Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
Il trionfo della morte
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LIBRO SESTO L'INVINCIBILE

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LIBRO SESTO

 

L'INVINCIBILE

 

 

 

I

 

Scelto da un amico e preso a nolo in Ancona, spedito a San Vito, trasportato fino all'Eremo con gran pena, il pianoforte giunse tra le allegrezze infantili d'Ippolita. Fu collocato nella stanza che Giorgio chiamava la biblioteca, nella stanza più vasta e più adorna, ov'era il divano carico di cuscini, ov'erano le lunghe sedie di vimini, l'amaca, le stuoie, i tappeti, tutte le cose favorevoli alla vita orizzontale e al sogno. Giunse anche, da Roma, la cassa dei libri di musica.

Allora, per alcuni giorni, fu una nuova ebrezza. Entrambi furono invasi da un'eccitazione quasi folle; trascurarono ogni consuetudine; dimenticarono tutto; si profondarono interamente in quel piacere.

Non pativano più l'afa dei lunghi pomeriggi; non provavano più le gravi sonnolenze irresistibili; potevano prolungare le veglie sin quasi all'alba; potevano prolungare il digiuno oltre l'ora, senza soffrirne, senza accorgersene, quasi che la loro vita corporale si affinasse, quasi che la loro sostanza si sublimasse spogliandosi dei bisogni vili. Credevano di sentir crescere chimericamente la loro passione oltre ogni limite, giungere a una prodigiosa potenza la palpitazione dei loro cuori. Credevano talvolta di ritrovare quel minuto di oblìo supremo, quel minuto unico, ch'era passato sopra di loro nel primo crepuscolo; credevano talvolta di ritrovare quella sensazione indefinibile, di sentire indefinitamente disperdersi nell'aria la loro sostanza resa leggera come un vapore. E ad ambedue talvolta il punto ove respiravano pareva indefinitamente lontano dai luoghi conosciuti, remotissimo, isolato, ignorato, non accessibile, quasi fuori del mondo.

Una virtù misteriosa li riavvicinava, li congiungeva, li mesceva, li fondeva l'un nell'altra, li rendeva simili nella carne e nell'anima, li riuniva in un essere solo. Una virtù misteriosa li separava, li faceva estranei, li respingeva nella solitudine, apriva tra di loro un abisso, metteva in fondo a loro un desiderio disperato e mortale.

Entrambi gioivano e soffrivano in questa vicenda. Risalivano alla prima estasi del loro amore e discendevano all'ultimo inutile sforzo di possedersi; e risalivano ancóra, risalivano al principio della grande illusione, respiravano l'ombra mistica ove per la prima volta le loro anime tremando avevano scambiata una stessa muta parola; e ancóra discendevano, discendevano verso il supplizio dell'aspettazione delusa, entravano in un'atmosfera d'opaca e soffocante caligine simile a un turbine di faville e di ceneri calde.

Ciascuno di quei musici maghi ch'essi prediligevano tesseva intorno alla lor sensibilità acuita un diverso incantesimo. Una Pagina di Roberto Schumann evocava il fantasma d'un amore inveterato che aveva disteso sopra di sé a guisa d'un artifiziale firmamento il tessuto delle sue memorie più belle e con una dolcezza attonita e triste lo vedeva a poco a poco impallidire. Un Improvviso di Federico Chopin diceva come in sogno: «Odo nella notte quando tu dormi sul mio cuore, odo nel silenzio della notte una stilla che cade, che lenta cade, eguale continua cade, così da presso, così lontano! Odo nella notte la stilla che dal mio cuore cade, lo stillante sangue che dal mio cuore cade, quando tu dormi, quando tu dormi, io solo.» Alti cortinaggi di porpora, cupi come la passione senza scampo, intorno a un letto profondo come un sepolcro evocava l'Erotica di Edoardo Grieg: e una promessa di morte in una voluttà silenziosa; e un ismisurato dominio, ricco di tutti i beni della terra, aspettante in vano il suo re scomparso, il suo re nella nuziale e funerale porpora morituro. Ma nel preludio del Tristano e Isolda l'anelito dell'amore verso la morte irrompeva con una veemenza inaudita, il desiderio insaziabile si esaltava in una ebrezza di distruzione.

«...Per bere laggiù in onor tuo la coppa dell'amore eterno, io voleva consacrarti con me sul medesimo altare alla morte

E quell'immenso vortice di armonie li avviluppò entrambi irresistibilmente, li serrò, li trascinò; li rapì nel «meraviglioso impero».

Non sul meschino istrumento che non poteva rendere neppure una fievole eco della pienezza torrenziale, ma nell'eloquenza, ma nell'entusiasmo dell'esegeta comprendeva Ippolita tutta la grandiosità di quella Rivelazione tragica. E, come un giorno la deserta città guelfa dei conventi e dei monasteri, così ora alle parole dell'amante le appariva nella fantasia la vecchia città grigia di Bayreuth solinga al conspetto delle montagne bàvare in un paesaggio mistico ov'era diffusa la stessa anima che Albrecht Dürer imprigionò in intrichi di segni al fondo delle sue stampe e delle sue tele.

Giorgio non aveva dimenticato alcun episodio di quel suo primo pellegrinaggio religioso verso il Teatro Ideale; poteva rivivere tutti gli attimi della straordinaria emozione nell'ora in cui aveva scorto su la dolce collina, all'estremità del gran viale arborato, l'edificio sacro alla festa suprema dell'Arte; poteva ricomporre la solennità del vasto anfiteatro cinto di colonne e d'archi, il mistero del Golfo Mistico. - Nell'ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio estatico di tutte le anime, su dall'orchestra invisibile un sospiro saliva, un gemito spirava, una voce sommessa diceva il primo dolente richiamo del desiderio in solitudine, la prima confusa angoscia nel presentimento del supplizio futuro. E quel sospiro e quel gemito e quella voce dall'indefinita sofferenza all'acuità di un impetuoso grido si elevavano dicendo l'orgoglio d'un sogno, l'ansia di un'aspirazione sovrumana, la volontà terribile e implacabile di possedere. Con una divorante furia, come un incendio all'improvviso erotto da un abisso ignorato, il desiderio si dilatava, s'agitava, fiammeggiava sempre più alto, sempre più alto, alimentato dalla più pura essenza di una duplice vita. Tutte le cose abbracciava l'ebrezza della fiamma canora; tutte le cose del mondo sovrane vibravano perdutamente nell'immensa ebrezza ed esalavano la loro gioia e il loro dolore più occulti sublimandosi, consumandosi. Ma, ecco, gli sforzi d'una resistenza, ma le collere d'una lotta fremevano, stridevano nell'impeto di quell'ascensione turbinosa; ma contro un invisibile ostacolo quel gran getto vitale si frangeva d'improvviso, ricadeva, s'estingueva, non risorgeva più. Nell'ombra e nel silenzio dello spazio raccolto, nell'ombra e nel silenzio trepido di tutte le anime, su dal Golfo Mistico un sospiro saliva, un gemito moriva, una voce estenuata diceva la tristezza dell'eterna solitudine, l'aspirazione verso l'eterna notte, verso il divino originario oblìo.

Ed ecco, un'altra voce, di realtà umana, modulata da labbra umane, giovine e forte, mista di malinconia e d'ironia e di minaccia, cantava una canzone del mare, dall'alto dell'albero, sul naviglio recante a Re Marco la bionda sposa irlandese. Cantava: «Verso occidente erra lo sguardo, verso oriente fila il naviglio. Fresco soffia il vento verso la terra natale. O figlia d'Irlanda, ove t'induci tu? Gonfiano la mia vela i tuoi sospiri? Soffia, soffia, o vento! Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor selvaggioEra l'ammonimento, era l'annunzio profetico della vedetta, allegro e minaccioso, carezzevole e beffardo, indefinibile. E l'orchestra taceva. «Soffia, soffia, o vento! Sventura, ah sventura, fanciulla d'Irlanda, amor selvaggio!» La voce cantava sola sul mare tranquillo, nel silenzio; mentre sotto la tenda Isolda, immobile sul suo letto, pareva profondata nel sogno oscuro del suo destino.

S'apriva così il Dramma. Il tragico soffio, che già aveva agitato il preludio, passava e ripassava nell'orchestra. Subitamente la potenza di distruzionemanifestava nella donna maga contro l'uomo da lei eletto, da lei votato alla morte. La sua collera irrompeva con l'energia dei ciechi elementi, invocava tutte le forze terribili della terra e del cielo a distruggere l'uomo ch'ella non poteva possedere. «Svégliati al mio appello, potenza intrepida, lèvati su dal cuore ove ti sei celata! O vènti incerti, ascoltate la mia volontà! Scotete dal letargo questo sognante mare, risuscitate dal suo fondo la cupidigia implacabile, mostrategli la preda che io gli offro! Infrangete la nave, inghiottite i rottami! A voi, o vènti, tutto che qui palpita e respira io do in premio.» All'ammonimento della vedetta rispondeva il presentimento di Brangæne. «Ah sventura! Quale ruina io presento, o Isolda!» E la dolce e devota donna si affannava a placare quel folle furore. «Oh dimmi la tua tristezza, dimmi il tuo segreto, Isolda!» E Isolda: «Il mio cuore soffoca. Apri, apri la cortina tutta quanta!»

Tristano appariva, in piedi, immobile, con le braccia conserte, con lo sguardo fisso nelle lontananze del mare. Dall'alto dell'albero la vedetta riprendeva la sua canzone, su l'onda saliente dell'orchestra. «Sventura, ah sventura!...» E, mentre gli occhi d'Isolda accesi d'una cupa fiamma contemplavano l'eroe, sorgeva dal Golfo Mistico il motivo fatale, il grande e terribile simbolo di amore e di morte, in cui era chiusa tutta l'essenza della tragica finzione. E Isolda con la sua bocca medesima proferiva la condanna: «Da me eletto, da me perduto».

La passione metteva in lei una volontà omicida, le svegliava nelle radici dell'essere un istinto ostile all'essere, un bisogno di dissolvimento, d'annientamento. Ella s'esasperava cercando in sé, intorno a sé una potenza fulminea che colpisse e distruggesse senza lasciar vestigio. Il suo odio si faceva più atroce al conspetto dell'eroe calmo ed immobile che sentiva sul suo capo addensarsi la minaccia e sapeva l'inutilità d'ogni difesa. La sua bocca s'empiva di sarcasmo amaro. «Che pensi tu di quel servo?» ella chiedeva a Brangæne, con un sorriso inquieto. Ella faceva servo un eroe, si dichiarava dominatrice. «Digli che io comando al mio vassallo di temere la sua sovrana: me, Isolda.» Ella gli inviava così la disfida a una suprema lotta; ella gittava così l'appello della forza alla forza. Una cupa solennità accompagnava il passo dell'eroe verso la soglia della tenda, quando era scoccata l'ora irrevocabile, quando il filtro aveva già riempita la coppa e il destino aveva già stretto il suo cerchio intorno alle due vite. Isolda, appoggiata al suo letto, pallida come se la gran febbre avesse consumato tutto il sangue delle sue vene, attendeva in silenzio; in silenzio appariva su la soglia Tristano: entrambi alti di tutta la loro altezza. Ma l'orchestra diceva l'indicibile ansietà dei loro cuori.

