Gabriele D'Annunzio: Opera omnia
L'urna inesausta
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La prima voce dell’arengo

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La prima voce dell’arengo

[xii settembre mcmxix]

Italiani di Fiume,

eccomi. Non vorrei pronunziare oggi altra parola.

Ecco l’uomo; che ha tutto abbandonato di sé e tutto ha dimenticato di sé per esser libero e nuovo al servigio della Causa bella, della Causa vostra: la più bella nel mondo, e l’eccelsa, per un combattente che in tanta bassezza e in tanta tristezza cerchi ancóra una ragione di vivere e di credere, di donarsi e di morire.

Eccomi. Sono venuto per donarmi intiero. E non domando se non di ottenere il diritto di cittadinanza nella Città di Vita, il privilegio di cittadinanza, il beneficio solenne; perché – se da questa ringhiera, se da questo arengo non parlo soltanto a voi, Fiumani, ma a tutti i Dàlmati oggi accomunati e riarmati nella stessa Causa – m’è dolce invocar qui la nobiltà di Zara che so come in un fiero documento dell’Anno di Grazia 1260 dichiari beneficio il grado e il titolo di cittadino: beneficium civitatis et cittadinantiae nostrae.

Per altissimo beneficio teniamo la vostra accoglienza io e i miei compagni. E io mi credo aver qui il mio focolare, il mio altare, il mio tumulo, non come se da voi li ottenessi ma come se li ritrovassi dopo una oscura assenza, dopo una lunga navigazione: come se mi riconducesse all’approdo quel naviglio della mia gente d’Abruzzi che tante volte per traffico entrò nel vostro porto recando a prua le figure della mia puerizia. Non senza allegrezza rammento che in un registro di gabelle portuarie è segnato il nome d’un de’ miei maggiori salpato dalla foce della Pescara. Or io voglio sentir rivivere nel mio sangue la sua maschia rudezza che prolunga nel passato la mia fedeltà. Cosicché nel chiamarmi Fiumanissimo io non pecco per eccesso d’orgoglio. E in ogni modo l’eccesso può essermi condonato. Questa è la terza volta ch’io mi ribattezzo e al fonte di San Vito e nell’amaro del Carnaro.

La prima volta giunsi inerme e imbelle, e senza lauro, avendo meco il solo peso di un poema adriatico: il peso di un gioioso e doloroso fato.

Ma la seconda volta io tagliai con la prua bene armata le riflesse luci di Fiume nelle acque notturne. E dico che il Quarnero austriaco ridivenne Carnaro italiano in quella notte; e che da quella notte prese principio l’impresa italiana di Fiume.

Italiani di Fiume, lo spirito notturno di Buccari vige. Pochi siamo contro molti, siamo pochi contro il mondo. Tuttavia siamo più di trenta, e abbiamo più di tre gusci e più di sei mitragliatrici. Non soltanto in coraggio ma in numero ci moltiplicheremo. Io non ho mai misurato le forze al cómpito.

Nella scorsa notte, quando mancavano i carri, balzato con la mia febbre acuta dalla branda lacera, escìi all’aperto, seguìi perdutamente la mia smania. Scorsi la grande larva di Guglielmo Oberdan palpitante sopra quel tristo muro dove l’aveva agguantato il birro. Intravidi il folto delle croci nel vasto carnaio dei fanti, che al rombo del mio orecchio non erano ammutoliti sotterra ma comandavano. E deliberai di partire con i sette compagni giurati, con i sette miei giovani Granatieri che avevano segnato il patto, con questi che mi sono a fianco. Non li vedete? non li riconoscete? E diedi l’ordine. E fui pronto. E pronti essi furono. Ero certo di vincere anche con loro soli.

Non dalla gola di Buccari, non dalla scìa viva nel Carnaro vivo, non da que’ riflessi delle vostre luci remote mi veniva la certezza?

Io, Costanzo Ciano, Luigi Rizzo dicevamo guardandoci negli occhi irrisóri: «Se ci son tre uomini su questo ponte, c’è una nave di meno laggiù

De’ tre compagni oggi sono qui io solo. Eccomi. Rimango. Rimarrò finché avrò fiato in bocca. Dritto in piedi rimarrò, o supino in terra. E non vi domando se non di accettare la mia dedizione. Datemi un sorso della vostra acqua limpida, che mi tolga l’arsura e mi guarisca del male. Sùbito. Mi basta.

