensazione reale di piacere corrispondeva quasi sempre il fantasma ideale d'una sensazione multipla e diffusiva, più rara e più alta. La potenza d'Ippolita, quasi magica, consisteva appunto nell'intuire quel fantasma interno e nel convertirlo in realtà sensibile su i nervi di lui. Ed era come s'ella esattamente seguisse una suggestione silenziosa.

Ma di quell'inestinguibile desiderio, da lei acceso nell'amante, ella medesima ardeva. Ed ella medesima provava gli effetti della malìa nell'operarla. La consapevolezza del suo potere, mille volte esperimentato senza fallire, la inebriava; e l'ebrietà accecandola le impediva di scorgere la grande ombra che dietro il capo del suo servo facevasi ogni giorno più oscura. Il terrore ch'ella aveva scoperto negli occhi di lui, quei tentativi di fuga, quelle ostilità mal dissimulate non la ritenevano ma la eccitavano. La tendenza fittizia alle cose straordinarie, alla vita trascendente, al mistero - promossa in lei da Giorgio - s'appagava di quei segni che rivelavano un'alterazione profonda. Un tempo l'amante lontano, oppresso dall'angoscia del desiderio e della gelosia, le aveva scritto: «Questo è l'amore? Oh no. È una sorta di prodigiosa infermità che fiorisce soltanto nel mio essere, facendo la mia gioia e la mia pena. Mi piace di credere che sia questo un sentimento non mai provato da alcun'altra creatura umana.» Ella s'inorgogliva pensando che aveva potuto suscitare un tal sentimento in un uomo così diverso dai comuni uomini a lei noti; si esaltava riconoscendo ad ora ad ora gli strani effetti della sua dominazione esclusiva sopra l'infermo. E non ad altro intendeva se non all'esercizio della tirannide, con un misto di leggerezza e di gravità, passando a volta a volta - come nell'episodio recente - dal gioco all'abuso.

 

 

 

VII

 

Talora, in riva al mare, considerando la donna inconsapevole presso l'onda molle e perigliosa, Giorgio pensava: «Io potrei farla morire. Spesso ella tenta di nuotare appoggiandosi a me. Io potrei facilmente soffocarla nell'acqua, perderla. Non cadrebbe sopra di me sospetto. Il delitto avrebbe l'apparenza di un caso disgraziato. Allora soltanto, d'innanzi al cadavere della Nemica, io potrei risolvere il mio problema. Se oggi ella è il centro di tutta la mia esistenza, qual mutamento avverrebbe domani, dopo la sua scomparsa? Non ho io provato, più d'una volta, un sentimento di libertà e di pace imaginandola estinta, chiusa per sempre nel sepolcro? Io potrei forse salvarmi, riconquistare la vita, facendo perire la Nemica, abbattendo l'Ostacolo.» Egli s'indugiava in questo pensiero; cercava di comporre una rappresentazione di sé medesimo liberato e pacato in un avvenire senza amore; e si piaceva di avvolgere il corpo lussurioso dell'amante in un sudario fantastico.

Nell'acqua ella era timida. Ella non osava mai spingere i suoi tentativi di nuoto oltre la zona del basso fondo. Uno sbigottimento subitaneo la invadeva quando, nel riprendere la positura verticale, ella non sentiva sùbito sotto i piedi il fermo. Giorgio la incitava ad avventurarsi, col suo aiuto, sino allo Scoglio di Fuori - che era un masso isolato a poca distanza dalla riva, a venti braccia di dalla zona sicura. Bastava, per giungervi a nuoto, un assai lieve sforzo.

- Coraggio! - egli le diceva per persuaderla. - Non imparerai se non rischierai. Ti starò al fianco.

Così la avviluppava del suo pensiero micidiale; a lungo fremeva dentro di sé ogni volta che, negli incidenti del bagno, s'accertava dell'estrema facilità con cui avrebbe potuto tradurre in atto quel suo pensiero. Ma l'energia necessaria gli veniva meno. Ed egli si riduceva a cimentare il caso, proponendo a Ippolita la piccola avventura. Nel suo presente stato di fiacchezza, egli medesimo avrebbe corso pericolo se Ippolita sbigottita si fosse aggrappata a lui con violenza. Ma una tale probabilità non lo distoglieva dalla prova; anzi ve lo spingeva con più animo.

- Coraggio! Come vedi, lo scoglio è così vicino che si tocca quasi distendendo una mano. Non devi preoccuparti del fondo. Devi nuotare con calma, accanto a me. riprenderai fiato. Ci metteremo a sedere; raccoglieremo la corallina... Vuoi? Coraggio!

Egli durava fatica a dissimulare la sua ansietà. Ella riluttava, titubava, fra il timore e il capriccio.

- E se la forza mi manca prima di giungere?