Da quel momento ricominciava la turbinosa ascensione. Pareva che di nuovo il Golfo Mistico s'infiammasse come una fornace e lanciasse in alto, sempre più in alto le sue fiamme sonore. «Conforto unico a un lutto eterno, salutare bevanda d'oblìo, senza tema io ti bevo!» E Tristano accostava la coppa alle labbra. «A me la metà! Per te io la bevogridava Isolda strappandogli la coppa dalle mani. Vuota la coppa d'oro cadeva. - Avevano essi entrambi bevuta la morte? Dovevano essi morire? - Attimo di sovrumana agonia. Il filtro di morte non era se non un veleno d'amore che li penetrava d'un fuoco immortale. Entrambi da prima attoniti, immobili, si guardavano cercando ne' loro occhi l'indizio della fine a cui credevano d'essere omai sacri. Ma una vita nuova, incomparabilmente più intensa di quella che avevano vissuta, agitava tutte le loro fibre, palpitava nelle loro tempie e nei loro polsi, gonfiava d'un'immensa onda i loro cuori. «Tristano!» «Isolda!» Si chiamavano a vicenda; erano soli; nulla rimaneva intorno; tutte le apparenze erano scomparse; il passato era abolito; il futuro non era se non una tenebra che non potevano rompere neppure i baleni della repentina ebrezza. Essi vivevano; si chiamavano con una vivente voce; tendevano l'un verso l'altra per una fatalità che nessuna forza omai poteva arrestare. «Tristano!» «Isolda

E la melodia di passione si dispiegava, si allargava, si esaltava, palpitava e singhiozzava, gridava e cantava, su la profonda tempesta delle armonie sempre più agitate. Dolorosa e gaudiosa volava irresistibilmente verso i culmini delle estasi sconosciute, verso le cime della suprema voluttà. «Liberato dal mondo, io ti posseggo dunque, o tu che sola riempi l'anima mia, suprema voluttà d'amore

«Salute! Salute a Marco! Salutegridava la ciurma, tra gli squilli delle trombe, salutando il Re che moveva dalla riva ad incontrare la sposa bionda. «Salute a Cornovaglia

Era lo strepito della vita comune, era il clamore della gioia profana, era lo splendore abbagliante del giorno. Chiedeva l'Eletto, chiedeva il Perduto levando lo sguardo ove cupa fluttuava la nube del sogno: «Chi s'appressa?» «Il Re.» «Qual ReChiedeva Isolda, pallida e convulsa sotto il manto regale: «Dove sono? Vivo io ancóra? Debbo io ancóra vivereDolce e terribile il motivo del filtro saliva, li avvolgeva, li serrava nella sua spira ardente. Le trombe squillavano. «Salute a Marco! Salute a Cornovaglia! Gloria al Re

Ma nel secondo preludio tutti i singhiozzi di una gioia troppo forte, tutti gli aneliti del desiderio esasperato, tutti i sussulti dell'aspettazione furiosa si alternavano, si mescevano, si confondevano. L'impazienza dell'anima feminile comunicava i suoi fremiti a tutta la notte, a tutte le cose nella pura notte d'estate respiranti, vigilanti. A tutte le cose l'anima ebra gittava i suoi richiami perché rimanessero deste sotto le stelle, perché assistessero alla festa del suo amore, al nuzial convito della sua allegrezza. Insommergibile, fluttuava su l'inquieto oceano armonico la melodia fatale, rischiarandosi, oscurandosi. L'onda del Golfo Mistico, simile al respiro d'un petto sovrumano, si gonfiava, si levava, ricadeva per risollevarsi, per ricadere ancóra, per diminuir pianamente.

«Odi tu? A me sembra che lo strepito sia già dileguato nella lontananzaIsolda non udiva se non i suoni che le fingeva il suo desiderio. Le fanfare della caccia notturna echeggiavano per la foresta, distinte, da presso. «È l'ingannevole susurro delle frondi che il vento agita ne' suoi giochi... Non è dei corni questo suono così dolce. È il murmure della fonte che pullula, che scorre, nella notte silenziosa...» Ella non udiva se non i lusinghevoli suoni che suscitava nella sua anima il desiderio componendo l'antica e sempre nuova malìa. Come nei sensi dell'illusa, così nell'orchestra le sonorità della caccia si trasformavano, si mutavano per incantesimo, si dissolvevano negli infiniti rumori della foresta, nella misteriosa eloquenza della notte d'estate. Tutte le sommesse voci, tutte le tenui lusinghe avvolgevano l'anelante, le suggerivano la prossima ebrezza; mentre invano Brangæne ammoniva, supplicava, nel terrore del suo presentimento. «Oh lascia che risplenda la fiaccola protettrice! lascia che la sua luce ti mostri il pericolo!» Nulla valeva a rischiarare la cecità del desiderio. «Fosse anche la fiaccola della mia vita, senza paura io la spegnerei! Senza paura io la spengo.» Con un gesto di supremo disdegno, superba e intrepida, Isolda gittava a terra la fiaccola; offriva la sua vita e quella dell'Eletto alla notte fatale; entrava con lui nell'ombra per sempre.

Allora il più inebriante poema della passione umana si svolgeva trionfalmente come in una spira attingendo le sommità dello spasimo e dell'estasi. Era la prima stretta frenetica, mista di gaudio e d'angoscia, in cui le anime avide di confondersi incontravano l'ostacolo impenetrabile dei corpi. Era il primo rammarico verso il tempo in cui non esisteva l'amore, verso il passato vacuo ed inutile. Era l'odio verso la luce ostile, verso il perfido giorno che acuiva ogni pena, che suscitava tutte le fallaci apparenze, che favoriva l'orgoglio ed opprimeva la tenerezza. Era l'inno alla notte amica, all'ombra benefica, al divino mistero ove s'aprivano le meraviglie delle visioni interiori, ove s'udivano le lontane voci dei mondi, ove fiorivano ideali corolle su steli inflessibili. «Da che il sole s'è occultato nel nostro petto, le stelle della felicità diffondono il loro lume ridente

E nell'orchestra parlavano tutte le eloquenze, cantavano tutte le gioie, piangevano tutti i dolori che mai voce umana espresse. Su da le profondità sinfoniche le melodie emergevano, si svolgevano, s'interrompevano, si sovrapponevano, si mescevano, si stempravano, si dileguavano, sparivano per riemergere. Una specie di ansia sempre più irrequieta e tormentosa passava per tutti gli strumenti, significando un continuo e sempre vano sforzo di raggiungere l'inarrivabile. Nell'impeto delle progressioni cromatiche era il folle inseguimento d'un bene che sfuggiva ad ogni presa pur da vicino balenando. Nelle mutazioni di tono, di ritmo, di misura, nelle successioni di sincopi era una ricerca senza tregua, era una bramosia senza limiti, era il lungo supplizio del desiderio sempre deluso e mai estinto. Un motivo, simbolo dell'eterno desiderio eternamente esasperato dal possesso fallace, tornava ad ogni tratto con una persistenza crudele; si allargava, dominava, ora illuminando le sommità delle onde armoniche, ora oscurandole d'un'ombra tragica.

La tremenda virtù del filtro operava su l'anima e su la carne dei due amanti già consacrati alla morte. Nulla poteva spegnere o lenire quell'ardore fatale: nulla fuor che la morte. Entrambi avevano tentato invano tutte le carezze, avevano raccolto invano tutte le loro forze per congiungersi in un abbraccio supremo, per possedersi ultimamente, per divenire un solo unico essere. I loro sospiri di voluttà si mutavano in singhiozzi d'angoscia. Un ostacolo infrangibile s'interponeva tra l'uno e l'altra, li separava, li rendeva estranei e solitarii. Nella loro sostanza corporea, nella loro persona vivente, era l'ostacolo. E un odio segreto nasceva in entrambi: un bisogno di distruggersi, di annientarsi; un bisogno di far morire e di morire. Nella carezza medesima essi riconoscevano l'impossibilità di trascendere il limite materiale de' loro sensi umani. Le labbra incontravano le labbra e s'arrestavano. «Che mai» diceva Tristano «che mai soccomberebbe alla morte se non quel che ci separa, se non quel che impedisce a Tristano d'amar per sempre Isolda, di vivere in eterno per lei sola?» Ed essi entravano già nell'ombra infinita. Il mondo delle apparenze scompariva. «Così» diceva Tristano «così noi morimmo, non volendo vivere se non per l'amore, inseparati, sempre congiunti, senza fine, senza risveglio, senza tema, senza nome nel seno dell'amore...» Le parole si udivano distinte sul pianissimo dell'orchestra. Una nuova estasi rapiva i due amanti e li sollevava alla soglia del meraviglioso impero notturno. Essi pregustavano già la beatitudine del dissolvimento, si sentivano già liberati dal peso della persona, sentivano già la loro sostanza sublimarsi e fluttuare diffusa in una gioia senza fine. «Senza fine, senza risveglio, senza tema, senza nome...»

«Vigilate! Vigilate! Ecco, la notte cede al giorno» ammoniva Brangæne invisibile, dall'alto. «Vigilate!» E il brivido del gelo mattutino attraversava il parco, risvegliava i fiori. Il freddo lume dell'alba lentamente saliva a coprire le stelle che palpitavano più forte. «Vigilate

Invano la fedele ammoniva. Essi non ascoltavano; non volevano, non potevano risvegliarsi. Sotto la minaccia del giorno, si profondavano sempre più in quell'ombra ove non poteva giungere mai bagliore di crepuscolo. «Che in eterno la notte ci avvolga!» E un turbine di armonie li avvolgeva, li serrava nelle sue spire veementi, li trasportava nella remota plaga invocata dal loro desiderio, dove nessuna angoscia opprimeva l'impeto dell'anima amante, oltre ogni languore, oltre ogni dolore, oltre ogni solitudine, nell'infinita serenità del loro sogno supremo.

«Sàlvati, TristanoEra il grido di Kurwenal, che seguiva il grido di Brangæne. Era l'assalto improvviso e brutale che interrompeva l'amplesso estatico. E mentre nell'orchestra persisteva il tema dell'amore, il motivo della caccia scoppiava con un fragore metallico. Il Re e i cortigiani apparivano. Tristano celava col suo ampio mantello Isolda reclinata sul letto dei fiori: la sottraeva agli sguardi e alla luce, affermando in quel gesto il suo dominio, significando il suo diritto non dubbio. «Il triste giorno, per l'ultima volta!» Egli accettava per l'ultima volta, nell'attitudine calma e ferma dell'eroe, il contrasto con le forze estranee: omai sicuro che nulla poteva mutare o arrestare il corso del suo fato. Mentre il sovrano dolore di Re Marco si esalava in una melopea lenta e profonda, egli taceva immoto nel suo pensiero segreto. E infine egli rispondeva alle domande del Re: «Questo mistero io non posso a te svelarlo. Tu non potrai giammai conoscere quel che tu chiedi.» Il motivo del filtro addensava su la risposta l'oscurità del mistero, la gravità dell'evento irreparabile. «Vuoi tu seguire Tristano, o Isolda?» egli chiedeva alla regina, semplicemente, al conspetto di tutti. «Sulla terra ove andare io voglio, non risplende il sole. È la terra della tènebra, è il paese notturno, d'onde mia madre un tempo m'inviò quando, concepito da lei nella morte, io venni nella morte alla luce...» E Isolda: « dove è la patria di Tristano, andar vuole Isolda. Ella vuol seguirlo, dolce e fedele, pel cammino ch'egli le mostrerà...»

E in quella terra la precedeva l'eroe moribondo, ferito dal traditore Melot.

Levavasi intanto dal terzo preludio la visione del lido remoto, delle rocce aride e desolate ne' cui seni occulti il mare piangeva senza tregua come un inconsolabile duolo. Un vapore di leggenda e di poesia misteriosa avviluppava le forme rigide del sasso, che apparivano come in un'alba incerta o in un vespero quasi estinto. E il suono della sampogna pastorale risvegliava le imagini confuse della vita trascorsa, delle cose perdute nella notte dei tempi.