Ricordo. In quella notte seguivamo la rotta di tramontana; e la foschìa era così fitta che non riuscivamo a scorgere né la costa di Cherso né la istriana. Angelo Procaccini che stava al timone, un buon Veneto di Mestre, fiutando il vento con le sue nari sagaci di corsaro, mi disse: «Non sente l’odore della terra?» Poi soggiunse, più piano: «Odore di lauro

Ho sentito stamani l’odore del lauro, de’ vostri lauri, assai prima che la barra crosciasse spezzata dall’urto. Coperto di rami, non ho serbato neppure una foglia. Non qui sono per prendere frondi ma animi, non qui per acquistare serti ma spiriti.

Eccomi, con una volontà di rivolta e con una volontà di creazione che sapranno alzare in voi un sentimento di libertà non conosciuto neppure dai più rapidi precursori. Se i nostri padri latini solevano fare una città al nome di un eroe o di una eroina o di un grande evento, noi vogliamo farne una al nome d’Italia, all’amore d’Italia, alla vittoria d’Italia, coi nostri cuori di credenti, con le nostre mani di combattenti.

Ed eccomi da prima a sciogliere un vóto latino annunziato di su la ringhiera del Campidoglio, nel maggio ultimo estuoso.

Parlavo dal Campidoglio al popolo di Roma. Avevo meco la bandiera del Timavo, la bandiera che con Giovanni Randaccio portai a zàino su la strada vecchia di Trieste la sera del 26 maggio 1917 e poi a San Giovanni e alla Quota 28, alla punta del sagliente orientale della Terza Armata, col secondo battaglione del 77° reggimento di fanteria.

Era stata dal mio amore promessa a Trieste. Ma volevo che la consacrasse il popolo di Roma.

Io e Nino Randaccio, prima d’intraprendere la nostra azione sul Timavo, l’avevam destinata a sventolare in cima alla torre di Duino perché da Trieste si vedesse. È grande.

Alla Quota 12, alla Cava di pietra, ripiegata servì di guanciale per l’eroe moribondo. A Monfalcone, coprì il suo santo corpo. Ad Aquileia, coprì il suo feretro; e i larghi lembi strascicavan per terra sollevando la polvere rifecondata.

Così la dispiegai su la ringhiera. È grande, è molto grande. Il lembo rosso giunse a bagnarsi nella tazza della fontana di sotto, per modo che parve a presagio battezzata nell’acqua capitolina.

Verso il presagio gridò il popolo tutto.

E io gridai: «Comandatemi che, prima di donare questa bandiera a Trieste, prima di issarla in cima alla torre quadrata di San Giusto, comandatemi ch’io la porti a tutte le città roventi che non vogliono più attendere, che non possono più patire. Bacio per voi in queste pieghe i nomi delle màrtiri ancóra senza palma: Fiume, Zara, Sebenico, Traù, Spàlato, Almissa, Ragusa, Càttaro, Perasto, tutti i nomi, tutti.»

La passione del popolo mareggiava come in quell’altro maggio, nella stessa piazza, nelle stesse vie, quando io sguainai la spada di Nino Bixio e nella lama ignuda baciai i nomi delle vittorie famose.

Allora io dissi quel che a voi ridico, Italiani di Fiume, con lo stesso animo violento e innamorato: «Ricordarsi e diffidare; diffidare di tutti, confidare in noi stessi; ma, sopra tutto, ricordarsi ricordarsi ricordarsi

E per crudo pegno volli abbrunare la mia bandiera. E dissi: «Abbrunata resti, finché Fiume non sia nostra, finché la Dalmazia intera non sia nostra.» E soggiunsi: «Ogni buon cittadino, in silenzio, abbruni la sua bandiera, finché Fiume non sia nostra, finché la Dalmazia non sia nostra.»

Come gettai sul tricolore una lunga banda di crespo nero, il vento improvviso la investì e la sollevò, quasi volesse distogliere il lutto.

Tutto il popolo novamente gridò al presagio.

Italiani di Fiume, ora spiego il gran Segno.

Vi mostro questo sudario del sacrifizio, questo indizio fatale del compimento.

Sciolgo il vóto in Fiume d’Italia.

Ora, concittadini e commilitoni, innanzi alla bandiera del Timavo, dov’è rimasta effigiata l’imagine sublime del Fante che vi poggiò la testa, mi riconfermate voi unanimi il plebiscito del 30 ottobre 1918?

Ebbene, dopo questo unanime grido che risponde alla stessa mia violenza di ribellione, alla mia stessa potenza di creazione, dico sotto il cielo aperto, in vista dell’Adriatico:

io volontario, io combattente di tutte le armi, fante, marinaio, aviatore, io ferito e mutilato di guerra credo interpretare l’ansia profonda di tutta la mia nazione vera dichiarando oggi restituita per sempre la città di fiume all’talia madre.



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