- Io ti sosterrò.

- E se la tua forza non basta?

- Basta. Non vedi che lo scoglio è vicino?

Sorridendo, ella dalle dita grondanti si lasciò cadere su le labbra alcune gocce d'acqua.

- Com'è amara! - disse torcendo la bocca.

Poi, vinta l'ultima repulsione, si risolse all'impresa d'un tratto.

- Andiamo! Son pronta.

Il suo cuore non palpitava tanto forte quanto quello del compagno. Poiché l'acqua era tranquillissima, quasi immobile, le prime bracciate furono agevoli. Ma sùbito, inesperta, ella cominciò ad affrettarsi, ad affannarsi. E, appena per un moto falso bevve, fu presa dal pànico; gridò, si agitò, bevve ancóra.

- Aiuto, Giorgio! Aiuto!

Istintivamente egli si lanciò verso di lei, verso quelle mani convulse che l'afferrarono. Pericolò sotto la stretta, sotto il peso; e sùbito vide la fine preveduta.

- Non mi tenere così! - gridò. - Non mi tenere! Lasciami un braccio libero!

E l'istinto brutale della vita gli infuse il vigore. Con uno sforzo straordinario superò la breve distanza traendo quel peso; e toccò lo scoglio, esausto.

- Aggràppati! - suggerì a Ippolita, non potendo egli sollevarla.

Vedendosi salva, ella ricuperò la prontezza per l'atto; ma, appena fu seduta su lo scoglio tutta ansante e grondante, ruppe in singhiozzi.

Piangeva forte, d'un pianto puerile, che non inteneriva ma esasperava il compagno. Egli non l'aveva mai veduta piangere così dirottamente, con quegli occhi gonfi e infiammati, con quella difformazione della bocca. Gli sembrava brutta e pusillanime. Provava contro di lei un rancore iroso, in fondo a cui era quasi il rammarico d'aver compiuto quello sforzo, d'averla tratta in salvo. La imaginava annegata, scomparsa nel mare; imaginava la sua propria sensazione nel vederla scomparire e quindi i segni del suo dolore publico, la sua attitudine davanti al cadavere espulso dall'onda.

Attonita, vedendosi abbandonata al suo pianto, senza un conforto, ella si volse verso di lui. Non singhiozzava più.

- Come farò - ella chiese - per ritornare alla riva?

- Farai una seconda prova - egli le rispose, con una punta di scherno.

- No, no, mai!

- E allora?

- Rimarrò qui.

- Bene. Addio.

Ed egli fece l'atto di gettarsi in mare.

- Addio. Io griderò. Verrà qualcuno a liberarmi.

Ella passava dal pianto al riso, avendo ancóra gli occhi pieni di lacrime.

- Che hai - soggiunse - sul braccio?

- I segni delle tue unghie.

Ed egli le mostrò le scalfitture sanguinanti.

- Ti dolgono?

Ella s'inteneriva, toccandole delicatamente.

- Ma tutta la colpa è tua - soggiunse. - Tu hai voluto per forza. Io non volevo...

Poi sorridendo:

- Era un tranello per liberarti di me?

E, con un sussulto che le scosse tutta la persona:

- Ah, che brutta morte! Che acqua amara!

Chinò la testa, e sentì l'acqua sgorgare dall'orecchio tiepida come sangue.

Lo scoglio al sole era caldo brunastro e rugoso come il dorso d'una bestia viva; e nelle profondità brulicava d'una vita innumerevole. Si vedevano a fior della calma le piante verdi ondeggiare con una mollezza di capellature disciolte, tra uno sciacquìo leggero. Una specie di seduzione lenta si partiva da quella pietra solitaria che riceveva il calore celeste comunicandolo a quel suo popolo di creature felici.

Come per piegarsi a quella seduzione, Giorgio si allungò supino. Per qualche attimo non intese la coscienza se non a percepire il vago piacere che si diffondeva nella sua pelle umida evaporante al calore emanato dalla pietra e a quello dei raggi diretti. Fantasmi di sensazioni lontane gli si ravvivavano nella memoria. Ripensava i bagni casti d'un tempo, le lunghe immobilità su l'arena più ardente e più morbida di un corpo feminino, l'annuale offerta della spoglia epidermica al dio canicolare. «Ah la solitudine, la libertà, l'amore senza vicinanza, l'amore per le donne morte o inaccessibili!» La presenza d'Ippolita gli impediva qualunque oblìo; gli richiamava sempre l'imagine del congiungimento bestiale, della copula operata con gli organi escrementizii, dell'atto spasmodico sterile e triste ch'era divenuto omai l'unica manifestazione del loro amore.

- Che pensi? - gli chiese Ippolita toccandolo. - Vuoi rimanere qui?

Egli si sollevò. Rispose:

- Andiamo.