«Che dice l'antico lamentosospirava Tristano. «Dove son io?»

Il pastore modulava nella fragile canna la melodia imperitura, trasmessagli dai padri a traverso i tempi; ed era senza inquietudine nella sua profonda inconsapevolezza.

E Tristano, alla cui anima quegli umili suoni avevano tutto rivelato: «Non son rimasto dove mi son desto. Ma dove ho io fatto dimora? Non so dirtelo. non ho veduto il sole, né il paese, né gli abitanti; ma quel che ho veduto, io non so dirtelo... Era dove fui sempre, dove andrò per sempre: nel vasto impero dell'universal notte. Una sola unica scienza laggiù ci è data: il divino, l'eterno, l'originario oblìo!» Il delirio della febbre l'agitava; l'ardore del filtro lo corrodeva nell'intime fibre. «Ah, quel ch'io soffro tu non puoi soffrire! Questo terribile desiderio che mi divora, questo implacabile fuoco che mi consuma... Ah, se io potessi dirtelo, se tu potessi comprendermi

E il pastore inconsapevole soffiava, soffiava nella sua canna. L'aria era quella, le note erano sempre le stesse: parlavano della vita che non era più, parlavano delle lontane cose perdute.

«Vecchia e grave melodia» diceva Tristano, «con i tuoi lamentevoli suoni su i vènti della sera tu giungevi inquieta sino a me quando nel tempo remoto fu annunziata al fanciullo la morte del padre. Nell'alba cinerea, sempre più inquieta tu mi cercavi quando il figlio apprese la sorte della madre. Quando mio padre mi generò e morì, quando mia madre mi diede alla luce spirando, la vecchia melodia pur giungeva ai loro orecchi languida e triste. M'interrogò essa un giorno ed ecco m'interroga ancóra. Per qual destino io nacqui? Per qual destino? La vecchia melodia me lo ripete ancóra: - Per desiderare e morire! Per morire di desiderio! - Ah, no, no! Non questo è il tuo senso... Desiderare, desiderare, desiderare, fin nella morte; non di desiderio morire!...» Sempre più possente, sempre più tenace lo corrodeva il filtro nelle midolle. Tutto il suo essere si torceva nello spasimo insostenibile. L'orchestra crepitava a tratti come un rogo. Talvolta la violenza del dolore l'attraversava tutta con l'impeto d'una bufera, avvivando le fiamme. Sussulti subitanei la scotevano; grida atroci n'erompevano; singhiozzi soffocati vi si spegnevano. «Il filtro! Il filtro! Il terribile filtro! Con qual furia io lo sentii dal cuore al cervello salire! Nessun rimedio ora, nessuna dolce morte può liberarmi dalla tortura del desiderio. In nessun luogo, in nessun luogo, ahimè! troverò riposo. La notte mi respinge al giorno; e l'occhio del sole si pasce del mio perpetuo soffrire. Ah come il sole rovente mi brucia e mi consuma! E non il refrigerio d'un'ombra, mai, a questa divorante arsura! Quale balsamo potrebbe dare un sollievo all'orrendo mio strazio?» Egli portava nelle sue vene e nelle sue midolle il desiderio di tutti gli uomini, di tutta la specie, ammassato di generazione in generazione, aggravato dalle colpe di tutti i padri e di tutti i figli, dalle ebrezze di tutti, dalle angosce di tutti. Rifiorivano nel suo sangue i germi della concupiscenza secolare, si rimescolavano le più diverse impurità, ribollivano i più sottili e i più violenti veleni che fin nel tempo immemorabile purpuree bocche sinuose di femmine avevano infuso nei cùpidi maschi soggiogati. Egli era l'erede dell'eterno male. «Questo terribile filtro, che mi danna al supplizio, io, io medesimo lo composi! Con le agitazioni di mio padre, con gli spasimi di mia madre, con tutte le lagrime d'amore in altri tempi versate, col riso e col pianto, con le voluttà e con le ferite, io, io medesimo composi il tossico di questo filtro. E io lo bevvi, a lunghi sorsi di delizia... Maledetto sii tu, filtro terribile! Maledetto sia chi ti compose!» Ed egli ricadeva sul suo giaciglio, estenuato, esanime, per riprendere ancóra gli spiriti, per sentire ancóra ardere la sua piaga, per vedere ancóra con i suoi occhi allucinati l'imagine sovrana in atto di trascorrere i campi del mare. «Ella viene, ella viene su alti flutti d'inebrianti fiori mollemente cullata, verso la terra. Una divina consolazione ella su me versa col suo sorriso; il supremo refrigerio ella mi reca...» Così egli evocava, così egli vedeva, con quegli occhi omai chiusi alla comune luce, la Maga, la maestra dei balsami, la medicatrice d'ogni ferita. «Ella viene, ella viene! Non la vedi tu, Kurwenal, non la vedi tu ancóra?» E le onde commosse del Golfo Mistico risollevavano dal fondo confusamente tutte le melodie già note, le rimescolavano, le trascinavano, le sommergevano in un gorgo, le respingevano di nuovo alla superficie, le infrangevano: quelle che avevano espresso le ansietà del decisivo conflitto sul ponte della nave; quelle in cui erasi udito il gorgoglio del beveraggio versato nella coppa d'oro e il rombo delle arterie invase dal liquido fuoco; quelle in cui erasi udito il misterioso respiro della notte d'estate persuadente a voluttà senza fine; tutte le melodie con tutte le imagini, con tutte le ricordanze. E su quell'immenso naufragio alta, sovrana, implacabile la melodia fatale passava a intervalli ripetendo la condanna atroce: - Desiderare, desiderare, desiderare fin nella morte; non di desiderio morire!

«Il naviglio getta l'àncora! Isolda, ecco Isolda! Ella si slancia alla rivagridava Kurwenal dall'alto della torre. E nel delirio della gioia Tristano lacerava le bende della sua ferita, incitava il suo proprio sangue a scorrere in fiotti, a inondare la terra, a invermigliare il mondo. All'approssimarsi d'Isolda e della Morte, egli credeva udire la luce. «Non odo io la luce? Non odono i miei orecchi la luce?» Un gran sole interiore lo abbagliava; da tutti gli atomi della sua sostanza partivano raggi di sole e per onde luminose e armoniose si diffondevano nell'universo. La luce era musica; la musica era luce.

E veramente allora il Golfo Mistico s'irradiava come un cielo. Le sonorità dell'orchestra parevano imitare quelle lontane armonie planetarie che un tempo anime di contemplatori vigilanti credettero cogliere nel silenzio notturno. A poco a poco i lunghi fremiti dell'inquietudine, i lunghi sussulti dell'angoscia, e gli aneliti del vano inseguire, e gli sforzi del desiderio sempre deluso, e tutte le agitazioni della miseria terrena si placavano, si disperdevano. Tristano aveva alfine varcato il limite del «meraviglioso impero», era entrato alfine nell'eterna notte. E Isolda, prona su la spoglia inerte, sentiva alfine lentamente dissolversi il peso che ancor l'opprimeva. La melodia fatale, divenuta più chiara e più solenne, consacrava il gran coniugio funerario. Poi, come fili eterei le note attenuandosi tessevano intorno all'amante creatura diafani veli di purità. Cominciava così una specie di assunzione gaudiosa per gradi di splendore su l'ala di un inno. «Di che soave sorriso egli sorride! Non lo vedete? Come di sideral luce risplende! Non lo vedete voi? Non lo sentite? Sola io dunque odo questa nuova melodia, infinitamente dolce e consolante, che sgorga dal profondo dell'esser suo e mi rapisce e mi penetra e mi avvolge?» La Maga d'Irlanda, la formidabile signora dei filtri, l'arbitra ereditaria delle oscure potenze terrestri, colei che dall'alto del naviglio aveva invocato i turbini e le procelle, colei che aveva eletto al suo amore il più forte e il più nobile degli eroi per attossicarlo e perderlo, colei che aveva precluso il cammino della gloria e della vittoria a un «dominatore del mondo», l'avvelenatrice, l'omicida, si trasfigurava per la virtù della morte in un essere di luce e di gioia, scevro d'ogni impura brama, libero d'ogni basso vincolo, palpitante e respirante in grembo alla diffusa anima dell'Universo. «Questi più chiari suoni che mormorano al mio orecchio son forse le molli onde dell'aria? Debbo io respirare, bevere, immergermi, naufragare dolcemente nei vapori, nei profumi?» Tutto si dissolveva in lei, si fondeva, si distendeva, ritornava alla fluidità originale, all'innumerevole oceano elementare da cui le forme nascevano, in cui le forme sparivano per rinnovellarsi, per rinascere. Nel Golfo Mistico le trasformazioni e le trasfigurazioni si compivano di nota in nota, d'armonia in armonia, continuamente. Pareva che tutte le cose vi si decomponessero, vi esalassero le nascoste essenze, vi si mutassero in immateriali simboli. Colori non mai apparsi nei petali dei più delicati fiori terrestri, profumi di quasi impercettibile tenuità vi fluttuavano. Visioni di segreti paradisi vi balenavano, germi di nascituri mondi vi si schiudevano. E l'ebrezza pànica saliva saliva; il coro del Gran Tutto copriva l'unica voce umana. Trasfigurata, Isolda entrava nel meraviglioso impero trionfalmente. «Nell'infinito palpito dell'anima universa perdersi, profondarsi, vanire, senza conscienza: suprema voluttà

 

 

 

II

 

Così, per interi giorni, i due eremiti vissero nella grande finzione, respirarono quell'atmosfera infiammata, si saturarono di quell'oblìo letale. Essi medesimi credettero di trasfigurarsi, di attingere un superior cerchio d'esistenza; credettero di eguagliare le persone del dramma nelle altitudini vertiginose del sogno d'amore. - Non pareva che avessero anch'essi bevuto un filtro? Non erano anch'essi tormentati da un desiderio senza termine? Non erano anch'essi avvinti da un legame indissolubile e non provavano talvolta nella voluttà gli spasimi dell'agonia, non udivano il rombo della morte? - Giorgio, come Tristano nell'udire l'antica melodia modulata dal pastore, trovava in quella musica la rivelazione diretta di un'angoscia nella quale credeva di sorprendere alfine l'essenza vera della sua propria anima e il segreto tragico del suo fato. Nessun altro uomo poteva meglio di lui penetrare il simbolico e mitico senso del Filtro; e nessun altro uomo poteva meglio di lui misurare la profondità del dramma tutto interiore - unicamente interiore - in cui il pensoso eroe aveva consunto le sue forze. E nessuno, anche, poteva meglio comprendere il disperato grido della vittima: «Questo terribile filtro, che mi danna al supplizio, io, io medesimo lo composi!...»

Cominciò allora la sua funebre seduzione verso l'amante. Egli voleva lentamente persuaderla a morire; voleva trarla seco a una fine misteriosa e dolce, in quella pura estate dell'Adriatico piena di trasparenze e di profumi. La grande frase d'amore - che si dispiegava con sì largo cerchio di luce intorno alla trasfigurazione d'Isolda - aveva chiuso nel suo fascino Ippolita. Ella ad ogni tratto la ripeteva col canto sommesso e talvolta anche a voce aperta, mostrandosi come inondata di giubilo.

- Non vorresti tu morire della morte d'Isolda? - le chiese Giorgio sorridendo.

