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oggi è il Natale della terza Roma, oggi è l’anniversario dell’alta conquista, il primo anniversario dopo la vittoria piena, il primo anniversario dopo la pace ingiusta.
In tutte le vie dell’Urbe e nelle vie d’ogni città maggiore e minore, in tutti gli edifizii civici e in tutte le case del popolo grande e minuto, dall’eterno Campidoglio alla loggia comunale, dal bianco Altare della Patria al ferrigno palagio del podestà, il tricolore sventola. Sventola ai secoli della stirpe eletta e sventola all’avvenire della stirpe eletta, con eguale orgoglio.
Ma se oggi alcuna di quelle bandiere non è issata all’asta in nome di Fiume, in riconoscimento di Fiume e delle sue terre e delle sue isole, essa non è bandiera d’Italia: è una falsa insegna.
Qui stamani il tricolore è a noi un aspetto della luce mattutina, è una figura della fiamma solare. Splende e arde, arde e purifica, purifica e glorifica. Nel movimento di ogni piega è l’assunzione di un’anima bella.
Non v’è in tutta la Patria un luogo eccelso – non ròcca di signoria, non torre di comune, non cuspide di duomo, non lanterna di cupola, non altezza alcuna edificata da superbia di tiranni o da virtù popolare – che non sia dalla nostra altezza superato.
Davanti alla nazione e davanti al mondo, di contro all’ombra di due Continenti, la vostra bandiera è la più alta.
È issata al culmine della passione eroica. È issata alla cima della volontà umana e sovrumana di patire, di lottare, di resistere. È issata là dove la vita e la morte sono una sola forza alterna di creazione.
Neppure la folgore dell’ira celeste potrebbe schiantarla. Ma l’assenso celeste l’irradia.
Il Dio di Dante è con noi. Il Dio degli eroi e dei martiri è con noi. È con noi il Dio tremendo e soave che ha i suoi oratorii sul Grappa, sul Montello, nel Carso, che ha le sue mille e mille croci nei cimiteri silenziosi dei fanti, che ha quattordicimila croci in quella terra arsiccia di Ronchi da dove l’altra notte ci partimmo credendo sentire nell’aria l’odore beato del sangue di Guglielmo Oberdan misto al fiato leonino dei combattenti di Marsala accorsi.
Ci fu un santo d’Italia che sul punto di trapassare piangeva e, domandato perché piangesse, rispose: «Piango perché l’Amore non è amato.»
Santi ci sono tra voi, santi di popolo; e non piangono. Essi sanno, essi veggono che qui l’Amore è amato, che l’Amore non fu mai tanto amato.
Tutto quel che accade, accade per conoscenza e per virtù d’amore. Senza numero e senza pausa, forze vergini e veementi convergono alla Città Olocausta. Il fiore della prodezza italiana è qui raccolto. Chi fu ferito, vuol essere ferito ancóra. Chi fu mutilato, vuol essere novamente mutilato. Chi diede un occhio, vuol dare l’altro occhio e serbare in sé la luce perpetua. Chi diede una parte del sangue vuole votarsi fino all’ultima goccia. L’atto più difficile sembra agevole: il sacrifizio più duro sembra lieve. Abbiamo udito singhiozzi che parevano sradicare l’anima dal cuore, nel dubbio che l’offerta non fosse accolta. Abbiamo veduto file intere di soldati restare in ginocchio, nell’implorazione. Abbiamo veduto, attraverso gli sbarramenti inutili, tendersi tutte le mani fraterne e le armi muoversi per venire a noi come spinte da un comando misterioso. Siamo straziati dalla necessità di dover frenare questo impeto santo.
Chi dunque può sperare di sopraffarci? Chi può sperare non dico di abbattere ma di flettere questa volontà umana e divina?
Il nostro primo giorno fu vittorioso. Ogni altro giorno, fino a oggi, fu vittorioso. Oggi, in radunata solenne di milizie e di popolo, consacriamo la nostra vittoria.
E il Dio nostro faccia che il vento del Carnaro, passando sopra Veglia, sopra Cherso, sopra Lussin, sopra Arbe, sopra ogni isola del nostro arcipelago fedele e giurato, nel natale italico di Roma e di Fiume romana, giunga ad agitare vittoriosamente tutte le bandiere d’Italia.