La vita della Nemica era ancóra nelle sue mani. Egli poteva ancóra distruggerla. Gittò intorno uno sguardo rapido. Un gran silenzio dominava la collina e la spiaggia; sul Trabocco i pescatori taciturni vigilavano la rete.

- Andiamo - ripetè sorridendo. - Coraggio!

- No, no! Mai più!

- Restiamo qui, allora.

- No. una voce agli uomini del Trabocco.

- Ma rideranno.

- Ebbene, li chiamo io stessa.

- Ma, se tu non hai paura e non mi afferri come dianzi, basto io a portarti.

- No, no. Voglio esser portata con la cannizza.

Ella era così risoluta che Giorgio cedette. Levandosi in piedi su lo scoglio e facendo tromba alla bocca con le mani, chiamò uno dei figliuoli di Turchino.

- Daniele! Daniele!

Al richiamo iterato, uno dei pescatori si distaccò dall'argano, passò il ponticello, discese tra i massi e si mise a correre lungo la riva.

- Daniele! Vieni con la cannizza!

L'uomo udì, tornò indietro; si diresse verso certe zattere di canne insieme congiunte in forma d'un sistro, che giacevano su la ghiaia al sole aspettando la stagione propizia alla pesca delle seppie. Ne trascinò una nell'acqua, vi saltò sopra e, puntando una lunga pertica, la mosse verso lo Scoglio di Fuori.

 

 

 

VIII

 

La mattina dopo (era una domenica) Giorgio stava seduto sotto la quercia ascoltando il vecchio Cola che raccontava come a Tocco Casauria in quei giorni il Novello Messia fosse stato preso dai gendarmi e condotto nelle carceri di San Valentino con alcuni suoi seguaci.

- Anche Nostro Signore Gesù Cristo patì l'odio dei Farisei - diceva il monocolo scotendo il capo. - Era venuto Uno nelle campagne a portare la pace e l'abondanza; ed ecco, l'hanno carcerato!

- O padre, - esclamò Candia, - non ti dolere! Il Messia uscirà dalla carcere quando vorrà; e noi lo vedremo anche nella campagna nostra. Aspetta!

Ella era appoggiata allo stipite della sua porta, sostenendo senza fatica il peso della placida gravidanza; e negli occhi grigi e larghi le risplendeva una serenità infinita.

A un tratto, risalì dalla viottola su lo spiazzo Albadora, la Cibele settuagenaria, quella che aveva partorito ventidue figliuoli; e annunziò, affannosa, indicando la riva prossima al promontorio sinistro:

- Laggiù, s'è annegato un bambino. Candia si fece il segno della croce. Giorgio si levò, salì su la loggia per osservare il punto indicato. Si scorgeva su la ghiaia sotto il promontorio, in vicinanza della scogliera e della galleria, una macchia bianca: forse il lenzuolo che copriva il morticino. Un gruppo di gente v'era accosto.

Poiché Ippolita era andata a messa con Elena nella cappella del Porto, egli curioso discese e disse agli ospiti:

- Vado a vedere.

- Perché - gli chiese Candia - perché vuoi metterti una pena nel cuore?

Egli s'affrettò per la viottola, calò per una scorciatoia alla spiaggia, camminò lungo il mare. Giunse sul luogo, un po' ansante; domandò:

- Che è accaduto?

I contadini radunati lo salutarono, gli fecero largo. Uno rispose, tranquillo:

- S'è annegato il figlio d'una mamma.

Un altro, vestito di lino, che pareva il custode del cadavere, si chinò e tolse il lenzuolo.

Apparve il piccolo corpo inerte, disteso su la dura ghiaia. Era un fanciullo di otto o nove anni, biondiccio, gracile, allungato. Gli sollevavano la testa in guisa d'un origliere i suoi abiti poveri, avvolti: la camicia, i calzoni azzurri, la cintura rossa, il cappello di feltro molle. Il suo viso era appena appena livido, col naso camuso, con la fronte sporgente, con le ciglia lunghissime, con la bocca semiaperta dalle labbra grosse e violacee tra cui biancheggiavano i denti l'un dall'altro discosti. Il suo collo era esile, floscio come uno stelo appassito, segnato di pieghe minute. L'appiccatura delle braccia era debole; le braccia erano sottili, sparse d'una peluria simile alla lieve piuma che copre gli uccelli appena nati. Le costole si disegnavano distinte; una linea più scura divideva la pelle per il mezzo del petto; l'ombelico sporgeva come un nodo. I piedi, un poco gonfi, avevano lo stesso colore giallognolo delle mani; e le piccole mani erano callose e sparse di porri, con le unghie bianche che incominciavano a illividirsi. Sul braccio sinistro, su le cosce presso gli inguini, e giù giù su le ginocchia, per le gambe apparivano chiazze rossastre. Tutte le particolarità di quel corpo miserevole acquistavano agli occhi di Giorgio una straordinaria significazione, immobili com'erano e fermate per sempre nel rigore della morte.