- Vorrei - ella rispose. - Ma su la terra non si muore così.

- E se io morissi? - egli soggiunse pur sempre sorridendo. - Se tu mi vedessi morto, in realtà, non in sogno?

- Credo che morrei, ma disperata.

- E se io ti proponessi di morire con me, in uno stesso modo, nello stesso tempo?

Ella rimase per qualche attimo in pensiero, con gli occhi bassi. Poi, sollevando verso il tentatore uno sguardo carico di tutta la dolcezza della vita, disse:

- Perché morire se io ti amo, se tu mi ami, se nulla omai c'impedisce di vivere in noi soli?

- Ti piace la vita! - egli mormorò con un'amarezza velata.

- Sì, mi piace la vita, - ella affermò, quasi con veemenza, - perché tu mi piaci.

- E se io morissi? - egli ripeté senza sorridere, sentendo ancóra una volta sorgere dal fondo l'ostilità istintiva contro la bella creatura lussuriosa che respirava l'aria come una gioia.

- Tu non morrai - ella affermò, con lo stesso ardimento. - Sei giovine. Perché dovresti morire?

Ella aveva nella voce, nell'attitudine, in tutta la persona diffuso un benessere insolito. Aveva l'aspetto che le creature viventi hanno soltanto nelle ore in cui la loro vita scorre armoniosa per un equilibrio temporaneo di tutte le forze in accordo con le condizioni esterne favorevoli. Come altre volte, ella sembrava dischiudersi nella bontà dell'aria marina, nel refrigerio della sera estiva, dando imagine d'uno di quei magnifici fiori crepuscolari che aprono le corone dei petali all'occaso del sole.

Le chiese Giorgio, dopo una lunga pausa in cui si udì il rumore del mare su le ghiaie simile a uno stormire di frondi aride:

- Credi tu al Destino?

- Credo.

Non disposta alla gravità triste a cui parevano tendere le parole di Giorgio, ella rispose con un leggero tono di burla. Ferito, egli sùbito soggiunse con asprezza:

- Sai tu che giorno sia oggi?

Perplessa, inquieta, ella interrogò:

- Che giorno?

Egli esitò. Fino a quell'ora aveva evitato di ricordare all'immemore l'anniversario della morte di Demetrio, essendosi fatta in lui sempre più fiera la ripugnanza a proferire il puro nome, a evocare l'alta imagine fuor del penetrale. Sentiva ch'egli avrebbe profanato il suo dolor religioso ammettendo Ippolita a parteciparne. E più acuto diveniva in lui questo sentimento ora che, per uno de' consueti intervalli di lucidità crudele, rivedeva in lei la donna di delizia, il «fiore di concupiscenza», la Nemica. Si contenne. Ed esclamò, con un falso riso repentino:

- Guarda! È festa a Ortona, - indicando nella lontananza glauca la città maritima che si coronava di luminarie.

- Come sei strano, oggi! - disse Ippolita.

Poi, fissandolo con quell'espressione singolare ch'ella soleva prendere quando voleva lenirlo, addolcirlo, soggiunse:

- Vieni qui, vieni a sederti qui accanto a me...

Egli era in piedi su la soglia d'una delle porte aperte contro la loggia, nell'ombra. Ella era seduta fuori, sul parapetto, vestita d'un leggero abito bianco, in una posa di mollezza, sorgendo di tutto il busto su lo sfondo del mare ove ancor s'indugiavano i chiarori del crepuscolo; e il profilo della sua testa bruna si disegnava in una zona di limpido elettro. Ella pareva ricrearsi come se fosse allora allora uscita da un luogo chiuso e soffocante, da un'atmosfera carica di esalazioni venefiche. Agli occhi di Giorgio ella pareva svaporare come una fiala di profumo: lasciar disperdere l'ideal vita accumulata in lei dalle potenze della Musica; vuotarsi a poco a poco dei sogni importuni; ridursi alla primitiva animalità.

«Come sempre,» Giorgio pensava «come sempre, ella non ha fatto se non ricevere e mantenere docilmente le attitudini che io le ho dato. La vita interiore è stata sempre ed è sempre in lei fittizia. Interrotta la mia suggestione, ella ritorna alla sua natura, ella ridiviene una femmina, uno strumento di bassa lascivia. Nulla potrà mutare la sua sostanza, nulla potrà purificarla. Ella ha il sangue plebeo, e nel sangue chi sa quali eredità ignobili! Ma io anche non potrò mai sottrarmi al desiderio ch'ella ha acceso in me. Non potrò mai estirparla dalla mia carne. E da ora in poi non potrò vivere né con lei né senza di lei. So che debbo morire. Ma la lascerò io a un successore?» L'odio contro la creatura inconsapevole non gli si era mai sollevato con tanto impeto. Egli la mordeva senza pietà, con una acredine di cui egli medesimo si stupiva. Si vendicava come d'un inganno, come d'una delusione che superasse ogni limite di perfidia. Provava l'invido rancore del naufrago che nell'affondare scorga da presso il compagno sul punto di salvarsi, d'aggrapparsi alla vita. Per lui quell'anniversario veniva a riconfermare una sentenza ch'egli sapeva già inesorabile. Era quel giorno per lui l'Epifania della Morte. Ed egli sentiva di non essere più padrone di sé; si sentiva interamente posseduto dall'idea fissa che da un istante all'altro poteva suggerirgli l'atto estremo comunicando nel tempo medesimo alla volontà l'impulso efficace. «Debbo io morire solo?» ripeteva a sé stesso, mentre confuse imagini criminose gli balenavano nel cervello: «Debbo io morire solo?»

Trasalì quando Ippolita gli toccò il viso e poi gli cinse con le braccia il collo.

- T'ho fatto paura? - ella gli chiese.

Vedendolo scomparire nell'ombra che a grado a grado più fosca occupava il vano della porta, ella aveva obedito a una strana inquietudine quando s'era levata per abbracciarlo.

- Che pensavi? Che hai? Perché sei così, oggi?

Ella gli parlava con una voce insinuante e, tenendolo ancóra avvinto con un braccio, gli accarezzava la tempia. Ed egli nell'oscurità vedeva biancheggiare misteriosamente il volto di lei, rilucere gli occhi. Un tremito infrenabile lo invase.

- Tu tremi! Che hai? Che hai?

Ella si distaccò da lui, cercò sul tavolo una candela, l'accese. Gli si riavvicinò sbigottita; gli prese le mani.

- Ti senti male?

- Sì - egli balbettò. - Non mi sento bene oggi. È una delle mie cattive giornate...

Non era la prima volta ch'ella l'udiva lamentarsi di vaghe sofferenze fisiche, di dolorazioni sorde ed erranti, di stirature e di formicolii fastidiosi, di vertigini e d'incubi. Ella considerava quelle sofferenze come imaginarie, come effetti della malinconia abituale, dell'eccesso di pensiero. E non conosceva rimedio migliore delle carezze, delle risa, dei giochi.

- Che ti senti?

- Non saprei dirtelo...

- Ah, io so la causa del tuo male... La musica ti èccita troppo. Bisognerà non farne più, per una settimana.

- Non ne faremo più.

- Assolutamente.

Ed ella andò verso il pianoforte, abbassò il coperchio su la tastiera, lo serrò; e nascose la piccola chiave.

- Domani riprenderemo le nostre grandi passeggiate, e resteremo tutta la mattina su la spiaggia. Vuoi? Ora vieni su la loggia.

Ed ella lo trasse con un atto blando.

- Guarda che bella sera! Come odorano gli scogli!

Aspirò la fragranza salmastra, con un fremito, stringendosi a lui.

- Abbiamo tutto, qui, per esser felici; e tu... Come rimpiangerai questo tempo, quando sarà passato! I giorni passano. Sono quasi tre mesi che noi viviamo qui.

- Pensi già, forse, a lasciarmi? - egli le domandò, inquieto, sospettando.

- No, no, non per ora - ella rispose rassicurandolo. - Ma incomincia a diventare difficile per me, verso mia madre, il prolungamento dell'assenza. Anche oggi ho ricevuta una lettera di richiamo. Tu sai: ella ha bisogno di me. Se manco io nella casa, tutto va a rovescio...

- Tu devi dunque tornare a Roma, quanto prima.

- No. Io saprò trovare ancóra qualche pretesto. Tu sai che, per mia madre, io sono qui in compagnia d'un'amica. Mia sorella mi ha aiutata e mi aiuta a rendere verosimile la finzione, tanto più che mia madre sa che io ho bisogno dei bagni di mare e che l'anno scorso soffersi perché non ne feci... Ti ricordi? Passai l'estate a Caronno, da mia sorella: quell'orribile estate!

- Ebbene?

- Certamente io potrò rimanere con te tutto questo mese d'agosto e forse anche la prima settimana di settembre...

- E poi?

- E poi tu mi lascerai tornare a Roma e verrai a raggiungermi. E penseremo per l'avvenire. Io ho già qualche cosa in mente...

- Che cosa?

- Ti dirò. Ma è ora di pranzo. Non hai appetito tu?

Il pranzo era pronto. Secondo il solito, la tavola fu apparecchiata all'aperto, su la loggia. La grande lampada fu accesa.

- Vedi? - ella esclamò, mentre la domestica posava su la mensa il vaso della minestra fumante. - Questa è opera di Candia.

Ella aveva voluto che Candia le apprestasse una zuppa rustica, all'uso del paese: una mescolanza saporosa, ricca di zenzero, colorita e odorante. Ella l'aveva già gustata qualche volta, attratta dall'odore nella casa dei vecchi. N'era divenuta ghiotta.

- Sentirai che delizia!

Se ne versò una scodella colma, con un atto di golosità infantile; e ne ingoiò le prime cucchiaiate rapidamente.

- Non ho mai mangiato nulla di più buono. Ella chiamò ad alta voce Candia per lodarla.

- Candia! Candia!

La donna si fece a piè della scala ridendo.

- Ti piace, signora?

- Quanto mi piace!

- Ti si converta in buon sangue!

E le risa schiette della pregnante salirono nell'aria dolce.

Giorgio mostrava di prender parte a quella gaiezza. Era palese il mutamento subitaneo del suo umore. Egli si versò del vino e lo bevve d'un fiato. Si sforzò di vincere le sue ripugnanze al cibo; quelle ripugnanze divenute nell'ultimo tempo così gravi che gli rendevano talvolta insoffribile perfino la vista della carne rossa.

- Ti senti meglio; è vero? - gli domandò Ippolita, chinandosi verso di lui, movendo anche un poco la sedia per stargli da presso.

- Sì; mi sento bene, ora.

Ed egli bevve di nuovo.

- Guarda - ella esclamò - guarda Ortona in festa!

E ambedue guardarono la città lontana incoronata di luminarie su la collina protesa nel mare buio. Simili a costellazioni di fuoco si levavano lentamente nell'aria calma gruppi di aeròstati e parevano di continuo moltiplicarsi, popolavano tutta quella plaga del cielo.

- Mia sorella Cristina - disse egli - è a Ortona in questi giorni, dai suoi parenti Vallereggia.

- Ti ha scritto?

- Sì.

- Come sarei felice di vederla! Ti somiglia; è vero? Cristina è la tua prediletta.

Ella restò per qualche attimo pensierosa.

- Come sarei felice di vedere tua madre! - soggiunse. - Quante volte ho pensato a lei!

E, dopo un'altra pausa, con una voce tenera:

- Chi sa come ti adora!

