Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'urna inesausta
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L’orazion piccola in vista del Carnaro

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L’orazion piccola in vista

del Carnaro

Li miei compagni fec’io sì acuti

con questa orazion picciola…

inf. xxvi

Ufficiali di tutte le armi, vi guardo in faccia. Alcuni ora conosco, altri io riconosco. I vostri nomi e i vostri aspetti sono incancellabili dentro me. Non li dimenticherò più mai.

Fin da questo attimo di sosta voi siete miei. Interamente vi considero miei, e perdutamente, come i Sette giurati della terra di Ronchi omai lontana dietro di noi co’ suoi vivi ma prossima a noi sempre comorti del suo camposanto: miei come quelli che il trentuno d’agosto in Udine giurarono sopra due bandiere e sopra un’arme corta.

Non era un di que’ pugnali detti spezzaspade, che il duellatore alla disperata portava nella mano manca? Mi piace d’imaginarlo.

Superate in numero i miei di Vienna; eguagliate in numero i miei di Bùccari.

Agli aviatori dissi tranquillo: «Se non arriverò, non tornerò indietro. Se non arriverete, voi non tornerete indietro.» Fu il mio comando, e fu il loro giuramento.

Ai marinai dissi tranquillo: «La nostra impresa è tanto audace che già questa partenza è una vittoria sopra la sorte. Ciascuno darà non tutto sé ma più che tutto sé; farà non secondo le sue forze ma di dalle sue forze.» Fu il mio comando, e fu il loro giuramento.

Questo è detto, anche per voi. Sarà fatto, anche da voi.

La mia volontà usa porre dietro di sé l’irreparabile. Credo che simile sprezzo in antico significasse: rompere il ponte, bruciare i ponti.

Io scrissi ieri, sul punto di partire, a un compagno di fede e di violenza: «Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi.» La scrittura è di bonissimo inchiostro.

Ora bisogna – m’intendete? – bisogna che io prenda la città.

Abbiamo il sole e il vento del Carnaro in faccia. Siamo in un prato cinto di macerie; che mi ricorda l’Agro e gli ostacoli da saltare a cavallo. «Vien l’odor di Roma al cuore» come nella canzone dei Trenta. Ottimo segno.

Mi guardate. Sì, è vero, ho la febbre alta. Non so se il mio volto sia pallido o acceso. Ma certo in me arde un dèmone, il mio dèmone. E dal male non menomato mi sento ma aumentato.

Basta.

Ecco il mio gagliardetto blu, con le Sette stelle dell’Orsa: quel di Buccari e di Vienna, di Pola e di Cattaro. Oggi è più magnetico delle due bandiere.

Giuriamoci.

So che la barra di Cantrida guardano i moschetti e le mitragliatrici delle tre Potenze, ma anche dell’Italia spuria. Spezzeremo la barra.

Io sarò innanzi: primo.

Ufficiali di tutte le armi, ognuno a capo della sua gente e delle sue macchine. Vi saluto.

«Eia, carne del Carnaro!

Alalà

12 settembre 1919.


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