- Come s'è annegato? Dove? - chiese egli a bassa voce.

L'uomo vestito di lino fece, con qualche segno d'impazienza, il racconto già forse ripetuto troppe volte. Egli aveva una faccia bestiale, quadrata, con i sopraccigli ispidi, con la bocca larga cruda feroce. - Il bambino, avendo da poco ricondotto le pecore alla stalla, presa con sé la colazione, era disceso in compagnia d'un altro a bagnarsi. Appena messo il piede nell'acqua, era caduto, s'era affogato. Alle grida del compagno, uno della casa di sopra era accorso e l'aveva tratto dall'acqua semivivo, bagnandosi le gambe fin sotto il ginocchio. L'aveva capovolto per fargli vomitar l'acqua, l'aveva scosso, ma inutilmente. - Per indicare fin dove il miserello era giunto, l'uomo raccolse un sasso e lo gettò nel mare.

- , fin : a tre braccia dal lido!

Il mare in calma respirava presso il capo del morticino, dolcemente. Ma il sole ardeva forte su la ghiaia; e qualche cosa di spietato cadeva da quel cielo di fiamma, da quei duri testimoni sul pallido cadavere.

- Perché - disse Giorgio - perché non lo portate all'ombra, in una casa, sopra un letto?

- Non si può muovere - sentenziò il custode. - Non si può muovere finché non viene la Corte.

- Ma portatelo all'ombra, , sotto l'argine!

Ostinato il custode ripeteva:

- Non si può muovere.

E nulla era più triste di quella gracile creatura esanime distesa su le pietre e guardata da quel bruto impassibile che ripeteva il racconto sempre con le stesse parole e faceva sempre lo stesso gesto gittando il sasso nell'acqua.

- , fin .

Una femmina sopraggiunse, una megera dal naso adunco, dagli occhi grigi, dalla bocca aspra: madre al compagno del morto. Era palese in lei una certa sospettosa inquietudine, come se ella temesse un'accusa pel suo figliuolo. Parlava con acredine, si mostrava quasi irata contro la vittima.

- Era il suo destino. Dio gli ha detto: «Va nel mare e perditi

Ella gesticolava con veemenza.

- Perché c'è andato, se non sapeva nuotare?

Un fanciullo estraneo, figlio d'un marinaio, ripeté con dispregio:

- Perché c'è andato? Noi sì, che sappiamo nuotare...

Altra gente sopraggiungeva, guardava con fredda curiosità; restava o passava oltre. Un gruppo occupava l'argine della strada ferrata; un altro s'affacciava dall'alto del promontorio, come a uno spettacolo. I fanciulli, seduti o in ginocchio, giocavano con i sassolini, gittandoli all'aria e raccogliendoli ora sul dorso ora nel cavo della mano, in tutti era una profonda indifferenza al conspetto della sciagura altrui e della morte.

Un'altra femmina sopraggiunse, reduce dalla messa, vestita di seta, ornata di tutti i suoi ori. Anche a lei il custode impazientito ripeté il racconto, anche per lei indicò il punto nell'acqua. Ella era loquace.

- Io dico sempre ai miei figliuoli: «Non andate al mare, o vi uccido!» Il mare è il mare. Chi si salva?

Ella ricordava altri annegamenti; ricordava il fatto dell'annegato dalla testa mozza, spinto dall'onda sino a San Vito e scoperto tra gli scogli da un fanciullo.

- Qui, tra questi scogli. Venne a dire: «C'è un morto!» Noi credevamo che ci burlasse. Ma andammo e trovammo. Era senza testa. Venne la Corte. Fu seppellito in un fosso; poi disseppellito, notte tempo. Era tutto spolpato, macerato; ma aveva ancóra le scarpe ai piedi. Il giudice disse: «Guarda: son meglio delle mie!» Doveva dunque essere un uomo ricco. Ed era un mercante di buoi. L'avevano ucciso, gli avevano mozza la testa e l'avevano gettato nel Tronto...

Ella continuava, con una voce stridula, ritirando di tratto in tratto con un lieve sibilo la saliva soverchia.

- E la madre? Quando viene la madre?

A quel nome, da tutte le femmine adunate sorsero esclamazioni di compianto.

- La madre! Ora viene la madre!

E tutte si volgevano credendo di scorgerla per la spiaggia infiammata, nella lontananza. Qualcuna anche ne dava notizie. - Si chiamava Riccangela. Era vedova, con sette figliuoli. Aveva allogato questo in casa di contadini perché pascesse le pecore e guadagnasse un tozzo di pane. Una diceva, guardando il cadavere:

- Chi sa quanto ha penato la madre per crescerlo!