Una commozione improvvisa gonfiò il cuore di Giorgio; e dentro gli risorse la visione della casa da lui abbandonata, obliata; e tutte le passate tristezze gli ritornarono per un attimo nello spirito, e tutte le dolenti imagini: - il volto estenuato della madre, la palpebre di lei gonfie rosse arse dalle lacrime, il sorriso dolce e straziante di Cristina, il bimbo malaticcio dalla grossa testa sempre china sul petto quasi esanime, la maschera cadaverica della povera mentecatta ingorda. E gli occhi stanchi della madre chiedevano di nuovo, come nell'ora del commiato: «Per chi mi abbandoni

L'anima di nuovo gli si protese verso la casa lontana, inchinandosi a un tratto come l'albero investito dalla ràffica. E la risoluzione segreta - ch'egli aveva fatta nell'oscurità della stanza tra le braccia d'Ippolita - vacillò scossa da un avvertimento oscuro quando egli rivide nella memoria la chiusa porta dietro a cui era il letto di Demetrio, quando rivide la cappella mortuaria all'angolo del cimitero custodito dall'azzurra e solenne ombra della Montagna.

Ma Ippolita parlava, diveniva loquace: si abbandonava, come altre volte, incautamente ai suoi ricordi domestici. Ed egli si mise ad ascoltarla, come altre volte, notando con sofferenza certe linee volgari che prendeva la bocca di lei nell'abondanza e nel calore dell'eloquio; come altre volte notando un particolar gesto ch'ella soleva fare nell'accalorarsi e che pareva non appartenerle tanto era sgraziato.

- Tu la vedesti un giorno mia madre per la via. Te ne ricordi? - ella diceva. - Che differenza tra mia madre e mio padre! Mio padre è stato sempre buono, dolce verso di noi, incapace di batterci, di rimproverarci con durezza. Mia madre è violenta, impetuosa, quasi crudele. Ah, se ti raccontassi il martirio di mia sorella, della povera Adriana! Si ribellava sempre; e la ribellione esasperava mia madre, che la batteva a sangue. Io invece sapevo disarmarla, riconoscendo il mio fallo, chiedendole perdono. Eppure, con tutta la sua durezza, ella aveva per noi un amore immenso... Nella nostra casa c'era una finestra che rispondeva su una cisterna. Noi, per gioco, avevamo l'abitudine di metterci con un secchietto a tirar l'acqua. Un giorno mia madre uscì, e per caso noi restammo sole. Dopo alcuni minuti, sbigottite la vedemmo tornar su piangente, convulsa, disfatta. Mi prese tra le sue braccia e mi coprì di baci furiosi, come folle, singhiozzando. Ella, nella strada, aveva avuto il presentimento ch'io fossi precipitata da quella finestra!

Giorgio rivide nella memoria quel volto di vecchia isterica, in cui tutti i difetti del volto filiale apparivano esagerati: lo sviluppo della mandibola inferiore, la lunghezza del mento, la larghezza delle narici. Rivide quella fronte di Furia, su cui si rialzavano i capelli grigi aridi e spessi; quegli occhi incavati sotto l'arco dei sopraccigli, oscuri, che rivelavano l'ardore fanatico della chiesastra e l'avarizia tenace della piccola borghese di Trastevere.

- Vedi questa cicatrice che ho sotto il mento? - continuava Ippolita. - Anche questa l'ho per mia madre. Andavamo a scuola, io e mia sorella; e per la scuola avevamo certi vestiti assai graziosi che, tornate a casa, dovevamo toglierci. Un giorno, tornando, io trovai sul tavolo uno scaldino e lo presi per riscaldarmi le mani gelate. Mia madre mi disse: «Va a svestirti!» Io risposi: «Ora vado»; e seguitai a riscaldarmi. Ella ripeté: «Va a svestirti!» E io: «Ora vado.» Ella aveva tra le mani una grossa spazzola e spazzolava un abito. Io m'indugiavo in mezzo alla stanza, con lo scaldino. Il vestito mi stava bene. Per la terza volta ella ripeté: «Va a svestirti!» E io: «Ora vadoInfuriata, mi scagliò la spazzola che colse lo scaldino e lo ruppe. Un frammento del manico mi ferì qui, sotto il mento; mi tagliò una vena. Il sangue correva. La zia sùbito mi venne in aiuto; ma mia madre non si mosse, neppure mi guardò. Il sangue correva. Per fortuna si trovò sùbito un chirurgo che mi allacciò la vena. Mia madre restò sempre in silenzio. Quando tornò mio padre, vedendomi fasciata mi chiese che avessi. Mia madre mi fissò, senza parlare. Io risposi: «Son caduta per le scale.» Mia madre tacque. Soffersi molto, poi, per la perdita del sangue... Ma Adriana quanto è stata battuta! Specialmente per Giulio, per mio cognato. Non dimenticherò mai una scena terribile...

Ella s'interruppe, sorprendendo forse nel volto di Giorgio qualche dubbio segno.

- Ti annoio, è vero?, con tutte queste ciance.

- No, no. Séguita: ti prego! Non vedi che ti ascolto?

- Noi abitavamo allora a Ripetta, in una casa di certi Angelini, con cui stringemmo amicizia intima. Nel piano di sotto abitava Luigi Sergi, il fratello di mio cognato Giulio, con la moglie Eugenia. Luigi era un uomo dotto, studioso, modesto; Eugenia era una donna della peggiore specie. Benché il marito guadagnasse molto, ella lo costringeva sempre a indebitarsi. E non si sapeva in che modo ella spendesse tutto quel denaro. Veramente, i maligni susurravano che con quel denaro ella pagasse i suoi amanti... Era bruttissima; e la sua bruttezza accreditava quella voce infame. Mia sorella, non so come, s'era legata con costei; e andava giù spessissimo, col pretesto di farsi ripetere la lezione di francese da Luigi. La mamma n'era scontenta, messa in sospetto dalle Angelini vecchie zitelle che fingevano di aver amicizia per i Sergi ma in realtà li detestavano come buzzurri e ne sparlavano volentieri. «Lasciare che Adriana frequentasse la casa di una donna perduta!» Le severità aumentarono. Ma Eugenia intanto favoriva l'amore di Giulio con Adriana. Giulio veniva spesso a Roma da Milano, per affari. E un giorno appunto, in cui egli doveva arrivare, mia sorella aveva una gran fretta di scender giù. La mamma le proibì di muoversi. Mia sorella insisteva. Nel contrasto, la mamma alzò le mani. Si accapigliarono. E mia sorella giunse a morderle un braccio, e si diede a fuggire giù per le scale. Ma, mentre bussava all'uscio dei Sergi, la mamma le fu sopra; e , nel pianerottolo, accadde una scena di violenze che non dimenticherò mai. Adriana fu riportata a casa, quasi morta. Si ammalò, ebbe le convulsioni. La mamma, pentita, la circondò di cure; fu dolce come non era mai stata... Pochi giorni dopo, non ancóra guarita interamente, Adriana fuggì con Giulio... Questo te l'ho già raccontato, mi pare.

Ed ella, che s'era obliata nella sua loquacità ingenua, ignorando l'effetto prodotto da quei ricordi volgari su l'amante, riprese il pranzo interrotto.

Soggiunse, dopo un intervallo di silenzio, sorridendo:

- Vedi che donna terribile è mia madre! Tu non sai, tu non potrai mai sapere che martirio ella mi abbia dato quando scoppiò la lotta con... lui. Dio mio, che giorni!

Ella rimase per qualche istante pensierosa.

Giorgio fissava su l'incauta uno sguardo carico di odio e di gelosia, soffrendo in quel minuto tutte le sue sofferenze di due anni. Con quei frammenti dall'incauta fornitigli, ne ricostruiva la vita anteriore attribuendole le più meschine volgarità, abbassandola ai più disonoranti contatti. - Se il matrimonio della sorella aveva avuto per auspice una ninfomane, in quali condizioni, per quali circostanze s'era concluso quello di lei, d'Ippolita? Tra qual gente aveva ella trascorso la sua prima giovinezza? Per quali intrichi era ella caduta nelle mani dell'uomo odioso di cui portava tuttora il nome? - E si raffigurò la vita occulta di certe piccole case borghesi della vecchia Roma emananti insieme un lezzo di cucina e un tanfo di sagrestia, fermentanti di corruttela familiare e clericale. La profezia di Alfonso Exili gli tornò alla memoria: «Sai chi sarà forse il tuo successore? Quel Monti, quel mercante di campagna... Ha molti quattrini.» Gli parve probabile che Ippolita finisse così, in un amore remunerativo; non senza il tacito consenso dei suoi, allettati a poco a poco da un'esistenza più facile, tolti alle strettezze domestiche, resi a un benessere anche più largo di quello che un tempo veniva a loro dal legittimo stato matrimoniale della figliuola. «Non potrei io stesso fare una simile offerta, proporre francamente a Ippolita questa posizione? Ella diceva, dianzi, d'aver qualche cosa in mente, per l'inverno, per l'avvenire. Non potremmo dunque accomodarci? Son sicuro che, considerata la serietà dell'offerta, considerata la stabilità della posizione, la vecchia feroce non mostrerebbe troppa riluttanza ad accettarmi come sostitutore del genero fuggiasco. Forse anche finiremmo col passare intorno a una stessa pentola il resto di nostra vita...» Il sarcasmo gli torceva il cuore con una insostenibile sevizia. Convulso, egli si versò ancóra del vino e bevve.

- Perché bevi tanto, stasera? - gli chiese Ippolita guardandolo negli occhi.

- Ho sete. E tu non bevi?

Il bicchiere d'Ippolita era vuoto.

- Bevi! - incitò Giorgio facendo l'atto di versarle il vino.

- No - ella disse. - Preferisco l'acqua, come al solito. Nessun vino mi piace, tranne lo Champagne... Ti ricordi, ad Albano? Ricordi la smorfia di quel buon Pancrazio quando il sughero non saltava e bisognava ricorrere al cavaturaccioli?

- Ci dev'esser rimasta qualche bottiglia, giù, nella cassa. Vado a cercarla.

E Giorgio si levò vivacemente.

- No, no; stasera, no.

Ella voleva trattenerlo. Ma, com'egli si moveva per discendere, disse:

- Vengo anch'io.

E gaia e leggera discese con lui in una delle stanze terrene trasformata in dispensa.

Candia accorse con un lume. Cercarono in fondo alla cassa e trovarono due bottiglie dal collo d'argento, le ultime.

- Eccole! - esclamò Ippolita, già invasa da un'eccitazione sensuale. - Eccole! Ancóra due!

Ed ella le sollevò verso il lume brillanti.

- Andiamo!

Come usciva di corsa ridendo, ella urtò nel ventre di Candia. Si soffermò a guardare l'enorme ingombro.

- Sii benedetta! - disse. - Tu partorirai un colosso. Quando?

- Eh, signora, di momento in momento, - rispose Candia - forse anche stanotte...

- Stanotte?

- Mi sento già qualche doglia...

- Chiamami. Io voglio assisterti.

- Perché vuoi prenderti pena? C'è mamma che ne ha fatti ventidue...

E la nuora della Cibele settuagenaria segnò il numero vibrando quattro volte la mano con le cinque dita aperte e fermandola in ultimo per l'indice e il pollice forcuta.

- Ventidue! - ripeté, mentre i denti sani le brillavano nel sorriso.

Abbassando gli occhi al grembo d'Ippolita, soggiunse:

- E tu, che aspetti?

Ippolita fuggì di corsa, risalì la scala, posò le bottiglie su la tavola; rimase per qualche attimo come smarrita, un poco ansante. Poi scosse il capo.

- Guarda Ortona!

Tese la mano verso la città in festa, da cui pareva giungere sino a lei un'aura d'allegrezza. Un bagliore rossastro si diffondeva sul culmine della collina come su un cratère; e da quel bagliore continuavano a sorgere aeròstati innumerevoli su pel cupo azzurro disponendosi in vasti cerchi e dando imagine d'un immenso duomo luminoso a specchio del mare.

- Apriamo anche una scatola di lukumi - essa disse, mentre Giorgio era intento a togliere da una delle bottiglie la capsula metallica.

Su la mensa ricca di fiori, di frutti e di confetture turbinavano le farfalle notturne. La spuma del fervido vino spruzzò la tovaglia.

- Alla nostra felicità! - ella augurò tendendo la coppa verso l'amante.

- Alla nostra pace! - augurò egli tendendo la sua.

I cristalli si urtarono così forte che l'uno e l'altro si ruppero; e il chiaro vino si rovesciò su la mensa, bagnò il cumulo delle belle pèsche succulente.

- Buon augurio! Buon augurio! - gridava Ippolita esilarata da quell'aspersione più che da un lungo sorso.

Ed ella mise la mano su le pèsche umide che le stavano d'innanzi. Erano magnifiche, tutte vermiglie da una sola banda come se le avesse invermigliate l'ultima aurora vedendole mature pendere dal ramo. La strana rugiada pareva avvivarle.

- Che meraviglia! - ella disse prendendo la più pomposa.

E, senza toglierle la buccia, golosamente la morse. Il succo le colò dagli angoli della bocca giallo come un miele liquido.

- Mordi tu, ora!

Ed ella offerse all'amato il frutto stillante, col medesimo gesto con cui gli aveva offerto l'avanzo del pane sotto la quercia nel crepuscolo del giorno primo.

Si risvegliò in lui quel ricordo. Ed egli provò il bisogno di comunicarlo.

- Ti rammenti - disse - ti rammenti del primo giorno quando mordesti il pane allora allora escito dal forno e me l'offristi tiepido e umido? Ti rammenti? Come mi parve buono!

- Tutto rammento. Potrei dimenticare anche la minima particolarità di quel giorno?

Ella rivide nella memoria il sentiero giuncato di ginestre, il fresco e gentile omaggio diffuso sul suo cammino. Restò per qualche istante muta in quella visione di poesia.

- Le ginestre! - mormorò con un sorriso d'impreveduto rammarico.

Poi soggiunse:

- Ti rammenti? Tutta la collina era un ammanto giallo e il profumo dava le vertigini.

Soggiunse, dopo una pausa:

- Che strana pianta! Ora, a vedere un cespuglio ispido chi potrebbe imaginare quella festa?

Da per tutto, sul loro cammino, essi incontravano quei cespugli che in cima alle lunghe vermène acute portavano baccelli nerastri coperti d'una peluria bianchiccia; e ciascun baccello conteneva semi ed era abitato da un verme verdognolo.

- Bevi! - invitò Giorgio versando nelle nuove coppe il vino brillante.

- Alla futura primavera d'amore! - augurò Ippolita, e bevve sino all'ultima stilla.

Sùbito Giorgio riempì la coppa vuota.

Ella mise le dita nella scatola dei lukumi, chiedendo:

- Vuoi l'ambra o la rosa?

Erano le confetture orientali inviate da Adolfo Astorgi, composte d'una specie di pasta elastica dal color d'ambra o dal color di rosa sparse di pistacchi, così profumate che davano alla bocca l'illusione d'un fiore polputo e ricco di miele.

- Chi sa dov'è ora il Don Juan! - disse Giorgio ricevendo il dolce dalle dita d'Ippolita bianche di zucchero.

E gli passava nello spirito la nostalgia delle lontane isole odorate di mastica, che forse in quell'ora mandavano tutta la lor delizia notturna sul vento a gonfiare la grande vela.

Sentì Ippolita nelle parole di lui il rammarico.

- Vorresti esser , a bordo, col tuo amico piuttosto che qui solo con me? - gli chiese.

- Né qui, né . Altrove! - egli rispose sorridendo, con un'aria di gioco.

E si sollevò per protendere le labbra verso l'amante.

Ella lo baciò profondamente con tutta la bocca gommosa e zuccherina, non avendo ancóra inghiottito il dolce - mentre le farfalle intorno turbinavano.

- Non bevi? - egli le disse, dopo il bacio, con la voce un poco alterata.

Ella senza indugio vuotò la coppa.

- E quasi tiepido - fece, dopo aver bevuto. - Ricordi il frappé del Danieli, a Venezia? Ah, come mi piace quando scende lento lento a fiocchi!

Nel parlare delle cose che le piacevano, delle blandizie che prediligeva, ella aveva singolari morbidezze di voce e atti delle labbra nel modular le sillabe espressivi d'una sensualità profonda. E in ciascuna di quelle parole e in ciascuno di quegli atti Giorgio trovava una cagione di sofferenza acutissima. Quella sensualità, ch'egli medesimo aveva risvegliata in lei, ora gli sembrava giunta a quel grado in cui i desiderii numerosi e imperiosi non soffrono più alcun freno e richiedono il rapido appagamento. Gli sembrava ora per lei necessaria la presenza continua del maschio, necessario il lusso circostante. Ora ella gli appariva come una donna irresistibilmente data al piacere in qualunque forma, a traverso qualunque degradazione. Quando egli fosse scomparso o quando ella fosse stanca di quell'amore, la più larga e la più sicura delle offerte sarebbe stata accettata. Ella avrebbe anche potuto elevare il suo prezzo a un'altezza straordinaria. Infatti, dove mai trovare - pur su i mercati massimi - un più prezioso strumento di voluttà? Ella aveva ora tutte le seduzioni e tutte le sapienze; ella aveva appunto quella bellezza che colpisce gli uomini al passaggio e li turba a dentro e risveglia nel sangue l'implacabile brama; ella aveva l'eleganza felina della persona, il gusto raffinato del vestire, l'arte squisita dei colori e delle fogge armonizzanti con la sua grazia; ella aveva appreso a modulare, con una voce morbida e calda come il velluto de' suoi occhi, le sillabe lente che evocano i sogni e addormentano le pene; ella portava occulto nella sua sostanza un morbo che pareva talvolta illuminare misteriosamente la sua sensibilità; ella aveva a volta a volta i languori della malattia e le veemenze della salute; ella era, infine, sterile. - Si adunavano dunque in lei le virtù sovrane delle donne destinate a dominare il mondo col flagello della lor bellezza impura. La passione aveva in lei acuite e complicate queste virtù. Ora ella trovavasi al culmine della sua forza. Libera a un tratto da ogni vincolo, quale via avrebbe scelta per continuare la vita? Giorgio non aveva più alcun dubbio: sapeva bene quale. Egli si confermava nella certezza che la sua influenza sopra di lei erasi limitata alle cose dei sensi e ad alcune attitudini dello spirito fittizie. Il fondo plebeo era rimasto nella sua densità impenetrabile. Egli pensava ch'ella avrebbe derivato appunto da quel fondo la facoltà di adattarsi facilmente ai contatti di un amante non distinto da soverchie finezze fisiche e spirituali: di un amante, insomma, comune. E versando di nuovo nella coppa vuota quel vino da lei prediletto, - quel vino usato a rallegrare le cene segrete, a eccitare le chiuse piccole orgie moderne - egli nella sua fantasia atteggiava a impudichi eccessi «la romana pallida e vorace, insuperabile nell'arte di fiaccar le reni ai maschi».

- Come ti trema la mano! - notò Ippolita guardandolo.

- È vero - egli disse, simulando nella convulsione la gaiezza. - Sai che io sono già brillo? E tu non bevi. Ah, perfida!

Ella rise e bevve per la terza volta, provando un'allegrezza infantile al pensiero di divenire ebra, di sentire a poco a poco la mente offuscarsi. Già in lei i fumi del vino operavano. Il dèmone isterico incominciava ad agitarla.

- Guarda come mi si sono annerite le braccia! - ella esclamò sollevando oltre i gomiti le larghe maniche bianche. - Ma guarda i polsi!

Se bene la sua carne fosse bruna, d'un color d'oro caldo e opaco, ella aveva nei polsi una pelle estremamente fine, assai più chiara, d'un pallor singolare. Il sole aveva oscurata la parte delle braccia esposta; ma, di sotto, i polsi erano rimasti pallidi. E su quella finezza, a traverso quel pallore, trasparivano le vene esili ma visibilissime, d'un azzurro intenso, d'un azzurro pendente un poco nel violetto. Più d'una volta Giorgio aveva ripensato le parole di Cleopatra al Messaggero d'Italia: «Eccoti a baciare le mie più azzurre vene

Ippolita disse, tendendo l'uno e l'altro polso:

- Bacia!

Egli ne afferrò uno, e col coltello fece l'atto di secarlo.

- Taglia pure - sfidò ella. - Io non mi muovo.

Nell'atto, egli guardava fiso la delicata trama cerulea su quella pelle così chiara che pareva appartenere ad un altro corpo, a un corpo di donna bionda. E la singolarità l'attraeva e lo tentava esteticamente, suggerendogli un'imagine tragica di bellezza.

- Questo è il tuo punto vulnerabile - egli disse sorridendo. - Il segno è palese. Tu morrai svenata. Dammi l'altra mano!

Egli mise i due polsi accosto, e fece di nuovo l'atto di secarli con un sol colpo. Sorgeva compiuta nel suo spirito l'imagine. - Su la soglia marmorea d'una porta piena d'ombra e d'aspettazione appariva la moritura protendendo le braccia ignude alle cui estremità, dalle vene recise dei polsi, zampillavano e palpitavano due rosse fontane. E tra le due rosse fontane la faccia lentamente assumeva un soprannaturale pallore e le profondità degli occhi s'empivano d'un mistero infinito e su la chiusa bocca si disegnava la larva d'una parola indicibile. D'un tratto i due getti cessavano. Il corpo esangue cadeva indietro, di schianto, nell'ombra.

- Dimmi il tuo sogno! - pregò Ippolita vedendolo assorto.

Egli le rappresentò l'imagine.

- Bellissima! - ella ammirava, come davanti a una stampa.

E accese una sigaretta. Spinse dalle labbra una ondata di fumo contro la lampada, intorno a cui aliavano le farfalle notturne. Stette a guardare l'agitazione delle piccole ali variopinte tra i veli labili del fumo. Poi si volse verso Ortona che scintillava di luminarie. Si alzò da sedere, levò gli occhi alle stelle.

- Che notte calda! - disse, respirando forte. - Non hai caldo, tu?

Gittò la sigaretta. Di nuovo si scoperse le braccia. S'avvicinò a lui; gli arrovesciò d'improvviso il capo; lo avviluppò in una lunga carezza; gli percorse tutta la faccia con la bocca che strisciava languida e ardente in un bacio molteplice. Felina, gli si avvolse, gli si attorse; con un movimento quasi inesplicabile - tanto fu agile e furtivo - venne a sederglisi su le ginocchia; gli fece sentire la nudità a traverso il vestito leggero; gli fece sentire tutto il profumo della pelle, quel profumo stridulo e pur molle che nell'ora del gaudio diveniva inebriante come quello dei tuberosi.

Egli tremava in tutte le fibre, come dianzi tra le braccia di lei nella stanza invasa dall'ombra dell'ultimo crepuscolo. Ella scambiò quel tremito per l'orgasmo del desiderio; e le sue mani divennero provocatrici.

- No, no; lèvati! - egli balbettò respingendola. - Qui siamo veduti.