Un'altra diceva:

- Per sfamare i figliuoli, ella ha chiesto anche l'elemosina!

Un'altra narrava che, anche pochi mesi innanzi, il poverello aveva corso pericolo di affogarsi in una pozzanghera d'un cortile: in un palmo d'acqua.

Tutte ripetevano:

- Era il suo destino. Così doveva morire.

E l'aspettazione le rendeva inquiete, ansiose.

- La madre! Ora viene la madre!

Sentendosi stringere il cuore, Giorgio esclamò:

- Ma portatelo all'ombra, in una casa, perché la madre non lo veda qui nudo su le pietre, sotto questo sole!

Ostinato il custode opponeva:

- Non si può toccare. Non si può muovere finché non viene la Corte.

Gli astanti guardavano attoniti il forestiero: il forestiero di Candia. Aumentavano di numero. Alcuni occupavano l'argine arborato di acacie; altri coronavano il promontorio arido a picco su gli scogli. Qualche navicella di canne su i vasti massi mostruosi risplendeva come d'oro a piè dell'alto scoscendimento che dava imagine della ruina d'una torre ciclopica incontro all'immensità del mare.

A un tratto, di su l'altura una voce annunziò:

- Eccola!

Altre voci seguitarono:

- La madre! La madre!

Tutti si volsero; taluni dall'argine discesero; quelli del promontorio si sporsero. Tutti ammutolirono, nell'aspettazione. Il custode ricoprì col lenzuolo il cadavere. Nel silenzio il mare appena appena ansava, le acacie appena stormivano.

E si udirono allora nel silenzio le grida della vegnente.

Veniva la madre lungo il lido, pel sole, gridando. Era vestita della gramaglia vedovile. Traballava su la ghiaia, col corpo curvato, gridando:

- Figlio mio! Figlio mio!

Alzava le palme al cielo e poi le batteva su le ginocchia, gridando:

- Figlio mio!

Uno de' suoi figli maggiori, con un fazzoletto rosso legato intorno al collo per qualche pustola, la seguiva come un mentecatto asciugandosi le lacrime col dorso della mano.

Ella camminava lungo il lido, curva, battendosi le ginocchia, dirigendosi verso il lenzuolo. Mentre chiamava il morto, le sfuggivano dalla bocca suoni non umani, simili all'uggiolare d'una cagna selvaggia. Nell'appressarsi, più s'incurvava, si metteva quasi carpone; finché, giunta, si gittò con un urlo sul lenzuolo.

Si risollevò. Con la sua mano rude e nerastra - mano provata a tutte le fatiche - scoperse il cadavere. Lo guardò per qualche attimo, immobile, quasi impietrita. Poi più e più volte, acutamente, con tutta la forza della sua voce, gridò come per risvegliarlo:

- Figlio! Figlio! Figlio!

I singulti la soffocarono. In ginocchio, furiosa ella si batté le cosce con i pugni. Girò intorno, su gli estranei, i suoi occhi disperati. Parve raccogliersi, in una pausa della violenza.

E incominciò allora un canto.

Ella cantava il suo dolore con un ritmo che si elevava e si abbassava costantemente come la palpitazione cordiale.

Era l'antica monodìa che da tempo immemorabile in terra d'Abruzzi le donne cantavano su le spoglie dei consanguinei. Era l'eloquio melodioso del sacro dolore che rinveniva spontaneamente nelle profondità dell'essere quel ritmo ereditario su cui le antiche madri avevano modulato il lor pianto.

Ella cantava, ella cantava:

- Apri gli occhi, àlzati, cammina, figlio mio! Come sei bello! Come sei bello!

Cantava:

- Per un tozzo di pane t'ho annegato, figlio mio! Per un tozzo di pane t'ho portato al macello, figlio mio! Per questo t'ho allevato!

Ma la femmina irosa, dal naso adunco, la interruppe:

- Non l'hai annegato tu. È stato il Destino. Tu non l'hai portato al macello. L'avevi messo in mezzo al pane.

E, facendo un gesto verso la collina dov'era la casa che aveva ospitato il fanciullo, soggiunse:

- Lo tenevano, , come un garofano all'orecchio.

Seguitava la madre:

- O figlio mio, chi t'ha mandato, chi t'ha mandato qui ad annegarti?

E la femmina irosa:

- Chi l'ha mandato? Nostro Signore. Gli ha detto: «Va nel mare e perditi

Come Giorgio accertava sottovoce a uno degli astanti che soccorso in tempo il bambino avrebbe potuto salvarsi e che era stato ucciso da colui che l'aveva capovolto e tenuto sospeso per i piedi, - sentì sopra di sé fisso lo sguardo della madre.

- Fagli tu qualche cosa, signore! - ella pregò. - Fagli tu qualche cosa!