Ella si distaccò. In piedi, vacillava un poco. Veramente pareva ebra. Pareva che un vapore le passasse su gli occhi e nel cervello, oscurandole la vista e il pensiero.

- Che caldo! - sospirò, toccandosi con le palme la fronte e le gote accese. - Quasi mi spoglierei...

Ripeteva Giorgio in sé medesimo, tutto posseduto omai dall'idea fissa: «Debbo io morire solo?» Una specie d'urgenza dell'atto violento lo incalzava come più tarda si faceva l'ora. Egli udiva dietro di sé il ticchettìo dell'orologio che era nella stanza del letto; udiva i colpi ritmici della maciulla su un'aia remota. Quei due rumori cadenzati e dissimili acuivano in lui il sentimento della fugacità del tempo e gli davano una specie di terrore ansioso.

- Guarda a Ortona i fuochi! - esclamò Ippolita indicando la città in festa, che irraggiava il cielo. - Guarda quanti!

Razzi innumerevoli si partivano da un centro aprendosi nel cielo a guisa d'un ampio ventaglio d'oro che lentamente dal basso all'alto dissolvevasi in una pioggia di faville rare per mezzo a cui d'un tratto il ventaglio si rinnovava intero e splendido per dissolversi ancóra e poi per rinnovarsi, con una continua vicenda, mentre le acque rispecchiavano la mobile imagine. Giungeva uno strepito sordo come di moschetteria lontana, interrotto da tuoni più gravi a cui seguivano scoppii di bombe multicolori nel più alto azzurro. E la città e il porto e il lungo molo proteso apparivano ad ogni scoppio in una diversa luce trasfigurati fantasticamente.

Diritta contro il parapetto Ippolita ammirava lo spettacolo, accogliendo con esclamazioni d'allegrezza gli splendori più vivi. A intervalli su la sua persona bianca si diffondeva un riflesso d'incendio.

«Ella è sovreccitata, quasi ebra, disposta a qualunque follia» pensava Giorgio guardandola. «Io potrei proporle una gita di cui ella s'è mostrata più volte curiosa: proporle di attraversare una delle gallerie al lume d'una torcia. Io scenderei al Trabocco per prendere la torcia. Ella m'aspetterebbe all'ingresso del ponte. Di poi la condurrei alla galleria pel sentiere che conosco. Farei in modo che il treno ci sorprendesse nel chiuso... Una imprudenza, una disgrazia

L'idea gli parve di non difficile attuazione: sortagli nello spirito con una straordinaria chiarezza, come se si fosse integrata nel fondo della sua incoscienza dal giorno in cui dinanzi alle rotaie luccicanti egli ne aveva avuto il primo baleno confuso. «Anch'ella deve morire.» La risoluzione s'affermava, incommutabile. Egli udiva dietro di sé il battito dell'orologio con un'ansia che non poteva domare. - L'ora doveva esser vicina. Forse appena appena essi avrebbero avuto il tempo di scendere. Bisognava operare senza indugio, accertarsi sùbito dell'ora precisa segnata in quel momento. - Ma gli pareva di non potersi levare dalla sedia; gli pareva che la voce gli sarebbe mancata nel rivolger la parola all'inconsapevole.

Balzò in piedi udendo il noto rombo lontano. - Troppo tardi! - E il cuore gli batteva così forte ch'egli credette veramente di morire nell'ambascia, mentre il rombo e il sibilo s'avvicinavano.

- Il treno! - disse Ippolita volgendosi. - Vieni a vedere.

Com'egli s'appressò, ella gli cinse il collo con un braccio nudo appoggiandoglisi all'òmero.

- Entra nella galleria - ella soggiunse, avvisata dalla diversità del fragore.

Agli orecchi di lui quel fragore cresceva spaventosamente. Egli vedeva, come in un'allucinazione, sé stesso e l'amante sotto la volta buia e il rapido avanzarsi dei fanali nelle tenebre e la breve lotta su le rotaie e la caduta d'entrambi e i corpi sfracellati dall'orribile violenza. Sentiva nel tempo medesimo il contatto della donna viva e carezzevole e pur sempre trionfatrice. E provava, misto all'orrore fisico per quella distruzione barbara, un rancore esasperato contro colei che sembrava sfuggirgli.

Chini sul parapetto entrambi guardarono passare il treno fragoroso veloce e sinistro che scoteva la casa dalle fondamenta e comunicava a loro medesimi quel fremito.

- Io ho paura, la notte, quando passa e scuote la casa, - disse Ippolita stringendosi sempre più all'amante. - Anche tu; è vero? Qualche volta ti ho sentito trasalire...

Egli non intendeva quelle parole. Era dentro di lui un tumulto immenso; era la più gagliarda e la più oscura agitazione che la sua anima avesse mai contenuta fino a quell'attimo. Pensieri ed imagini incoerenti gli turbinavano nel cervello mentre il cuore gli si torceva sotto mille punture crudeli. Ma un'imagine, fissa, dominava su tutte le altre; a poco a poco oscurava e fugava tutte le altre, rioccupando il centro dell'anima. - Che faceva egli, cinque anni innanzi, in quell'ora? Vegliava un cadavere; guardava una faccia nascosta da un velo nero, una mano lunga e pallida...

Le mani d'Ippolita lo toccavano inquietamene te, gli s'insinuavano nei capelli, gli vellicavano la nuca. Egli sentì sul collo, sotto l'orecchio, la bocca di lei umida e succhiante come una ventosa. Con un moto istintivo, che non poté frenare, si discostò, si ritrasse. Ella rise di quel singolar riso ironico e impudico che le balenava e le squillava nei denti quand'ella si trovava dinanzi a una repulsa dell'amante. E l'ossesso riudì le sillabe lente e limpide: «Per la paura dei miei baci

Un crepitìo sordo, misto di tuoni distinti, giunse ancóra dalla città in festa. Era una ripresa dei fuochi. E Ippolita si rivolse verso lo spettacolo.

- Guarda! Sembra che Ortona vada in fiamme.

Un vasto rossore si dilatava pel cielo, si rifletteva nelle acque; e v'appariva, dentro, il lineamento della città incendiata. I razzi v'irrompevano con folgorazioni incessanti; le bombe vi scoppiavano con larghe rose di splendori.

«Passerà anche questa nottechiedeva Giorgio a sé stesso. «Ricomincerà domani la vita? e sino a quando?» Un disgusto gagliardo come una nausea e un odio quasi selvaggio gli si levavano dalle radici dell'essere, s'egli pensava che anche per quella notte giacerebbe con la donna sul medesimo guanciale e ascolterebbe nell'insonnio il respiro della dormiente e sentirebbe l'odore e il contatto della carne accaldata e soccomberebbe di nuovo al desiderio e rimarrebbe di nuovo sotto il peso della bestiale tristezza e poi s'affaccerebbe di nuovo al giorno, si estenuerebbe nel consueto ozio fra le torture delle perpetue alternative...

Una luce vivissima lo colpì, richiamò il suo sguardo allo spettacolo esteriore. Una vasta rosa di candor plenilunare, aprendosi su la città festante, illuminava tutta la marina a gran distanza giù giù per quella successione di piccole baie falcate e di punte protese. La punta del Moro, la Nicchiòla, il Trabocco, le scogliere prossime e remote, perfino la Penna del Vasto, apparvero per qualche attimo nel grande sprazzo.

«Il promontoriosuggerì d'improvviso a Giorgio Aurispa una voce segreta, mentre lo sguardo di lui cadeva su l'altura ben conosciuta che gli olivi contorti coronavano.

La luce candida si spense. La città lontana tacque, ancor distinta nella notte dalle sue luminarie. Nel silenzio, Giorgio percepì di nuovo le vibrazioni del pendolo e i colpi ritmici della maciulla. Ma ora egli poteva dominare la sua ambascia; si sentiva più forte e più lucido.

- Perché non usciamo un poco? - egli disse a Ippolita, con la voce appena appena alterata. - Perché non andiamo in qualche luogo aperto, a distenderci su l'erba e a godere il fresco? Vedi: la notte ora è chiarissima, quasi come una notte di luna.

- No, no - rispose Ippolita svogliatamente. - Restiamo qua.

- È presto ancóra. Hai già sonno tu? Tu sai: io non posso mettermi a letto troppo presto. Non dormo, soffro... Volentieri passeggerei un poco. Via, non esser pigra! Andiamo. Puoi venire come ti trovi, senza fatica.

- No, no... Restiamo qua.

Ella gli cingeva di nuovo il collo con le braccia nude, languida, lusinghevole, desiderandolo.

- Restiamo qua. Vieni a distenderti con me sul divano - ella lusingava, tentando di trarlo, invasa da un desiderio più acre come più egli le resisteva. - Vieni con me!

Era tutta ardente e tutta bella. La sua bellezza s'era accesa come una face. Il suo lungo corpo serpentino vibrava a traverso la tenuità della veste. I suoi grandi occhi oscuri emanavano il fascino delle supreme ore di passione. Ella era la sovrana Lussuria che ripeteva: «Io sono sempre l'invitta... Sono più forte del tuo pensiero... L'odore della mia pelle può dissolvere in te un mondo

- No, no, non voglio! - oppose Giorgio afferrandola per le braccia con una risolutezza quasi aspra, ch'egli non seppe moderare.

- Ah, tu non vuoi? - -ella irrise, piacendosi della lotta, sicura di vincere, incapace di rinunziare in quel momento al suo capriccio.

Egli si pentì dell'impeto. Per riuscire a trarla nell'agguato, egli doveva mostrarsi dolce e carezzevole, doveva simulare l'ardore e la tenerezza. - Certo egli l'avrebbe, dopo, persuasa alla gita notturna, all'ultima passeggiata. - Ma sentiva bene l'assoluta necessità di non disperdere nell'amplesso quella sua momentanea energia nervosa su cui doveva fare assegnamento per la prossima azione.

- Ah, tu non vuoi? - ripetè la donna riallacciandolo, fissandogli da presso gli occhi negli occhi con una specie di furia contenuta.

Egli si lasciò trarre dentro la stanza. Caddero entrambi allacciati sul divano.

Allora tutta la lascivia felina della Nemica si manifestò sul corpo di colui ch'ella credeva già vinto. Ella disciolse i suoi capelli, discinse le sue vesti, si agitò come un arbusto dalle foglie odorifere per rendere tutto il suo profumo. Quasi pareva ch'ella sapesse di dover disarmare, snervare, fiaccare quell'uomo per impedirgli di nuocere.

Sentì Giorgio che tutto era perduto. Si svincolò con uno sforzo ch'ebbe per intimo impulso una ferocia animale; abbatté la creatura terribile; e, tra il disgusto e l'ira, con le sue mani convulsamente soddisfece sino allo spasimo quella brama esasperata.

Si divincolava ella gemendo.

- Non più! Non più! Lasciami!

Egli persisteva, se bene soffocato dal disgusto, vedendola spasimare, udendo lo strano rumore che le mettevano nel ventre i sussulti del viscere sterile e infermo. Tutta l'ignominia del sesso era sotto gli occhi suoi.

- Non più! Lasciami!

Ed ella a un tratto fu presa da un riso nervoso, frenetico, incoercibile, - lugubre come il riso d'una demente.

Sbigottito, egli la lasciò. Con un orrore palese, la guardava pensando: «È la follia

Ella rideva, rideva, rideva, contorcendosi, coprendosi il volto con le mani, mordendosi le dita, premendosi i fianchi; rideva, rideva senza freno, scossa come da lunghi singulti sonori.

A intervalli s'arrestava per qualche attimo; poi ricominciava con un nuovo impeto. E nulla era più lugubre di quelle risa folli in quel silenzio della notte alta.

- Non aver paura! Non aver paura! - ella diceva negli arresti, vedendo l'amante perplesso e sbigottito. - Ora mi calmo. Vattene, va fuori. Ti prego!

Egli uscì su la loggia, come in sogno. Pure, il suo cervello era stranamente lucido e vigile. Tutto ciò ch'egli compiva, ch'egli sentiva, aveva per lui l'irrealità d'un sogno e nel tempo medesimo un significato profondo come quello di un'allegoria. Udiva egli ancóra dietro di sé le risa ma represse. Conservava ancóra nelle dita la sensazione della cosa impura. Vedeva, sopra e intorno, la bellezza della notte d'estate. Sapeva quel che era per compiersi.

Le risa cessarono. Nel silenzio egli percepì di nuovo le vibrazioni del pendolo e i colpi ritmici della maciulla su l'aia lontana. Trasalì quando gli giunse un gemito dalla casa dei vecchi. - Era il dolore di colei che stava per partorire.

«Tutto deve compiersi» pensò. E, rivolgendosi, mise il piede su la soglia senza vacillare.

Ippolita giaceva sul divano ricomposta, impallidita, con gli occhi socchiusi. Sentendo avvicinarsi l'amante, ella sorrise.

- Vieni! Siéditi! - mormorò, con un gesto vago.

Chinandosi verso di lei, Giorgio le vide tra i cigli l'umidità delle lacrime. Sedette da presso. Le chiese:

- Soffri?

- Mi sento un poco soffocata, - ella rispose. - Ho un peso qui, come un globo che mi sale e mi scende...

E indicò il mezzo del petto.

- Nel chiuso si soffoca - -egli disse. - Perché non ti fai forza per levarti, per uscire? L'aria ti gioverà. È una magnifica notte. Su, via!

Egli si alzò e le tese le mani. Ella gli porse le sue e si lasciò trarre. In piedi, scosse il capo per mandare indietro i capelli che ancóra erano sciolti. Poi si chinò a cercare sul divano le forcine smarrite.

- Dove saranno?

- Che cerchi?

- Le mie forcine.

- Lascia! Le troverai domani.

- Ma, senza, non posso ravviarmi i capelli.

- Lasciali così, sciolti. Mi piaci.

Ella sorrise. Uscirono su la loggia. Ella volse la faccia alle stelle e aspirò il profumo della notte d'estate.

- Vedi che notte? - disse Giorgio, con la voce roca ma dolce.

- Battono il lino - disse Ippolita tendendo l'orecchio al ritmo incessante.

- Scendiamo - disse Giorgio. - Passeggiamo un poco. Arriviamo fin , agli olivi.

Egli pareva pendere dalle labbra di lei.

- No, no... Restiamo qua. Non vedi come sono?

Ella indicava le sue vesti gualcite e discinte.

- Che importa? Chi ci vedrà? Non s'incontra un'anima a quest'ora. Puoi venire così. Anch'io vengo così, senza cappello... Il paese è per noi quasi un giardino. Scendiamo!

Ella esitò per qualche attimo. Ma anch'ella provava il bisogno di rompere l'aria, di allontanarsi dalla casa dove le pareva risonasse ancor l'eco di quelle sue orribili risa.

- Scendiamo - consentì.

Il cuore di Giorgio parve arrestarsi, a quella parola.

Per un moto istintivo egli si avvicinò alla soglia della stanza illuminata. Gittò nell'interno uno sguardo pieno d'angoscia, uno sguardo di addio. Tutto il turbine dei ricordi gli si levò nell'anima perdutamente.

- Lasciamo accese le lampade? - chiese senza pensarci, provando nell'udire la sua propria voce una sensazione indefinibile di cosa lontana ed estranea.

- Sì - rispose Ippolita.

Discesero.

Giù per la scala si tenevano per mano, posando il piede di gradino in gradino con lentezza. Lo sforzo di Giorgio per contenere la sua ambascia era così fiero ch'egli si sentiva da quello esaltare stranamente e considerava l'immensità della notte credendola riempiuta dall'intensità della sua propria vita.

Scorsero sul parapetto dello spiazzo l'ombra d'un uomo immobile e silenziosa. Riconobbero il vecchio.

- Come qua, a quest'ora, Cola? - gli parlò Ippolita. - Non avete sonno?

- Sto a veglia per Candia - egli rispose - che ha le doglie.

- Doglie buone?

- Doglie buone.

La porta dell'abituro era infatti illuminata.

- Aspetta un minuto - disse Ippolita al compagno. - Vado a vedere Candia.

- No, non andare ora, - pregò Giorgio - non andare! La vedrai tornando.

- Bene; la vedrò tornando. Addio, Cola.

Scendendo nella viottola, ella mise un piede in fallo.

- Sta attenta! - ammoni l'ombra del vecchio.

Giorgio le offerse:

- Vuoi appoggiarti a me?

Ella mise il suo braccio sotto il braccio di lui.

Camminarono per un tratto in silenzio.

La notte era chiara, gloriosa di tutte le sue corone. La Grande Orsa imminente ardeva nel suo settemplice mistero. L'Adriatico, muto e puro come il cielo superiore, dava per soli indizii di sé il respiro e il profumo.

- Perché ti affretti? - domandò Ippolita.

Giorgio rallentò il passo. Dominato da un solo pensiero, incalzato dalla necessità dell'atto, egli non aveva se non una confusa conscienza di tutto il resto. La sua vita interiore pareva disgregarsi, decomporsi, disciogliersi in una sorda fermentazione che invadeva pur gli strati più profondi risollevandone alla superficie frammenti informi, di natura diversa, irriconoscibili come se non appartenessero alla medesima vita ma vi fossero intrusi. Ed egli percepiva tutte quelle cose strane folte agitate pugnanti, vagamente, come in un dormiveglia; mentre un punto solo del suo cervello aveva una straordinaria lucidità e lo guidava per una linea rigida all'atto finale.

- Che malinconia, quel rumore della maciulla su l'aia! - disse Ippolita soffermandosi. - Tutta la notte battono il lino. Non ti fa malinconia?

Ella gli si abbandonava sul braccio, gli sfiorava con le ciocche la guancia.

- Ti ricordi, ad Albano, quei selciatori che battevano le selci tutto il giorno sotto la nostra finestra?

Ella ora aveva la voce velata di tristezza, un po' stanca.

- Qualche volta a quel rumore ci assopivamo...

Ella s'interruppe, inquieta.

- Perché ti volti sempre?

- Mi pare di sentire un passo come d'un uomo scalzo - rispose Giorgio, piano; e s'accorse che la radice dei capelli gli era divenuta sensibile. - Fermiamoci.

Si fermarono, ascoltarono.

Giorgio era sotto il dominio di quel medesimo orrore che l'aveva agghiacciato dinanzi alla porta della stanza tragica. Tutto il suo essere tremava affascinato dal mistero, credendo di aver già varcato i confini di un mondo sconosciuto.

- È Giardino - disse Ippolita scorgendo il cane che s'appressava. - Ci segue.

Ed ella chiamò più volte l'amico seguace, che accorse saltellando. Si chinò ad accarezzarlo.

- Tu non lasci mai l'amica tua; è vero? - gli parlava con quel particolar suono di voce ch'ella soleva prendere quando blandiva gli animali a lei cari. - È vero? tu non la lasci mai...

Il cane riconoscente si rotolò nella polvere.

Giorgio fece qualche passo. Provava un grande sollievo nel sentirsi liberato dal braccio d'Ippolita, poiché fino a quel punto il contatto di lei gli aveva dato una sofferenza fisica indefinibile. Egli imaginava l'azione repentina e violenta che doveva compiere, imaginava la stretta mortale delle sue proprie braccia intorno al corpo di lei; e non avrebbe voluto più toccarla se non nell'attimo estremo.

- Vieni, cammina. Siamo giunti - disse, precedendola verso gli olivi che biancicavano al lume delle stelle.

S'arrestò sul limite dello spazio piano e si rivolse per assicurarsi ch'ella lo seguiva. Ancóra una volta gittò intorno, perdutamente, uno sguardo come per abbracciare l'imagine della notte. Gli parve che in quello spazio il silenzio fosse più profondo. Soltanto s'udivano i colpi ritmici della maciulla su l'aia lontana.

- Vieni - ripeté con una voce chiara, invaso da una sùbita energia.

E, passando fra i tronchi contorti, sentendo sotto il piede la mollezza dell'erba, si diresse verso il margine del precipizio.

Il margine era tutto libero in cerchio, senz'alcun riparo. Egli si sporse cautamente, poggiando le mani contro le ginocchia e su quel sostegno inchinando il busto. Osservò la scogliera sottoposta; vide un lembo della spiaggia ghiaiosa. Il morticino disteso su la ghiaia gli riapparve. Gli riapparve nella memoria la chiazza nerastra ch'egli e Ippolita dall'alto del Pincio avevano veduta sul lastrico a piè della muraglia; e riudì le risposte del carrettiere all'uomo verdiccio. E in confuso gli passarono su lo spirito i fantasmi di quel pomeriggio remotissimo.

- Bada! - gridò verso di lui Ippolita sopraggiungendo. - Bada!

Il cane latrava tra gli olivi.

- Giorgio! M'ascolti? Lèvati di !

Il promontorio calava a picco su la deserta scogliera nerastra intorno a cui l'acqua tranquilla si moveva appena appena con un tenue sciacquìo cullando nelle sue lente ondulazioni i riflessi delle stelle.

- Giorgio! Giorgio!

- Non aver paura - egli disse, con la voce roca. - Avvicinati. Vieni! Vieni a vedere i pescatori che pescano tra gli scogli con le fiaccole...

- No, no. Ho paura della vertigine.

- Vieni! Ti reggo io forte.

- No, no...

Ella pareva colpita dal suono insolito della voce di Giorgio; e un sbigottimento cominciava a invaderla.

- Ma vieni!

Ed egli le si appressò con le mani tese. Rapidamente l'afferrò per i polsi, la trascinò per un piccolo tratto; poi la strinse tra le braccia, con un balzo, tentando di piegarla verso l'abisso.

- No, no, no...

Con uno sforzo rabbioso ella resistette, si divincolò, riuscì a liberarsi, saltò indietro anelando e tremando.

- Sei pazzo? - gridò con l'ira nella gola. - Sei pazzo?

Ma, come se lo vide venire di nuovo addosso senza parlare, come si sentì afferrata con una violenza più acre e trascinata ancóra verso il pericolo, ella comprese tutto in un gran lampo sinistro che le folgorò l'anima di terrore.

- No, no, Giorgio! Lasciami! Lasciami! Ancóra un minuto! Ascolta! Ascolta! Un minuto! Voglio dirti...

Ella supplicava, folle di terrore, divincolandosi. Sperava di trattenerlo, d'impietosirlo.

- Un minuto! Ascolta! Ti amo! Perdonami! Perdonami!

Ella balbettava parole incoerenti, disperata, sentendosi vincere, perdendo terreno, vedendo la morte.

- Assassino! - urlò allora furibonda.

E si difese con le unghie, con i morsi, come una fiera.

- Assassino! - urlò sentendosi afferrare per i capelli, stramazzando al suolo su l'orlo dell'abisso, perduta.

Il cane latrava contro il viluppo.

Fu una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell'ora nel profondo dell'anima un odio supremo.

E precipitarono nella morte avvinti.

 

Settembre 1889 - Marzo 1894.

 

 

 


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