Ella pregò:

- O Madonna dei Miracoli, fa il miracolo!

Toccando il capo del morto, ripeté:

- Figlio! Figlio! Figlio! Àlzati! Cammina!

Stava di fronte a lei in ginocchio il fratello del morto; e singhiozzava senza dolore, di tratto in tratto guardandosi intorno con un volto divenuto all'improvviso indifferente. Un altro fratello, il maggiore, stava seduto poco lontano all'ombra d'un macigno; e simulava il lutto celando il volto tra le palme. Le femmine, volendo consolare la madre, si chinavano intorno a lei con atti di pietà e accompagnavano di qualche gemito la monodìa.

Ella cantava:

- Perché t'ho allontanato dalla mia casa? Perché t'ho mandato alla morte? Tutto ho fatto per sfamare i figli miei; tutto, tutto, tutto, fuor che la femmina da guadagno. E per un tozzo t'ho perduto! Così, così dovevi finire! T'hanno annegato, figlio mio!

Allora colei dal naso rapace si alzò le sottane, in un impeto di collera; entrò nell'acqua sino al ginocchio; e gridò:

- Guarda! Qui è arrivato. Guarda! L'acqua è come l'olio. È segno che così doveva morire.

Risalì con due passi alla riva.

- Guarda! - ripeté indicando su la ghiaia l'orma profonda di colui che aveva raccolto il corpo. - Guarda!

La madre guardava stupefatta; ma pareva che non vedesse, che non comprendesse. Dopo gli scoppii disperati del dolore, avvenivano in lei pause brevi, quasi oscuramenti della conscienza. Ella taceva; si toccava un piede, una gamba, con un gesto macchinale; si asciugava le lacrime col grembiule nero; sembrava acquetarsi. D'improvviso, un nuovo scoppio la scoteva tutta quanta, l'abbatteva sul cadavere.

- E non ti posso portar via! Non ti posso portare nella chiesa con queste braccia! Figlio! Figlio!

Ella lo palpava dal capo ai piedi, lo accarezzava pianamente. La sua angoscia selvaggia s'addolciva in una infinita tenerezza. La sua mano adusta e callosa di lavoratrice si faceva infinitamente soave quando toccava gli occhi, la bocca, la fronte del figliuolo.

- Come sei bello! Come sei bello!

Ella gli toccò il labbro inferiore, ch'era violaceo; e, come glie lo strinse alquanto, dalla bocca sgorgò una spuma bianchiccia. Ella gli tolse di tra le ciglia qualche bruscolo, a poco a poco, quasi temendo di fargli male.

- Come sei bello, cuore della mamma!

Lunghe, assai lunghe erano le ciglia, e bionde. Su le tempie, su le guance era una lanugine leggera, chiara come oro.

- Non m'ascolti? Àlzati! Cammina!

Ella prese il piccolo cappello logoro e molle come un cencio. Lo guardò, lo baciò. Disse:

- Con questo io voglio farmi un breve e voglio portarlo sempre nel petto.

Prese la cintura rossa; e disse:

- Lo voglio vestire.

La femmina grifagna, che non abbandonava il luogo, assentì:

- Ora lo vestiamo.

Tolse ella medesima gli abiti di sotto al capo del morto; frugò nella tasca della giacchetta e trovò un pezzo di pane e un fico.

- Vedi? Gli avevano dato il suo mangiare allora allora. Lo tenevano come un garofano all'orecchio.

La madre guardò la piccola camicia sucida e lacera su cui le lacrime stillavano; e disse:

- Gli metterò questa camicia!

La femmina, pronta, diede una voce verso l'altura a uno de' suoi:

- Porta sùbito giù una camicia nuova di Nufrillo!

Fu portata la camicia nuova. Come la madre sollevò il morticino, dalla bocca escì un poco d'acqua e colò giù per il petto.

- O Madonna dei Miracoli, fa il miracolo! - ella pregò volgendo gli occhi al cielo con una suprema implorazione.

Poi riadagiò la sua dolce creatura. Prese la camicia vecchia, la fascia rossa, il cappello; li avvolse insieme in un fardelletto; e disse:

- Questo sarà il mio guanciale; su questo poserò sempre, la notte; su questo voglio morire.

Mise la grama reliquia su la ghiaia, presso il capo del figliuolo; e sopra vi posò la tempia, distendendosi come in un letto.

Ambedue, la madre e il figliuolo, ora giacevano l'una a fianco dell'altro su le dure pietre, sotto il cielo infiammato, presso il mare micidiale. Ed ella ora cantava la medesima cantilena che un tempo aveva diffuso il puro sonno su la culla.

- Lèvati, Riccangela! Lèvati! - sollecitavano le femmine intorno.

Ella non le ascoltava.

- Il figlio mio può stare così su le pietre e io non posso starci? Così, su le pietre, il figlio mio!

- Lèvati, Riccangela! Vieni!

Ella si levò. Guardò ancóra con una terribile intensità il piccolo viso livido del morto. Chiamò ancóra una volta con tutta la forza della sua voce:

- Figlio! Figlio! Figlio!

Poi ella medesima ricoprì la sorda spoglia col lenzuolo.

E le femmine la circondarono, la trassero poco discosto, all'ombra d'un macigno; la costrinsero a sedersi, gemettero con lei.

A poco a poco gli spettatori si sbandavano, si dileguavano. Rimasero soltanto alcune delle consolatrici. Rimase l'uomo vestito di lino, il custode impassibile, che aspettava la Corte. Il sole canicolare feriva la ghiaia, dava al lenzuolo funebre una bianchezza allucinante. Il promontorio levava nell'ardore la sua aridità desolata, a picco su la scogliera anfrattuosa. Il mare, immenso e verde, respirava sempre eguale. E pareva che l'ora lenta non dovesse aver mai fine.

All'ombra del macigno, di contro al lenzuolo bianco sollevato dalla forma rigida del cadavere, la madre continuava la sua monodìa nel ritmo fatto sacro da tanto antico e nuovo dolore di sua gente. E pareva che il pianto non dovesse aver mai fine.

 

 

 

IX

 

Tornando dalla cappella del Porto, Ippolita aveva saputo l'avvenimento. Accompagnata da Elena, aveva voluto raggiungere Giorgio su la spiaggia. Ma, in vicinanza del luogo tragico, alla vista del lenzuolo biancheggiante su la ghiaia, ella aveva sentito venir meno la forza. Presa da un impeto di pianto, era tornata indietro, era rientrata nella casa, aveva aspettato Giorgio piangendo.

Ella non tanto s'impietosiva sul piccolo morto quanto su sé medesima, ripensando al pericolo ch'ella aveva corso nel bagno recente. E una repulsione istintiva, indomabile, le sorgeva contro quel mare.

- Non voglio più bagnarmi nel mare; non voglio che tu ti bagni - ella impose a Giorgio, quasi con durezza, manifestando un proposito fermo e tenace. - Non voglio. Intendi?

Passarono il resto della domenica in una inquietudine angosciosa, affacciandosi di continuo alla loggia per guardare la macchia bianca su la riva sottostante. Giorgio conservava negli occhi l'imagine del cadavere distinta da un rilievo così fiero che quasi gli pareva tangibile. E aveva negli orecchi la cadenza della monodìa materna. - Continuava ancóra la madre il suo lamento all'ombra del macigno? Era rimasta sola dinanzi al mare e dinanzi alla morte? - Egli rivide nella sua anima un'altra madre. Rivisse l'ora del lontano mattino di maggio nella casa lontana: quando aveva sentito d'improvviso la vita di lei avvicinata alla sua propria vita, quasi aderente, e le rispondenze misteriose del sangue comune, e la tristizia del destino sospeso sul capo di entrambi. - L'avrebbe egli riveduta con i suoi occhi mortali? Avrebbe egli riveduto quel fievole sorriso che non moveva alcuna linea del volto, ma pareva mettere anche un tenue velo di speranza, ahi troppo fuggitivo, su le impronte indelebili del dolore? Avrebbe egli ribaciata quella mano lunga e scarna dalla carezza non somigliante ad alcun'altra? - E rivisse l'ora lontana delle lacrime: quando alla finestra egli aveva avuto dal lume d'un sorriso la tremenda rivelazione; quando aveva riudito finalmente la voce cara, la voce unica, indimenticabile, di conforto, di consiglio, di perdono, d'infinita bontà; quando aveva riconosciuto finalmente la tenera creatura d'un tempo, l'adorata. E rivisse l'ora dell'addio, dell'addio senza lacrime e pure amarissimo, in cui egli aveva mentito per pudore leggendo negli stanchi occhi della madre delusa una domanda troppo triste: «Per chi mi abbandoni?» E tutte le tristezze passate gli ritornarono nello spirito, e tutte le dolenti imagini: - il volto estenuato di lei, le palpebre di lei gonfie rosse arse, il sorriso dolce e straziante di Cristina, il bimbo malaticcio dalla grossa testa sempre china sul petto quasi esanime, la maschera cadaverica della povera mentecatta ingorda... E gli occhi stanchi della madre ripetevano: «Per chi mi abbandoni

Egli si sentiva penetrare come da un'onda molle, si illanguidiva, si disfaceva; provava un bisogno vago di piegare la fronte, di nascondere la faccia in un grembo, di essere castamente blandito, di assaporar lentamente la sua chiusa amarezza, di assopirsi, di perire a poco a poco. Pareva che tutte le effeminazioni della sua anima si dischiudessero insieme e fluttuassero.

Passò giù nella viottola un uomo portando su la testa una piccola cassa mortuaria di abete bianco.

Nel pomeriggio inoltrato giunse su la spiaggia la Corte. Il morticino fu tolto di su le pietre, fu trasportato su per l'altura, disparve. Giunsero fino all'Eremo acute grida. Poi tutto tacque. Il silenzio occupò i luoghi intorno, salendo dal mare in calma.

Così calmo era il mare, così calma era l'aria che quasi pareva sospesa la vita. Ovunque il colore del più chiaro indaco era sparso, eguale.

Ippolita era rientrata, s'era distesa sul letto. Giorgio era rimasto su la loggia seduto. Ambedue soffrivano e non potevano dirsi la loro pena. Il tempo fluiva.

- M'hai chiamato? - domandò Giorgio, avendo creduto udire il suo nome.

- No - ella rispose.

- Che fai? T'addormenti?

Ella non rispose.

Giorgio si riadagiò su la sedia, socchiuse gli occhi. Il suo pensiero andava pur sempre verso la Montagna. Egli sentiva in quel silenzio il silenzio dell'orto solingo nell'abbandono: dove i cipressetti alti e diritti sorgevano immobili al cielo, con santità, come ceri votivi; dove scendeva una religiosa dolcezza di memorie dalle finestre delle deserte stanze rimaste intatte come reliquiarii.

E gli apparve l'uomo dolce e meditativo, quel volto pieno d'una malinconia virile, a cui dava un'espressione strana una ciocca bianca tra i capelli oscuri, che gli si partiva di sul mezzo della fronte.

«Ah perché» egli diceva a Demetrio «perché non obbedii al tuo suggerimento l'ultima volta che rientrai nelle stanze ancóra abitate dal tuo spirito? Perché volli di nuovo tentare la vita e coprirmi d'ignominia ai tuoi occhi? Come ho potuto perdermi a cercare la sicurtà nel possesso di un'altra anima, mentre possedevo la tua, mentre tu vivevi in me?»

Dopo la morte fisica, l'anima di Demetrio si era preservata nel superstite senza diminuzione alcuna, salendo anzi e rimanendo al supremo grado della sua intensità. Tutto ciò che nella persona vivente si disperdeva al contatto dei suoi simili; tutti i suoi atti e i suoi gesti e i suoi detti, nel corso del tempo; tutte le manifestazioni varie che formavano lo special carattere del suo essere in rapporto con gli altri esseri; tutte le forme costanti e variabili che distinguevano la sua persona tra le altre persone, e tra la moltitudine umana particolarizzavano la sua umanità; tutti insomma i segni della sua vita tra le altre vite s'erano raccolti, circonscritti, concentrati nella sola attenenza ideale che legava il defunto al superstite. E il divino ostensorio, custodito nel Duomo della città natale, pareva consacrare questo alto mistero. Ego Demetrius Aurispa et unicus Georgius filius meus...

La creatura impura, che ora giaceva sul letto della sua lussuria, erasi interposta. La terribile contaminatrice non era soltanto l'ostacolo alla vita ma ben anche l'ostacolo alla morte: a quella morte. Ella era la Nemica d'entrambi.

E Giorgio in ispirito peregrinò verso la Montagna, raggiunse la vecchia casa, entrò nelle stanze deserte; come nel giorno di maggio, varcò la soglia tragica. Come in quel giorno, sentì su la sua volontà l'imposizione oscura. Prossimo era il quinto anniversario. In qual modo l'avrebbe egli celebrato?

Un grido improvviso d'Ippolita gli diede un sussulto violento. Egli balzò in piedi, accorse.

- Che hai?

Seduta sul letto, sbigottita, ella si passava le mani su la fronte e su le palpebre come per toglierne qualche cosa che la tormentasse. Fissò su l'amante i suoi grandi occhi torbidi. Poi, con un atto repentino, gli gittò le braccia al collo e gli coprì di baci e di lacrime la faccia.

- Ma che hai? Che hai? - egli chiedeva, attonito, inquieto.

- Nulla, nulla...

- Perché piangi?

- Ho sognato...

- Che hai sognato? Dimmi!

Ella non rispose; lo strinse e lo baciò ancóra.

Egli le prese i polsi, liberandosi dal vincolo. Volle guardarla nel volto.

- Dimmi! Dimmi! Che hai sognato?

- Nulla... un brutto sogno.

- Che sogno?

Ella si difendeva dell'insistenza. In lui cresceva il turbamento col desiderio di sapere.

- Ma dimmi!

Di nuovo tutta scossa dal raccapriccio, ella balbettò:

- Ho sognato... che scoprivo il lenzuolo, laggiù... e vedevo te...

Soffocò la parola nei baci.

 

 

 


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